di FANT PRECARIO.
Son qui a parlare di musica, un po’ perché mi era stato chiesto da un tizio (tipo Coppi che tagliato il traguardo a Lugano invece di andare a salutare la dama bianca va a pulire i cessi della stazione vicina – infatti è poi andato a dama, ma questa è un’altra storia), un po’ perché di altro “nulla so”, come dicono i testimoni reticenti – e io lo sono.
Ne parlo partendo da prima del 1968 e arrivando a dopo, perché come tutti dovrebbero sapere il 1968 (quello che si apprende dalle commemorazioni, dal ricordo, dal reducismo, magari dalle parole di “chi ce l’ha fatta”) non è mai esistito, perché il movimento operaio potrebbe dire al capitale non rimpiango tutto quello che mi hai dato / che son io che l’ho creato / e potrei rifarlo ora.
E su questo “ora” non possiamo avere dubbi: perché ogni giorno lo (ri)facciamo, esacerbando il livello delle contraddizioni, opponendo il superamento delle condizioni giornaliere che il capitale ci consegna.
La differenza rispetto all’anno di Capanna (e questo è già un dato di nulla) e De Andrè (che quando ne cantò fece la figura di chi aveva letto Brassens con le lenti di padre Eligio) è che lo facciamo dall’interno di quella fogna che si chiama desiderio, e il nostro assalto al cielo ogni giorno si scontra con un tombino perché il cadavere del riformismo ha cacciato i suoi figli ingrati nelle fogne, mentre i fascisti a dispetto dei Katanga restano in Vaticano, in Parlamento, nelle discoteche alla moda.
Il 1968 registra l’uscita di Anthem of the sun dei Grateful Dead, Ars Longa Vita Brevis dei Nice, Astral Weeks di Van Morrison, Crown of Creations dei Jefferson Airplane, The Notorious Byrds Brothers dei Byrds, Odgens’ Nut Gone Flake degli Small Faces, Mess in F minor degli Electric Prunes, The Book of Taliesyn dei Deep Purple, The Kinks are the village green preservation society dei Kinks, Blood Sweet & Tears dei cialtroni omonimi.
Pur messi li un po’ alla cazzo, questi vinili evidenziano un tot di elementi che caratterizzano l’anno del maggio:
(i) La costante crescita del R&R inarrestabile dal 1954, cioè il dispiegarsi della potenza proletaria attraverso un suono via via più complesso ma sempre indiscriminato e dettato dal tempo della catena, patisce una secca battuta di arresto;
(ii) Lo stallo non è visibile a orecchio nudo, ma ravvisabile nella diversificazione (mistificata nella pretesa fusion) dei generi, generi – forse – già presenti prima: ma come attitudine, non come patente di style e tecnica. La diversificazione è un contributo fortissimo alla legge del valore che l’operaio massa voleva disarticolare; essa chiarisce i codici, riduce l’insurrezione a un pantalone a zampa, la lotta di classe a una coca-colata sulla spiaggia. Alterando il significato del gesto, lo rende chiaro e visibile: quindi vendibile come arma disinnescata.
I Byrds (non me ne voglia il ⇒ Grievous Angel) vanno dritti dritti nel recinto del country diventato stereotipo che troverà degno epilogo berlusconiano in Dallas e nelle epiche corse di Boy e Luke…
– …che Woody Guthrie è dimenticato: si preferiscono le cartoline rosa di canditi e gialle di spighe…
– …solo Arlo, prima di rifugiarsi nel Ristorante di Alice – da dove venne sfrattato dall’Equipe 84 – portò il livello dello scontro dal treno paterno allo scrambler…
– …e a Dylan che non sapeva andare in moto sappiamo cosa successe).
I Deep Purple, novelli Pio XII, inaugurano tralaticie mortificazioni del blues, tanto pesanti (si diceva hard, no?) quanto insulse. I Kinks si giocano la carta degli spiritosoni d’ufficio. I Blood Sweet & Tears cercano nei fiati una dignità wagnerian-funky che non hanno mai avuto. Di Emerson e del suo moog tracotante, l’unica cosa bella da dire è che è morto (pur sempre troppo tardi).
A seguire:
(iii) Il ’67 l’abbiamo chiuso inebriati di droga e sudore alla catena, “fatti” di ⇒ Sensazioni hendrixiane regalateci da Nico di Palo;
(iv) Il ’69 sarà tutta una suite di morti e stragi. Poi si apriranno stagioni veicolate da giornalacci e organizzatori di concerti spacciati per visionari, e non basterà l’automutilazione del punk a rimettere le cose a posto.
