di BENEDETTO VECCHI.

La crisi corrode relazioni sociali, distrugge ricchezza, fa deflagrare e ricostruisce i rapporti di potere tra le classi. E’ un “evento” che può essere usato per consolidare lo status quo, introducendo elementi di innovazione (la rivoluzione passiva di Antonio Gramsci), oppure una chance per dispiegare una efficace e vincente politica della trasformazione. Da oltre sei anni l’Europa, gli Stati Uniti ne conoscono tuttavia gli effetti, senza riuscire a trovare una via d’uscita. Sono stati anni durante i quali la crisi ha espresso un protervio potere destituente che non ha conosciuto confini. Ha cioè mutato società nazionali e le geografie globali  del capitalismo. E se nel vecchio continente, i paesi cosiddetti mediterranei sono ancora sull’orlo del fallimento statale, quelli del Nord europa, compresa la Germania, sono riusciti a contenerla, scaricando all’esterno dei loro confini tutti i fattori che potevano condurre quei paesi alla recessione.  Sarebbe quindi un errore, meglio un suicidio politico affermare che colpisce in egual misura uomini e donne. L’antica saggezza che portava a dire che la crisi è riversata senza remore sulla fonte primaria della ricchezza, cioè il lavoro vivo, non è solo una semplice constatazione delle dinamiche in atto, bensì un metodo di analisi che la prassi teorica dovrebbe sempre tenere come stella polare nel suo agire. La Germania, ad esempio, è riuscita a gestire la crisi, facendo leva sulla deregolamentazione del mercato del lavoro avviata negli anni di governo socialdemocratico. Olanda e Svezia, invece, hanno fatto della flexsecurity un dispositivo di governo di una tendenziale disoccupazione di massa.

In questi lunghi e plumbei anni, la crisi ha dunque cambiato il panorama sociale, le geografie di potere. Ha distrutto ricchezza. E’ stato un motore di impoverimento. E’ ovvio dunque che strumenti analitici, punti di vista sono stati investiti da essa, costringendo sempre a verifiche, rimesse in discussione di ciò che, almeno a livello teorico, sembrava patrimonio acquisito. Prendiamo ad esempio l’interpretazione abbastanza diffusa, anche nelle realtà italiane e non solo di movimento, che ad essere soprattutto colpiti sono stati i ceti medi. In base a questa spiegazione, i ceti medi hanno conosciuto un declassamento e che per questo, reattivamente, sono disposti a mobilitarsi contro il modello neoliberale di gestione della crisi. E’ una lettura tranquillizzante e rassicurante, quasi che il conflitto sociale e di classe si possa spiegare a partire della perdita di status. I novelli e forse inconsapevoli nipotini di Ralf Dahrendorf non fanno i conti con con la diffusione della povertà, della crescita dell’esercito dei working poor: fenomeni che non riguardano solo alcune figure della forza-lavoro, ma l’insieme del lavoro vivo, dall’operaio di fabbrica all’informatico, dal white collar al redattore giornalistico, dal contadino al copy-writer. Dunque non declassamento del ceto medio, ma riduzione generalizzata del salario, del reddito. Sia chiaro: con questo non si intende cancellare l’accumulo teorico degli anni passati, cioè con l’individuazione di un processo che ha visto diventare forza produttiva non solo il sapere tecnico-scientifico, ma anche la conoscenza sans phrase  e la facoltà di linguaggio dell’essere umano. Semmai, c’è da sottolineare come la metamorfosi della questione sociale, per usare una felice espressione di Robert Castel, è un processo ancora in corso. Con realismo, il “divenire classe della moltitudine” – altra espressione carica di aspettative e di valore euristico – ha preso traiettorie delle quali è difficile individuare le coordinate. Da questo punto di vista, la crisi può essere rappresentata come un’immane distruzione di ricchezza, di intelligenza collettiva. Se tale distruzione possa diventare creativa per il capitale è un nodo però che solo il conflitto sociale e di classe può sciogliere.

