di JEAN TIBLE.*

Le proteste di San Paolo del 2013 hanno messo fine alla relativa stabilità in cui viveva il Brasile. Spaventato, l’establishment ha attaccato le conquiste sociali e gettato il paese in una spirale di crisi il cui aspetto peggiore è rappresentato dalla reazione autoritaria contro la forza vitale di una parte finora isolata della popolazione.

Nel giugno 2013, in un contesto di fermento democratico, esplodeva la protesta in Brasile. Era un grido contro un sistema politico-economico che conservava ancora aspetti di schiavismo e che favoriva corruzione e disuguaglianze. La sollevazione popolare sul prezzo del trasporto pubblico di San Paolo del Brasile si è rivelata un fallimento e questo cambiamento è stato a sua volta l’espressione di un clima generale che si stava sviluppando in quegli anni, anche se in maniera poco visibile e sotterranea rispetto ad un punto di vista convenzionale.

La paura, questa sensazione che in genere colpisce le persone comuni sulle loro vulnerabilità, si trasforma, nei momenti di protesta popolare, in uno strumento che instilla paura nello stesso potere costituito. Questo è quello che è successo: I proprietari dell’emittente Globo [principale rete televisiva commerciale nel Sud America – ndt] e di altri mezzi di comunicazione, le banche, i politici, i giudici, i militari, gli industriali e i magnati dell’agrobusiness, ovvero i potenti, si sono spaventati.

La crisi di giugno ha rappresentato la fine della stabilità che il Brasile aveva vissuto fino allora e il record di sei elezioni presidenziali consecutive dava per assodata questa stabilità. Questo però andava di pari passo con il livello di crescita e di distribuzione dei redditi e, forse, della ricchezza, oltre che ad alcuni meccanismi di partecipazione che, per quanto limitati, avevano la loro importanza. D’altro canto, si sviluppava una politica estera che, con le parole di Celso Amorim [politico brasiliano, ex Ministro degli Esteri del governo Lula e Ministro della Difesa del governo Roussef – ndt] era «attiva e arrogante». Però a partire da quel giugno il lulismo, e con esso l’illusione di poter dare ai poveri senza togliere ai ricchi (grazie alle virtuose iniziative di una serie di micropolitiche economiche, sociali e culturali che diedero una spinta al mercato interno e all’imprevista fortuna del boom delle materie prime), smise di essere possibile. Nacque quindi un conflitto redistributivo e si inaugurò un nuovo ciclo politico e tutti gli attori della società brasiliana si sono visti costretti a dei riposizionamenti (un’opportunità persa per la sinistra). Da allora, il gruppo di potere che ha dato il via all’inchiesta “Lava Jato” [“Inchiesta Autolavaggio”, inchiesta giudiziaria sulla corruzione all’interno dell’azienda petrolifera statale Petrobras – ndt] e i suoi vari alleati nazionali e internazionali hanno costituito uno dei settori meglio posizionati per poter portare avanti i propri obiettivi.

Golpismo atavico

Di fronte a un quadro generale che includeva l’esaurimento “naturale” di dodici anni di governi petisti [da PT “Partido dos Trabalhadores”, Partito dei Lavoratori di cui facevano parte Lula e Dilma Roussef – ndt], l’economia in recessione, l’inflazione in aumento (soprattutto nel settore alimentare) e il clima instaurato con le proteste del 2013 contro il sistema politico, l’opposizione aveva tutte le carte in regola per vincere le elezioni del 2014, ma non ci è riuscita. Il candidato Aécio Neves [candidato del “Partido da Social Democracia Brasileira”, Partito della Social Democrazia Brasiliana – ndt] scelse una retorica pre-Lula di ritorno a una certa impostazione neoliberista, ma la cittadinanza chiedeva più servizi pubblici di qualità, maggior partecipazione politica e più parità di opportunità e non delle limitazioni. Una volta resi noti i risultati elettorali, il partito di Neves non li ha riconosciuti e qualcuno, tra i più esaltati, mise addirittura in dubbio la trasparenza delle operazioni di scrutinio. Forse la destra moderata stava generando una destra rabbiosa? Il rifiuto di accettare la sconfitta ha aperto la strada al golpismo, basti pensare alle dichiarazioni di una figura pubblica considerata super partes come quella di Fernando Henrique Cardoso [Presidente del Brasile dal 1995 al 2003 – ndt]: «il governo di Dilma Roussef è legale ma non legittimo», ha dichiarato l’ex-presidente qualche giorno dopo che le urne avevano espresso un consenso di 54 milioni di voti alla compagine guidata da Dilma1. In quel preciso istante la storia ed il continuum golpista delle élites brasiliane venivano riattivati2.