A mio modesto parere, che peraltro condivido, l’unità dell’ordinamento data dal beat, sapiente convogliatore di istanze costituenti del centro-sinistra, è per sempre perduta. Non si trattava di monolite, non c’era Dracone a dettare purezza che dal bacino di Elvis transita liscia a Dio che sogghigna Paint it Black: guardate il Mick del 1965 e quello dell’Hyde Park del 1969, ce lo vedete uno Jagger che non sia rappreso nella melassa della legge del valore che accetta di fare un concerto con la pacchianeria cremisi?
Eppur si muove(va).
L’operaio massa, incurante della ristrutturazione parcellizzante, preso l’abbrivio in piazza De Ferrari stava correndo veloce sempre più veloce, tanto che proprio dal 1968 (e perlomeno sino al 1979) non sarebbe “scappato più”.
Magari perché quando corri non senti che il suono si gela, contorce, diventa simulacro del nulla: corri e corri.
Magari perché quando corri tanto e tanto veloce le giacche nere di Pierre Cardin sono d’impiccio, le bandiere rosse di velluto con le medaglie del Soviet Supremo inutile orpello.
Magari perché si corre nudi alla meta.
In quegli anni la corsa liberò i corpi da vesti paludate e paludose: cadevano i cappotti e le cravatte, le tessere sindacali, le chitarre pelose del cantautorame (tanto di partito che intellettualoide), e noi giù per vie e strade a fuggire dalla scuola, dalla fabbrica, dal lavoro…
– …dalla madama, talvolta.
Come si concilia tanta corsa con la cristallizzazione, l’imbolsimento della musicaccia (Muzak) che ascoltavamo? Nel correre si incontravano opulenti aspiranti assessori, futuri direttori di testate giornalistiche che magari li avessimo presi a… (e se fatto fu sempre troppo poco), lessi terzinternazionalisti: l’imputridire dei frutti della summer of love era il segno di quello che patisce l’espressione proletaria al cospetto di tali e tanti figuri.
Ma la distanza tra l’autonomia dei gesti e l’eteronomia dei suoni era tanta e si dilatava con il passare dei mesi – e questo resta.
Le giovani teste proletarie avevano due antidoti per non fare la fine di Franco Mussida, o evitare di andare in India 10 anni dopo i Beatles, come diceva una pubblicità. ⇒ Prima di Rensenbrink, il proletariato giovanile sapeva giocare d’anticipo: perché è il proletariato che si inventa le forme produttive e sociali che il capitale sarà costretto ad adottare in futuro.
E fu proprio l’invenzione del proletariato, l’improvvisazione di nuove forme di vita nello sradicamento dei cancelli (anche quelli sonori che i Montana cercavano di erigere sulle ceneri del primo consumerismo del Pet Sound) a immunizzarlo dalla polenta sonora che l’accumulazione capitalistica del ’68 propinava.
Perché l’operaio ordinato che sfila ordinato per poi tornare a casa ordinato era morto con Vittorio Giua: mentre il partito comunista più grande dell’occidente si pasceva del di lui cadavere per organizzare improbabili scalate alla “maggioranza” (o per fargli da cane da guardia), prendendo le forme di uno stato che neanche Salò, un’altra grande forza spiegava allora le sue ali.
Erano quelli che non volevi vicino sull’autobus e aborrivi in balera; che giravano su Lambrette truccate, vestiti su consiglio di Sun Ra più che di Sofri. Ignoranti e insolenti (racconta Richard Hell a proposito della sua Blank Generation, che del declino sessantottesco è figlia musicalmente per quanto mi riguarda una combinazione estrema ed estrema ambizione), ascoltavamo merda e sognavano il potere (non più) operaio mentre ridevamo al funerale del lavoro e del diritto.
– …le cui etiche risorgeranno proprio quando essi saranno imprigionati nel ghetto del benessere craxiano per alcuni, per altri nelle carceri berlinguerotte).
La soggettivazione si dava anche nella traduzione simultanea della musica, dove l’orecchio non era più passivo convogliatore di note ma riciclatore di parole e armonie che erano vagliate, distorte e quindi ricondotte a senso politico e rivoluzionario dalla perdizione della coscienza di classe.
Ora vi racconto la vera storia di com’è andata.
30 Giugno 1970. Robert Wyatt è seduto al bar con Rocco Fotia (centravanti di regia), stanno festeggiando il decennale dell’insurrezione di Genova: ascolta e riascolta Slightly all the time, sentono forte che la dittatura del Partito dei topi caldi si fa ogni giorno più crudele, perì l’inganno estremo della luna di giugno, la convinzione che potesse articolarsi la liberazione delle catene attraverso catene soltanto più soft (e chi non beve con me? Peste lo colse, evidentemente, e se ascolti ⇒ Fourth, preghi che le pustole e il pus ti liberino dal pericolo dell’ascolto di Impressioni di Settembre).