Con sprezzante cinismo, tuttavia, i teorici neoliberisti dicono che tale tsunami è stato ed è ancora necessario affinché il sistema ritrovi il suo punto di equilibrio. E’ con questo tsunami che si misura la capacità di presa di una politica della trasformazione, sapendo che la crisi ha esercitato un potere destituente anche sui movimenti sociali. Da anni, infatti, oltre alla crisi della democrazia rappresentativa, e delle sue forme politiche, lo stato-nazione, il partito e il sindacato, assistiamo a una crisi della forma-movimento come modalità privilegiata di un agire politico non statale. Non siamo tuttavia alla catastrofe, bensì di fronte a una contingenza che costringe a ripensare la politica della trasformazione.

Le reazioni, i commenti, le analisi che sono seguiti alla manifestazione del 19 ottobre rappresentano, ognuna a loro modo, la registrazione di una incapacità di fare i conti proprio con la crisi e sui effetti destituenti. Discutere se quella marea di storie di resistenza al neoliberismo sia in continuità o in discontinuità con il recente passato dei movimenti fa sorridere. D’altronde non è una manifestazione l’”evento” che può portare a dire che siamo di fronte a un nuovo movimento. Una manifestazione sospende il tempo, ma sarebbe un’incorreggibile ingenuità affermare che quello del 19 Ottobre costituisca una cesura, rappresentando chissà quale potere costituente di una nuova soggettività politica.

Il corteo che ha attraversato Roma è stato un corteo meticcio non solo per la sua composizione e per la presenza in quanto protagonisti dei migranti, ma anche per la presenza di eterogenee culture e prassi politiche. E’ stato inoltre meticcio perché ad animarlo c’erano gruppi, esperienze che, in ordine sparso, in tutti questi anni hanno contrastato la gestione neoliberista della crisi. La sua forza è costituita dal lavoro della talpa che in questi anni ha caratterizzato pratiche di movimento che solo raramente hanno conquistato il centro della scena pubblica.

Gli occupanti di case, i migranti che affermano il loro diritto a vivere in libertà, l’organizzato rifiuto sociale che una zona venga militarizzata perché scelta per operazioni di intelligence militare nel Mediterraneo, l’opposizione ormai ventennale alla costruzione di una linea ferroviaria dell’alta velocità, i mille gruppi e sindacati di base che hanno operato dentro e contro la precarietà lavorativa hanno deciso di costruire uno spazio pubblico per raccontare la loro resistenza, le loro pratiche, sfuggendo alla rappresentazione che ha caratterizzato i movimenti in questi anni. Per un pomeriggio è stato posto all’ordine del giorno la definizione di una  propria agenda politica che sospenda il tempo sociale imposto dalla crisi e dal potere costituito. Da questo punto di vista è stata una bella, a tratti entusiasmante manifestazione. Non perché si è rifiutata di aderire a un logica di scontro con il potere, ma perché ha deciso che tempi e modalità dello scontro devono essere collocati all’interno di quel lavoro della talpa. In altri termini, la manifestazione del 19 ottobre è stata una manifestazione di autonomia. Tuttavia, non è stata una rassicurante e adrenalinica una zona temporaneamente autonoma, bensì un prototipo di una possibile zona autonoma permanente. Certo c’è stato chi ha provato a fare il “black”, ma ha subito capito che non solo di testosterone i movimenti vivono.

I soliti avvertiti hanno detto che tutto ciò è poco, quasi nulla rispetto a quando sarebbe necessario. E’ facile, ma sarebbe solo un’ennesima pigrizia mentale dire che hanno ragione. Come al solito la realpolitik di chi considera i movimenti sociali sempre inadeguati alla realtà sceglie il gioco più facile, quello di chi inarca il sopracciglio e applica uno schema teorico alla realtà e tutto contento pensa di ave fatto la mossa vincente, quasi che partecipasse a un gioco di ruolo. Se poi quest’ultima eccede quello schema teorico, il sopracciglio inarcato lascia lo spazio all’alzata di spalle, perché viene decretato che è la realtà sociale ad essere incapace ad adeguarsi allo schema teorico.

Non è dunque interessante stabilire se la leadership di movimento sia o no all’altezza della situazione;  o se ci sia un deficit di soggettività tra quanti hanno manifestato. Quel che è rilevante, la posta in gioco appunto, è la possibilità che il prototipo della zona permanentemente autonoma esca dalla sua fase di sperimentazione. Qui una digressione teorica impone la sua logica e costringe a fare un passo indietro.

