Di BENEDETTO VECCHI.

         Disconnettersi dalla Rete è una proposta che serve solo a salvare l’anima di chi la fa propria. È infatti una parola d’ordine ambigua, che rende torbida l’acqua della socialità online. Non fa cioè chiarezza né sulle forme di controllo sociale dentro la Rete; né ha la forza propulsiva per mettere in moto movimenti tali da modificare i rapporti di forza nel Web. Il log out ha, nel migliore dei casi, il potere refrigerante di chi si concede una sosta in una qualche oasi in quel deserto del reale che è diventata Internet. È questo un passaggio del nuovo libro di Geert Lovink tradotto con il titolo Nichilismo Digitale, costellato di riflessioni, appunti del viaggio che il media theorist olandese sta ormai conducendo nel continente digitale da quasi un trentennio.
         Geert Lovink ha l’indubbio pregio di essere un globetrotter del mediattivismo e della teoria critica. Ogni sua escursione si trasforma in una incursione negli stili di vita, nelle attitudini, nell’ordine del discorso che prendono forma e si sviluppano per poi magari eclissarsi all’interno nella diffusione della Rete attorno al pianeta. È questo il tratto caratteristico di tutti i libri di Lovink, al quale aggiunge un accorto gioco di sponda con altri frammenti di pensiero critico sul presente, come la teoria critica di Francoforte o l’interpretazione radicale e sovversiva dell’opera di Marshall McLuhan; oppure il marxismo autonomo italiano o le analisi di Saskia Sassen sul capitalismo estrattivo.
         Un globetrotter della Rete ma anche un cronista della cultura digitale secondo la definizione che Umberto Eco dava a quella inedita figura di studioso che fa storia critica e culturale del presente.  Il rischio, però, è di surfare sui processi sociali, cavalcando le onde emotive di una socialità che non sempre concede la possibilità di afferrarne gli sviluppi. Di tale possibilità Lovink ne è consapevole e si attrezza, assumendo un orizzonte teorico e politico dove la produzione di organizzazione – politica, produttiva, istituzionale, teorica – è la condizione necessaria anche se non sufficiente per non cadere in una piatta e subalterna postura postmoderna. Con un movimento che appare come deviazione da un percorso obbligato, c’è il rinvio, nella prima parte del libro, alla riflessione che tiene banco nelle discussioni dei media-attivisti della polarità tra “orizzontalismo” e necessità di una organizzazione “verticale”, gerarchica. Prospettive che sono respinte a favore di un pragmatismo dove l’organizzazione è solo il passaggio obbligato da ottemperare per dare continuità a qualsiasi azioni si vuol condurre in Rete.
         Nichilismo digitale registra inoltre un mutamento rilevante che si è consumato in questi anni e che ha ricadute importanti per il pensiero critico. Nel mondo dei social network, dei social media e delle piattaforme digitale non c’è cioè più differenza tra vita dentro e fuori lo schermo. Gli uomini e le donne sono infatti sempre connessi secondo la nota formula del 24/7, cioè ventiquattro ore al giorno per sette giorni a settimana.
         Non c’è dunque un fuori dalla Rete. Una situazione inedita che ridefinisce il rapporto tra singolarità e collettivo all’interno di un medium, la Rete, ormai presentato come universale. Tutto ciò alimenta il disequilibrio tra tempo sociale e tempo individuale, con il secondo termine inglobato dal primo, provocando così quell’affanno perenne, della continua sovrapposizione e interscambiabilità tra vita e lavoro. Nella perenne connessione alla Rete si lavora, quando si scambiano futili post con amici e amiche, si cura la propria socialità mentre si lavora. Una sovrapposizione che non sempre è tollerata dalle imprese, che non consentono distrazioni o una parcellizzazione dell’attenzione. Le recenti campagne contro l’accesso ai social network durante il lavoro è propedeutica cioè a quella saturazione del tempo di lavoro e di vita che è uno degli elementi che si sono imposti in questi anni. Temi evocati nel libro, anche se Lovink preferisce attestarsi, più che a immaginare una loro destrutturazione conflittuale contestazione, su una malinconica cronaca delle occasioni perdute di liberazione nel divenire della network culture.
         Il nichilismo digitale del titolo italiano trae in inganno. Quello originale faceva infatti riferimento alla tristezza, all’anomia, alla saudade insite nella progettazione sia dei social network che delle piattaforme digitali. Con un intermezzo purtroppo poco approfondito, Lovink introduce così il tema della non neutralità del software e di come nella sua progettazione sia già predefinita la sua modalità d’uso, nonché la ratifica dei rapporti di forza presenti nella società. La dimensione performativa dei programmi informatici è data dal fatto che funzionano anche come manufatti ideologici. Non è infatti un caso che sono equiparati agli apparati ideologici dello stato di althusseriana memoria.