È la fine dell’orecchio, dell’ascolto obbligato che il teatro borghese aveva delegato ai circoli ARCI, la fine della mediazione (perché l’orecchio travisante significato è rottura), della rappresentanza (perché l’autonomia dell’orecchio espelle le liturgie CGIL, ormai GIL, e parlo della Gioventù Italiana del Littorio e non di De Ponti, in fondo Calamandrei aveva fatto assolvere Grandi, mica i partigiani in galera).
A chi predica chitarre rock nel Jazz,
– …ché da allora tutti, rincoglioniti, avemmo un blues da piangere…
a chi consiglia batterie liftate nella canzone d’autore,
– …per colpa di costoro dopo 40 anni e passa ci sorbiamo ancora Finardi alla radio quanto siamo in coda…
per chi è convinto che la tecnica possa renderci tutti Jaco,
– …chi lo provò si trasformò in statua di sale, come dimostra ogni giorno il monumento che si è auto-eretto Enrico Rava)…
reagendo alle suites orchestrali ampollose come una torta da matrimonio Kulak, Robert prende Gil Evans, smaschera le “orgogliose utopie” (l’ho letto in una recensione) che avevano pasciuto il capitale e consegna ai nostri padiglioni Las Vegas Tango.
Gli scemi parleranno di “genio folle” opponendolo al “quadrato” Rutledge: musse.
L’odio per l’ascolto ordinario, codificato dal potere e/o dal partito è profumato di gioia: lasciare la strada vecchia per quella nuova fu un dovere.
Come se morendo l’orecchio, giunto alle colonne d’Ercole del capitale fordista, si fosse spostato al centro della rivolta. Il proletariato giovanile, animale strano e strategico, carne assurda e rantolante nella ricerca del piacere a mezzo di merci si dota di un terzo orecchio.
Ma a Wyatt non bastava. Il trucco era semplice: come mettere l’LSD nelle figurine dell’Ape Maja da regalare ai bambini dell’asilo, la droga nei bicchieri delle cubiste in discoteca, dare la colpa ai Rom che rubano nelle case. Prese una copia di ⇒ The Madcap Laughs e la rese ostia da offrire alle masse.
Dotato di un clan di untorelli che andava da Smokey Robinson a Pasquale Naso, le ostie furono distribuite ovunque ci fosse uno disposto ad andare ai concerti dei Roxy Music senza trucco, di Mike Olfield con le scarpe antinfortunistiche dell’Italsider, alla festa dell’Unità per cagare sul palco prima dello show (???) di Bennato: insomma tutti quelli che andavano in chiesa dicendo porco dio per vedere se la chiesa – come ammoniva il curato – sarebbe crollata.
L’ostia, masticata, modificava immediatamente la percezione dei suoni. Il giovane proletario dettava la linea alla musica. A canzoni si facevano rivoluzioni, si doveva far poesia.
L’autonomia è la Third Ear Band della vita di strada.
Il terzo orecchio non conosce che se stesso. Sradica il segno e lo accentua, nega le lusinghe del mercato, si fa intraducibile alla valorizzazione laddove pone esso stesso i termini della nuova comprensione. Le slot machine dell’industria della musica come l’urna elettorale: tiri e non escono più monete, inserisci la scheda e l’assessore si dissolve. Se la musica era rotaia che portava alla riproduzione del lavoro salariato, la traduzione del “brano” in canale di scolo del’’autoriduzione faceva esplodere le traversine e il suono, non più veicolato, sbandava inutilizzabile.
Prendi ⇒ Sorona delle Orme, da giorni ormai lontani / persi nel tempo in questa terra grigia / non c’è che spazio per nere paludi / è mutato il grano in aride canne ingiallite. / Le piante, rare ormai, / portano in sé il peso dell’angoscia / non c’è che spazio per fili di lava / son cambiati i riflessi argentati in viscide squame.
Se c’avete un cazzo da fare – ma solo in quel caso eh! – buttate l’orecchio (appunto) a For Absent Friends del mai compianto Tony Banks, uno di quella straripante compagnia di derelitti che compì ⇒ il crimine della cameretta: Un paio di vedove / Ancora sedute lì / Si chiedono se sono in ritardo per la messa / E fa freddo perciò si abbottonano i cappotti / E attraversano il prato, sono sempre le ultime / Passano vicino alle altalene chiuse con il lucchetto / Vicino alla giostra che ancora gira / Vedono avanti una bambina / Che torna a casa in passeggino.