La crisi del capitale è certo crisi generale. La finanza non è, è sempre utile ripeterlo, solo una disfunzione del processo di valorizzazione. Ne è parte integrante. Quel che abbiamo esperito in questi anni è la sua centralità nel definire le traiettorie dello sviluppo del capitale. Il fatto che il prelievo fiscale, che il rapporto tra il singolo e lo Stato abbia assunto una valenza così determinante nella privatizzazione del welfare state, che il salario sociale differito – le pensioni, la sanità – è ormai integrante, anche se minoritaria, dei flussi finanziari, che il pagamento del mutuo per l’acquisto della casa determini la soglia per essere qualificati come un working poor o un sopravvissuto non sono solo espressioni dell’uomo indebitato,  ma anche il campo in cui viene esercitata una governance e dunque forme di mediazione nella gestione neoliberista della crisi.  Questo spiega la diffusione del microcredito, le tante esperienze di mutuo soccorso municipale che si dispiegano nelle metropoli in quanto parte integrante della governance neoliberale. Da questo punto di vista i partecipanti alla manifestazione del 19 ottobre sono una miniera di informazioni per capire come l’impoverimento diffuso non si sia trasformato in catastrofe sociale, ma che ha alimentatati forme minimali di mutualismo e mutuo soccorso. Da questo punto di vista i migranti hanno portato con loro anche forme appunto di mutuo soccorso che hanno loro consentito di vivere nei paesi di provenienza e di sopravvivere in quelli dove ora vivono. L’impoverimento non ha dunque il volto emaciato del “senza fissa dimora”, bensì del lavoro vivo che è passato sotto le forche caudine della governance neoliberale imposta dal capitale finanziario. E questa è una condizione non solo della provincia italiana o europea, bensì è un dispositivo operante a livello globale.

Ed è su questo crinale che si misura la capacità di autorganizzazione del lavoro vivo. Non di una sua forma specifica – i professional cari alle cosiddette scienze sociali anglosassoni – ma di tutto il lavoro vivo. E’ tempo di abbandonare la ricerca di una figura centrale attorno alla quale operare una ricomposizione della moltitudine. Non c’è figura centrale. Non sono i creativi, né i pubblicitari, né gli informatici, né i ricercatori precari, né i lavoratori dell’industria culturale. In tempi ormai lontani è stato affermato che il sapere, la conoscenza, le capacità linguistiche dell’essere umano erano state messe al lavoro. E’ stato uno spartiacque, un gesto di rottura teorica e politica, perché indicava che le forme dello sfruttamento tendevano a permeare la vita stessa.  Ma come un virus quella messa in produzione di sapere, conoscenza e linguaggio ha caratterizzato il processo lavorativo en general. Le poche, sporadiche inchieste sulla condizione operaia mettono in evidenza che l’intensità dello sfruttamento non è dovuta solo all’aumento dei ritmi lavorativa, ma perché gli operai di fabbrica devono mettere al lavoro le conoscenze tacite, la loro capacità di sviluppare cooperazione produttiva. E se talvolta capita di parlare con un “operatore” della logistica, emergono altri fattori dello sfruttamento che hanno a che fare con la dimensione linguistica, relazionale. Sarebbe interessante mettere in relazione il “divenire fabbrica della metropoli” – altra espressione tanto affascinante, quanto enigmatica – con le forme di vita insediate appunto nella metropoli. Altro capitolo da aprire sarebbe quello della precarietà, che affrontata come una questione generazionale conduce solo in feroci vicoli cieco dove il giovane si scaglia contro i supposti privilegi del “vecchio”, cioè quei diritti sociali di cittadinanza conquistati dal lavoro vivo in epoca fordista.  Anche in questo caso, è tempo che la precarietà, in quanto condizione generale, venga messa in relazione con la gestione neoliberale della crisi e con la finanziarizzazione delle forme di tutela.

La necessità, dunque, è che tutto il lavoro vivo si autorganizzi. E’ questa la posta in gioco.

Il 19 ottobre non è nato un nuovo movimento sociale, bensì hanno preso la parola le tante e diffuse forme di resistenza alla gestione neoliberale della crisi. E’ il lavoro della talpa che si è manifestato. Sta adesso a tutti noi, lavorare affinché si possa nuovamente escalmare: “ben scavato, vecchia talpa”.

Roma 2 Novembre 2013

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