         La comunicazione permanente, la ricerca di una conferma alle proprie sensazioni e sentimenti, la ricerca spasmodica di un like tipica dei social network sono inoltre visti non solo come espressione della solitudine del navigante della Reta, ma fattori propedeutici della ricerca di un riconoscimento della propria esistenza da parte di singoli che vedono dissolversi, proprio quando cercano conferme al loro sentire, ogni possibilità di legame sociale e di autenticità. C’è una eco di quella politica del riconoscimento sulla quale ha puntato il filosofo tedesco Axel Honneth come risposta al dissolversi delle classi sociali operata dal capitale nella sua proiezione e diffusione planetaria. C’è dunque in Rete, al pari di quanto accade nelle relazioni umani quotidiane, una frenetica alternanza tra euforia e depressione. Viene così a delinearsi un fosco affresco dei sentimenti al tempo della Rete.
         La tristezza, la malinconia sono sia esito che presupposto di una architettura della comunicazione al quale i singoli non riescono a liberarsi e che rischia di rinchiuderli in una gabbia emotiva dove è bandata la gioia e la felicità. La Rete è dunque ridotta a universo claustrofobico di passioni tristi. Lovink cita gli scritti di Mark Fisher sulla depressione e sullo scippo del futuro operato dal capitalismo come cartina di tornasole delle relazioni sociali dentro la Rete e come punto di partenza per l’elaborazione di una politica radicale di opposizione al capitalismo. Oltre al dubbio che possa svilupparsi una politica radicale a partire dalla depressione, cioè da quella ormai diffusa una condizione di fragilità e di discontinuità emotiva e relazionale che caratterizza la comunicazione on line, c’è da dire che la “tristezza da progettazione” evocata dal titolo originale del libro (Sad by design) aiuta a mettere a fuoco il fatto che il codice della Rete – intendendo per codice sia il software che le tecnologie che le modalità di relazione delle piattaforme digitali – riflette, riproducendole, forme di dominio e di sfruttamento nel quale la depressione alimenta quella fabbrica che non conosce crisi che è la fabbrica degli scarti umani. Ma che alimenta anche la saturazione della connessione alla Rete.
         Lovink è consapevole che i Big Data sono il settore economico che ha garantito la stabilità dello sviluppo capitalistico, ma, qui l’aspetto interessante della prima parte del libro, ne registra la saturazione. Stabilendo un parallelo con l’industria del petrolio, sostiene che c’è un peak data, cioè un picco nell’accumulo di dati e di conseguente estrazione di valore da essi al quale segue però il declino. Il capitalismo delle piattaforme, sostiene Lovink, è giunto cioè al punto massimo della sua espansione. Gli anni che verranno saranno gli anni durante i quali si manifesterà la progressiva riduzione della sua capacità di espansione. Ma per il momento siamo ancora nell’interregno, dove il vecchio si avvia al declino e il nuovo ancora non si manifesta.
         La connessione di miliardi di umani alla Rete è un fatto dell’ultimo decennio favorito dalla convergenza tecnologica tra telecomunicazioni e informatica. Ci si connette a Internet attraverso smartphone, tablet e computer, mentre sono sempre più diffusi televisori e elettrodomestici connessi in Rete. Anche quando il proprio cellulare è spento, infatti, si è potenzialmente collegati al web, perché una volta che lo si riaccende ci sono notifiche, mail, post che pressano per farti compiere alcune operazioni o che chiedono una pronta risposta. Internet è cioè diventata il mezzo per compiere gran parte delle operazioni consuete del vivere quotidiano, dal consumo al lavoro, dalla comunicazione futile alla pianificazione del proprio tempo libero, che si tratti di viaggi, acquisti di alimenti per pranzi e cene con amici, prenotazioni di un taxi o il commento di notizie attorno alle relazioni della propria “comunità virtuale” su un social network. C’è dunque una vischiosità della connessione on line che, con un movimento inaspettato, Lovink vede come prerogativa della moltitudine precaria, mentre le élite possono tranquillamente essere disconnesse delegando a qualche precario o precaria di sostituirle on line.
         La privacy diviene così un diritto da acquistare sul mercato, così come la possibilità di non essere tracciati in Rete. La disconnessione, più che una scelta di contestazione alla colonizzazione della vita da parte delle imprese, è quindi sintomo di un digital divide 2.0 dove la maggioranza di uomini e donne sono costretti a essere connessi 24/7, mentre una minoranza affluente e ricca può entrare e uscire dalla Rete come vuole. Al di là, dunque, della rivendicazione dell’accesso alla Rete in quanto diritto universale, il log-in e il log-out non sono libere scelte, bensì espressione delle disuguaglianze sociali e di classe. E’ questo il mutamento che Lovink prova a delineare, indicando nei social network e nelle piattaforme digitali una sorta di rappresentazione del sociale, perché la Rete, sostiene en passant Lovink, coincide ormai con il sociale.