Lo shock golpista si è manifestato sotto forma di messa in stato di accusa e destituzione (empeachment) in assenza di reato presidenziale che ne sostenesse la legittimità, seguita dalla restaurazione dell’agenda neoliberista: riduzione drastica della spesa pubblica, riforma del sistema giuridico a favore del patrimonio energetico (il petrolio “pre-sale” [giacimenti presenti sotto uno strato di rocce e sale a migliaia di metri di profondità sotto la superficie dell’Atlantico – ndt]) e dei capitali stranieri, reindirizzamento della politica estera, via libera alla terziarizzazione del mercato del lavoro, tentativi di riforma del sistema pensionistico, attacchi alle popolazioni indigene, smantellamento delle politiche culturali, riduzione del numero dei beneficiari di sussidi sociali (Bolsa Familia [programma di welfare realizzato dal governo Lula – ndt]), aumento della deforestazione, intensificazione della repressione dei movimenti sociali e via dicendo in una serie infinita di attacchi. La crisi politica si è spostata sugli ambiti economici e sociali, con più di dieci milioni di persone che hanno perso il proprio posto di lavoro. Le riforme del lavoro (approvata) e del sistema previdenziale (ancora non ottenuta) hanno determinato la direzione della continuità, dello sdoppiamento e della motivazione del golpe: erano parte di quel programma politico che non poteva essere legittimato dalle elezioni. Luiz Inácio Lula da Silva ha polarizzato le sfide elettorali fin dalla seconda tornata presidenziale del 1989. Oggi, nonostante gli ostacoli alla sua candidatura [congelata in attesa della sentenza di appello della condanna a seguito dell’inchiesta Autolavaggio – ndt], continua a essere l’attore principale della sfida elettorale. Otto elezioni consecutive e quasi tre decenni di presenza costante al centro dell’agenda politica: un fenomeno mondiale. La sua carcerazione vuole solo impedire quello che sarebbe un risultato annunciato: la sua vittoria nel 2018. Questo è solo un altro degli aspetti di questo golpe che prevede fasi e tappe diverse: la sentenza di condanna si inserisce all’interno di uno scenario di attacchi giuridici che include intercettazioni illegali, prove inesistenti, gradi di giudizio opportunamente accelerati e premi a delinquenti pentiti che sollevano forti sospetti.

Cosa significa e cosa ci insegna questa esclusione di Lula dalla sfida elettorale? Da una parte, possiamo pensare che il cambiamento messo in atto non conosca moderazione né abbia la minima intenzione di ridurre le aberranti disuguaglianze. Disposte a non cedere su nulla, le classi dominanti hanno rotto il compromesso elettorale cacciando senza prove Dilma dalla presidenza. In questo modo, e con un colpo basso, hanno bruciato una regola fondamentale del gioco politico. La vecchia élite “schiavistica” non ha tollerato le conquiste ottenute e ha causato una tragedia nazionale, gettando il paese in una spirale recessiva e in una sovrapposizione di crisi (politica, economica, sociale, esistenziale). La fame (la cui scomparsa rappresentava il simbolo principale delle conquiste dei mandati di Lula) è recentemente tornata a fare visita a molte famiglie (qui) e l’austerità (questo lemma criminale sventolato in tante parti del mondo) è tornato a farsi sentire in tutta la sua crudeltà.

Il quadro finisce per essere disastroso anche per i padroni del denaro e del capitale. Non gli si ritorcerà tutto contro sul lungo periodo? Sì, se pensiamo che non stnnno facendo affari. Però no, visto che i loro affari sono di altra natura. Come denunciava il Comitato Operaio di Porto Marghera durante il “decennio caldo” degli anni ’70, è più importante comandare che fare soldi, creare potere che perderlo: «Il capitalismo si basa soprattutto sulla conservazione di questi rapporti di forza contro la classe lavoratrice e usa il proprio sviluppo per rinsaldare sempre di più questo potere».

Dall’altra parte, in un’analisi che non esclude la precedente, questo settore illuminato capì che era in corso un profondo cambiamento (per certi versi irreversibile). Tutto un intreccio di vite, di forme di esistere e abitare le strade, di popoli e di percorsi andava costituendosi in questi ultimi anni. Territori liberati, alcuni più fugaci altri più duraturi, assumevano sempre più importanza. Cortei, gruppi, associazioni, feste, occupazioni e mille altre iniziative costituiscono l’entrata in scena di nuove soggettività: nera, LGBTQ+, lavoratrice, periferica, femminista, indigena. Tutto questo genera paura. Il golpe, che continua ancora oggi, è una particolare controrivoluzione scatenata per il timore dell’esuberanza vitale dei corpi liberi, indomiti, decolonizzati, non addomesticati. Da qui la proliferazione di reazioni identitarie (bianche, maschiliste, eteronormanti) e di attacchi costanti alle principali sfere di azione (cultura ed educazione) in cui erano presenti queste emergenze.