Se proprio avete coraggio da vendere ascoltate, ancora, i contorcimenti statici dell’homo katanensis: Pollution fu scritta su ingaggio di Nixon ancora indeciso sul da farsi con Bretton Woods. Mediocrità a piene mani affermando una musica contemporanea tanto quanto era rivoluzionario Cariglia, il J&B bevuto nei film con Fernando Di Leo donava alle prime pippe dei seguaci di don Giussani un senso di esoticità, la giungla di Salgari, il corpo di Barbara Bouchet in Milano Calibro 9, l’imitazione di Stockhausen fatta da Franco I e Franco IV…
– …ed è subito L’era del Cinghiale Bianco che introduce l’era del cinghiale craxiano!
E noi, non più fruitori perché sordi?
Ditemi come si fa a vivere tutta una vita in questa città, di giorno sudore d’attrezzi, di note a cercare le donne coi prezzi: questo è il futuro cui ci consegnava il PCI.
Come riprenderci prima la fabbrica e poi la città, ascoltando la carrozza di Hans? Ma ve li ricordate i festival italiani ante Re Nudo? E anche lì il proletariato giovanile deviò l’ordine costituito trasformando il senso di quello che i “milanesi” volevano propinarci.
Aerosol Gray Machine, pudibonda marcetta buona ad ammansire le menti più arcigne, canzonette quale mera sommatoria di Revolver e Shawn Philiphs, voce ambigua inidonea a vivificare i Docks di Manchester, diventava inno poderoso. Con quella bocca può dire ciò che vuole: l’orecchio del proletario giovanile divenne la Virna Lisi dei commissariati di ogni periferia.
Stalingrado effettivamente fu, e lo fu in ogni città, ma non per merito del Coro dell’Armata Rossa (richiamo nostalgico a un passato prossimo di oppressione più che a quello remoto di sterminatrice di occasionali Von Paulus) ma di quella musica posticcia liberata da una sostanza lisergica fatta di bulloni e chiavi inglesi.
Anche lo strumento di lavoro godeva della negazione del lavoro: i bulloni volavano liberi in cielo come le nostre anime candide che martoriavano Crosby e Nash tanto flaccidi nella verità quanto inebrianti nell’insurrezione che ne smontava i canoni e le chitarrine sminchiate.
Macché sampietrini, orpello di centri storici ormai estranei, tubi innocenti dalle periferie in costruzione, che il PCI del ’75 avrebbe per sempre plagiato, dirigendole verso una bonarietà infelice e umida: come lanci i bulloni bella fionda, tu li lanci a parabola incrociata, ecc.
Tutto cambiava segno. E allora, perché rompere il cazzo al concerto dei Led Zeppelin? Quattro scemi prepensionati, che su ordine di Kissinger fingevano di essere gli Yardbyrds riuscendoci tanto quanto Mircoli a imitare Di Stefano. Urletti già stantii nel ’65, chitarre post-clapton che erodevano la poca credibilità rimasta ai rituali di massa organizzati.
È vero, avevamo tanto tempo da perdere, ma è altrettanto vero che doveva esserci qualcosa di altro che imponeva certe azioni. Il ricciolo unticcio era un pretesto. Il nemico era l’assolo di batteria. Ore di drumming inutile, come il rumore delle presse, come il borbottio degli scappamenti nella galleria di Recco la domenica pomeriggio tardi al ritorno dal mare, in quei rari giorni di libertà vigilata che il Tribunale della solidarietà nazionale ci aveva concesso (c’avete fatto caso che la musica industrial comincia quando l’industria finisce? Allora ci spieghiamo anche l’oggi, quanto, persa ogni prepotenza costituente, il riciclo perde il connotato offensivo e giace moribondo nel letto di Alessandro Michele).
Il proletariato giovanile adoratore di Onan voleva strappare il culto alla liturgia. Le seghe dovevano essere riservate a qualcosa di più grande che al “sogno” di diventare un cantante rock californiano: Sally Simpson ce l’ha insegnato, sfregiarsi per il capitale è sempre un reato.
L’estremo omaggio a noi stessi.
La borghesia nascente aveva trovato nel diritto soggettivo il latte, e nella sua costituzionalizzazione il potere, la distruzione del diritto a essere felici su disposizione di qualcuno
– …perché il diritto non è tale se qualcuno non te lo riconosce!
– …e quel qualcuno non ti riconosce se non sei possessore di merci (almeno nel tempo di cui scriviamo!).