         Conclusione amara, ma tuttavia affrettata. Internet, la partecipazione ai social network, la possibilità, anzi la necessità di svolgere gran parte delle attività del vivere associato in Rete non è certo in discussione. Né è in discussione il fatto che su Internet si dispieghino relazioni sociali che ridefiniscono principi di individuazione, percorsi di socializzazione che fino a qualche decennio fa avvenivano in famiglia, nella scuola o nelle altre istituzioni sociali (la religione, i partiti, i sindacati): sostenere che c’è corrispondenza tra social network e sociale alimenta però una lettura “primitiva”, povera delle forme di socializzazione. La Rete, infatti, è solo una dei dispositivi attinenti la socializzazione. Ce ne sono altri, che sono mutati e che hanno plasmato il divenire del web, con i loro processi di inclusione e esclusione; con il conseguente corollario di dinamiche di sottrazione, conflitto, negoziazione e conseguente integrazione. Fa dunque bene l’autore a metterli in relazione con i processi di espulsione e integrazione presenti nel sistema capitalistico, ma non è convincente la sua sovrapposizione tra social network e sociale.
         Evocando le analisi di Saskia Sassen sulla tendenza del capitalismo a espellere quote crescenti della popolazione dalla società, lo studioso e attivista olandese applica questo punto di vista alla Rete, con non pochi però problemi di coerenza. Il digital divide non si misura, come visto, con la negazione dell’accesso, bensì con la costrizione ad essere sempre connessi, perché  la tracciabilità è uno degli elemento fondamentale per accumulare dati, cioè la materia prima di una economia variamente declinata come economia dell’attenzione, della condivisione, delle app, delle piattaforme digitali. Più che prevedere espulsioni, dunque, la Rete accelera, consolida e legittima semmai processi di inclusione differenziata, dove il grado di integrazione riflette e rispecchia le diseguaglianze sociali. Il problema, dunque, sono le modalità di accesso alla Rete, la salvaguardia di alcuni diritti: la privacy certo, ma anche l’accesso a un sapere e a una conoscenza non ridotti a frammenti di informazione forieri di una sempre più marcata omologazione dei contenuti. Allo stesso tempo il principio di individuazione non prevede monadi costrette a interagire in uno spazio comune dove valorizzare economicamente e soggettivamente alcune caratteristiche personali (il capitale culturale, sociale, umano, etc.) bensì a animali sociali dove la Rete è componente importante, ma non unica della propria socialità. È dunque impropria la sovrapposizione tra social network e sociale che torna a pagine alterne in Nichilismo digitale.  Più realisticamente sarebbe opportuno indagare l’evaporarsi del sociale. Non c’è nessuno invito a fare propria la figura di una modernità liquida cara allo scomparso Zygmunt Bauman, bensì a riconoscere il fatto che il sociale ha conosciuto una grande trasformazione che non conosce punti di caduta e di nuova strutturazione in classi sociali. I social network ne sono l’immagine riflessa, ma non sostituiscono certo il divenire dei rapporti sociali.
         Che tale sovrapposizione posso risultare una forzatura è d’altronde evidente anche a Lovink, quando affronta la “fredda ambivalenza” della Rete nell’essere, contemporaneamente, strumento di liberazione ma anche di oppressione.
         Il media theorist ripercorre in una veloce carrellata le speranze, le illusioni, i punti di vista di chi ha visto il web come lo spazio teorico e politico dove agire per il superamento dei rapporti sociali capitalistici, ma anche di chi, facendo propri alcuni aspetti della teoria critica di Francoforte, considera lo spazio comunicativo dei media come un laboratorio per forme di controllo e di colonizzazione della vita pubblica. Punti di vista non estranei entrambi al percorso teorico di Lovink, che tuttavia vede ormai la Rete come lo spazio di un “ipercapitalismo” dal quale è vano ogni tentativo appunto di disconnessione. La “fredda ambivalenza” risiederebbe dunque nel continuare a presentare Internet come un habitat che favorisce la libera espressione rispetto all’ovattato e mercantile mondo dei media, ma che non può può essere visto come il sostituto o il simulacro della società.
         C’è però un altro aspetto che scandisce la fredda ambivalenza. Nella Rete, al di là di quanto affermano molti studiosi, l’omologazione dei contenuti non è molto amata, sia dagli utenti che dalle imprese che fanno affari con i Big Data. Internet ha infatti bisogno di continui processi di differenziazione dei comportamenti, dei punti di vista. Il pensiero unico, cioè, è antitetico al suo sviluppo. La “fredda ambivalenza” sta dunque anche nell’auspicare la libera espressione all’interno di una radicale differenziazione dei punti di vista e degli stili di vita. I Big Data, infatti, non crescono sull’affinità dei punti di vista, bensì sulla loro varietà e sul continuo processo di differenziazione del sé. Nel web, al pari dell’economia mondiale, è l’eterogeneità che deve essere “estratta” dai Big Data.