Tensioni crescenti

Due eventi tragici sono avvenuti quest’anno: l’assassinio di Marielle Franco e la persecuzione politica terminata con l’arresto di Lula3 che, pur essendo eventi politici che coinvolgono generazioni diverse e pur presentando ognuno le sue cause e grandezze specifiche, sono connesse tra di loro in quanto modalità differenti dello stesso messaggio che viene trasmesso al paese: quelli nati dalla parte sbagliata non avranno spazio nella politica.

Questo fatto porta con sé una profonda crisi politica. La credibilità del sistema è quasi nulla. Non è casuale quindi che le due figure che primeggiavano nei sondaggi verso le elezioni presidenziali siano state due figure anti-sistema: alla fine dei conti, è questo quel che condividono Lula e l’ex capitano dell’esercito Jair Bolsonaro.

Un sondaggio divulgato prima della chiusura dell’edizione di questo articolo (24 settembre) mostra il candidato di estrema destra, Bolosnaro, in testa (28% di intezione di voto), seguito dal candidato del PT Fernando Haddad (22%), il centrosinistra di Ciro Gomes (11%) e il conservatore Alckmin (8%).

Il primo si è stabilizzato in testa e il secondo sta crescendo. Bolsonaro, internato in un ospedale da quando è stato accoltellato durante un evento pubblico, ha consolidato la sua posizione nelle ultime settimane, seguito dal candidato del PT Haddad, che è diventato il candidato ufficiale del Partito dei Lavoratori lo scorso 11 settembre e sta crescendo con un ritmo impressionante. Tutto indica che sarà una contesa elettorale all’ultimo voto al secondo turno, in cui secondo i sondaggi Haddad sarebbe in leggero vantaggio (43-37%).

La base elettorale di Bolsonaro sono gli elettori di sesso maschile e quelli che guadagnano più di cinque volte un salario minimo (ovvero più di 1150 dollari), vivono nel centro e nel sud del paese e possiedono una formazione universitaria. Lo sostengono inoltre alcuni settori legati all’agrobusiness, alla finanza e al commercio.

Dall’altra parte il rifiuto nei confronti di Bolsonaro è forte (46%) soprattutto tra le donne, i poveri, i giovani e, in termini geografici, il nord e il nordest del paese. Il 46% degli uomini con entrate mensili superiori a cinque volte il salario minimo affermano di votare Bolsonaro, ma solamente il 14% delle donne con entrate del doppio di un salario minimo affermano la stessa cosa. Bolsonaro ha possibilità di vittoria, ma anche una sua sconfitta al secondo turno è comunque una cosa sinistra, perché mostra fino a che punto può arrivare un fenomeno guidato da un uomo dalla postura razzista, machista e omofobica che eccita i propri sostenitori con un gesto ormai divenuto pubblico di sparare in aria come se tenesse un’arma in mano. Una celebrazione della morte.

Ultimamente un movimento nella sua campagna elettorale si sarebbe potuto rivelare decisivo per la sua sconfitta: la difesa di un programma economico ultraliberale nelle mani di Paudlo Guedes, annunciato come eventuale superministro dell’economia, che promuove la privatizzazione di tutte le imprese statali e la diminuzione delle tasse per i più ricchi.

Ma la crisi diventa ancora più acuta dando spazio a proposte autoritarie.

Al ritorno insolente, senza vergogna, delle espressioni politiche di estrema destra, si somma il ritorno pericoloso di un ruolo attivo dei militari nella politica, con una banalizzazione crescente a partire dalla metà degli anni Novanta delle operazioni di GLO (Garanzia della Legge e dell’Ordine) e di segnali di accordo con la vecchia Legge di Sicurezza Nazionale. È una militarizzazione della vita e della politica, vistosa nelle scuole militari e presente nell’attuale governo che non ha la legittimazione del voto, nella consulenza del nuovo presidente del Tribunale Supremo Federale. Sono comuni gli attacchi all’ideologia di genere, la difesa del diritto a portare armi per tutti e il richiamo a una disciplina morale, sociale ed economica. Come sarebbe un governo di Bolsonaro? Magari guardando alle Filippine di Rodrigo Duterte possiamo farci una idea.