Il proletariato giovanile si appropriava delle merci, e anche della merce musica, perché non voleva la musica, desiderava il proprio suono. La musica inventata nella testa era dinamite che esplodeva contro il mercato. Quelle ostie erano gocce di valore d’uso che annichilivano lo scambio della merce (che, allora, si prendeva, non si comprava).
Il fatto che si trattasse di un processo comune ma singolare rendeva la musica posta dal mercato (e dai “boss” resisi lacchè: in un attimo da nati per correre divennero nati negli USA e nati per invadere Grenada) inconciliabile con il mercato: perché non esisteva (la musica, intendo: il mercato sì, ma ben presto fu superato dall’autoriduzione, dallo sfondamento).
Riprendiamoci la musica, si diceva: ma non era vero. A chi interessava l’appropriazione di un gesto stantio (à la Kossof, per intenderci) – e poi, per farci cosa? Occorreva abolire la musica (e si cantava anche senza musica aizzava Gigliola Cinquetti non appena ebbe l’età e – rimosso don Seppia – la distanza erotica tra lei e Françoise fu effettivamente troppa) per edificare il comunismo, quello che faceva paura solo a pensarlo, con le piastrelle di ghisa delle braccia secche e incapaci di faticare.
L’improvvisazione la puoi fare se sei Steve Lacy, se sei Derek Bailey.
E se sei nato in un casermone alla periferia della periferia di Sampierdarena? Se della tua famiglia sei il primo che ha studiato (e neanche tanto)? Se Wheels of fire ti ha rotto con la ripetizione dello stesso assolo per ogni canzone, se la California è lontana e, a differenza di qualche anno prima, a te sta anche bene?
L’uso di ostie wyattiche portò ogni singolo proletario a essere improvvisatore.
La possibilità di sentire ciò che si voleva attraverso l’ascolto di ciò che non si desiderava: ecco l’improvvisazione.
Un cenno a parte, per concludere, va fatto a uno dei più importanti dispensatori di ostie che il proletariato giovanile rammenti.
La sua storia comincia proprio nel ’68. Pugni chiusi non ho più speranze, in me c’è la notte più nera, occhi spenti nel buio del mondo per chi è di pietra come me… era già uscito come singolo nel ’67, ma compare nell’album del ’68 I ribelli, sull’onda del cambio di paradigma dettato da quei reazionari della banda dei cuori solitari del sergente Pepe – che da A day in the life in poi il singolo restò strumento di devozione per la sola Rosanna Fratello
– …che in effetti anche se donna era anche un po’ santa.
Non è una canzone d’amore, ma la resa di Agnelli alla firma del CCNL del 1969.
A Zavoli, l’avvocato la racconterà in modo più prosaico e sdegnato – ma eravamo nel 1992, quando i giochi erano finiti e del ’68 restavano solo le rimpatriate:
Il ministro del Lavoro di allora non concluse la trattativa con i metalmeccanici fino a quando io non acconsentii, dopo parecchie ore di resistenza, a riassumere in fabbrica un centinaio di operai che si erano resi responsabili di violenze. Ricordo che, ricattato da queste condizioni, accettai la riassunzione. E l’umiliazione non fu accettare, o subire, questa forma di ricatto, ma, tornato a Torino e presentatomi ai dirigenti della produzione delle fabbriche, comunicare loro che avevo ceduto e che dovevano riassumere questo centinaio di operai violenti. Quello fu l’inizio di dieci anni disastrosi di brutalità e di violenze in fabbrica, che venne corretto [il servilismo PICINO ridotto a sambuca, ultimo oltraggio del CAPO ai Lama di tutte le epoche] solo dopo più di tremila giorni.
Ecco: furono tremila giorni di pugni chiusi di ribelli, di disastrosa brutalità, tutto per “colpa” di un orecchio che si rifiutava di cedere alle lusinghe della melodia e del ritmo.
E l’untorello con la voce che usciva dalle orecchie si prodigò per tremila giorni a scompigliare l’udito dei ragazzi che volevano sottrarsi al comando delle fender di Pecchioli, sino a concludere che gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano. Arrivò a questa conclusione levatisi dai coglioni la Cramps Records e Gianni Sassi (accreditatosi come “l’uomo che inventò il marketing culturale”, a mai più), omaggiando Violette Noziere e tutti quelli che davvero uccisero il padre e non a parole come il Morrison cialtrone che – simbolo di quello che non avrebbe dovuto essere il ’68 – di lì a poco avrebbe tolto il disturbo con grande compiacimento dei muri di ogni periferia che ancora oggi si radicalizza senza bisogno di un velo o di un dio cui genuflettersi.
Lotta lotta compagno
vedrai ce la faremo
lotta lotta compagno
son diventato scemo
son diventato scemo.