A questo vettore di estrema destra se ne contrappone un altro: quello del lulismo, fermo nella decisione collettiva della popolazione brasiliana nel 2002 di lottare contro l’immensa diseguaglianza nel paese. Il fenomeno si incarna nella fugura di Lula ed è la forza che muove la candidatura di Haddad. La crescita di quest’ultimo nelle intenzioni di voto ci mette davanti a due interrogativi. In primo luogo, gli permetteranno una vittoria? E se vince, lo lasceranno governare? E dall’altra parte, quali sarebbero le opzioni di un governo del PT? Una riedizione del lulismo non ci sembra possibile, dato che deve scontrarsi con le classi dominanti. Un governo di Haddad farebbe onore a quel desiderio collettivo, o piuttosto rifarebbe gli errori compiuti durante il secondo mandato da Dilma? Come potrebbe affrontare i ricatti del mercato e gli attacchi dei poteri mediatici, finanziari e giudiziari?

Inoltre soffrirebbe senza dubbio l’opposizione attiva dell’estrema destra e non sappiamo quale sarebbe l’atteggiamento dei militari, tutto questo con un contesto di presenza debole del PT al Congresso e nei governi degli stati. Le forze democratiche saranno pronte ad affrontare la situazione che potrebbe generarsi nel paese? La tensione è in vista.

Così come è in crescita l’intenzione di voto per Haddad, lo è anche il rifiuto nei suoi confronti (che gira attorno al 30%). La possibile contesa al secondo turno potrebbe diventare a sua volta una contesa tra due differenti rifiuti: quello nei confronti del PT e quello contro l’estrema destra. La metà di quelle che guadagnano cinque volte il salario minimo non voterebbero Haddad (la proporzione cresce in relazione all’aumento del livello di guadagno) e la metà delle donne, ancor di più tra le più giovani, non voterebbe Bolsonaro. Il maggior numero di indecisi è oggi tra le donne e particolarmente tra le donne povere, che saranno decisive.

Due tra le altre candidature non dovrebbero essere scartate: Ciro Gomes (la cui forza e debolezza a sua volta derivano dal non essere del PT) e Geraldo Alckmin, che nonostante le sue molteplici alleanze con partiti (la cui ridondanza appare negli spazi pubblicitari televisivi destinati ai partiti) non riesce a emergere. Difficilmente l’immagine pubblica di Alckmin può riscattarsi dal sostegno a Temer e dalla diffusione di registrazioni che hanno dimostrato l’implicazione di Aécio Neves in casi di corruzione.

Nonostante gli accordi con imprenditori, media e giudici dentro e fuori dal Brasile, i golpisti non sono riusciti a convincere l’opinione pubblica: se ad un certo punto questo è sembrato possibile, l’illusione è svanita con il governo disastroso che hanno portato avanti. Si tratta di una sconfitta di lunga durata: dal 1945 a oggi in Brasile in generale assistiamo al rifiuto della popolazione brasiliana rispetto a formule elettorali che portano avanti una agenda antipopolare4. Il risultato, comunque, è ancora aperto.

In queste settimane di campagna elettorale, un’immagine è diventata il simbolo dell’interno paese: l’arresto dell’avvocata Valéria Lucia dos Santos, buttata a terra e ammanettata durante una udienza nella periferia di Río de Janeiro5. Il motivo? Stava rivendicando, in base alle regole del tribunale, i diritti del suo cliente. Ma non aveva il colore della pelle che hanno di solito gli avvocati. Valéria è nera e difende un solido e combattivo percorso, lo stesso che le ha permesso di laurearsi all’università in Giurisprudenza. Quella scena ha sintetizzato lo scontro che il paese sta soffrendo tra la violenza dei poteri costituiti e le recenti trasformazioni. Il caso di Valéria mette bene in evidenza la forza vitale di un settore che dovrà essere decisivo nelle elezioni del prossimo 7 ottobre.

*Profesor de Ciencia Política en la Universidad de San Pablo. Autor de Marx Selvagem, Autonomia Literária, San Pablo, 2018 (3ra edición).

Articolo apparso su Le Monde diplomatique – edizione Americano-Latina
La traduzione italiana è pubblicata sui siti DINAMOpress ed Euronomade

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  1. Fernando Henrique Cardoso, Vitória amarga, “O Estado de S. Paulo”, 7-12-14. 

  2. Douglas Belchior, qui 

  3. Véase Anne Vigna, Violencia política en Brasil, “Le Monde diplomatique”, edizione Cono Sur, Buenos Aires, maggio 2018. 

  4. André Singer, Lulismo em crise: um quebra-cabeça do período Dilma (2011-2016), Companhia das Letras, San Pablo, 2018. 

  5. Marina Estarque, Advogada é algemada por PMs durante una udienza giudiziaria a Rio de Janeiro, “Folha de São Paulo”, 11-9-18.