         Nel processo di elaborazione dei Big Data è infatti prevista la definizione di aggregati numericamente significativi, dove tuttavia la variabilità, l’articolazione della struttura dei dati è un fattore rilevantissimo nell’accumulo di data base e negli strumenti statistici che li interrogano al fine di sviluppare una rappresentazione grafica dei comportamenti collettivi che abbia un potere seduttivo nel poter vendere spazi pubblicitari. Più che ambivalenza, sarebbe dunque opportuno parlare di produzione di Big data – processo di massificazione – e di differenziazione nella loro organizzazione. Potremmo dire che siamo anche in questo caso in un processo di integrazione differenziata. La costituzione dei Big Data avviene cioè sulla faglia costituita dalla figura dell’individuo proprietario, dove la differenziazione del proprio punto di vista, dei propri consumi – di merci o di contenuti, poco importa – è fondamentale nel poter accrescere il suo “capitale umano”. I Big Data sono cioè lo spazio cognitivo usato per una rappresentazione economica produttiva della sovrapposizione tra Rete e sociale che Lovink da per scontata, mettendo così in secondo piano quegli elementi che rendono legittimo parlare di società del controllo.
         Non c’è dunque all’orizzonte nessun Panopticon con tanto di controllore che osserva, documenta senza essere visto. Siamo piuttosto in presenza di una società del controllo dove le forme di adesione alle norme dominanti è assegnata alla dinamiche e alle relazioni sociali dove dominio e liberazione da esso sono il prodotto risultante di una dinamica fabbrica dell’opinione pubblica. I Big Data ne sono semmai la cartina di tornasole, la rappresentazione statica che ne pregiudica l’efficacia. Con sprezzo del rischio di incorrere in banalità, l’economista statunitense Shoshana Zuboff parla infatti di “capitalismo della sorveglianza”.
         Recentemente, Facebook ha annunciato nuove policy affinché la comunicazione sia all’interno del politicamente corretto. Lo ha fatto per rispondere alle accuse di avere ceduto dati personali a società che hanno cercato di condizionare elezioni e referendum tanto negli Stati Uniti che in Inghilterra. Lo scandalo di Cambridge Analytica, al di là del velo che ha squarciato sui meccanismi di formazione e manipolazione dell’opinione pubblica, segnala tuttavia che la manipolazione è tanto più efficace se emerge l’eterogeneità e la differenziazione dei punti di vista, non la loro uniformità. Solo così si può cioè puntare a plasmare l’opinione pubblica. Sono a questo proposito interessanti le parti dedicate da il Nichilismo digitale al meme e al fenomeno dei selfie in quanto espressione di quella comunicazione dei molti ai molti” contraddetta però, almeno dai selfie, come una proliferazione di immagini senza spettatori, cioè senza pubblico. I selfie sono cioè una atto seduttivo da inscrivere dentro la produzione di simulacri di desiderio e di una sensualità effimera data la programmatica assenza di feedback insita negli autoscatti da smartphone, facendo così venire meno l’interattività, cioè la condizione necessaria ma non sufficiente alla diffusione virale di immagini, informazione, contenuti. E effimeri è anche il susseguirsi di meme.
         Nell’analizzarli Lovink parte dalla domanda se la tecnica di diffusione virale di un modo d’essere, di una welthanshauung, di un sentimento, di un’attitudine possa essere usata dalle forze di sinistra dopo che è stata ampiamente prerogativa dei gruppi alt-right, cioè dei gruppi populisti, xenofobi, suprematisti e di estrema destra. Domanda da cento milioni di dollari o da un miliardo di euro, alla quale ogni risposta si presta a obiezioni non convincendo così nessuno.
         Il meme, è bene ricordarlo, ha origine negli studi del biologo inglese Richard Dawkins attorno al cosiddetto gene egoista ma è poi diventando il termine per spiegare la diffusione delle idee, paragonandola alla propagazione di un virus nel corpo sociale. Nella Rete significa che un modo di essere, un sentimento, una attitudine si diffondono perché fatti propri da chi stabilisce con essi una sorta di affinità elettiva. Il meme, cioè, fa emergere elementi latenti nel vivere sociale, cioè che fino ad allora non si sono manifestati. La loro diffusione virale è il fattore più rilevante, indipendentemente al loro contenuto.
Il meme coincide inoltre con punti di vista privi di fondamento e fake news, cioè a quell’ambito qualificato come postverità, cioè affermazioni che sfuggono ai criteri di vero e falso per collocarsi in quella terra di nessuno che sono le consuetudini, il senso comune, le superstizioni. Questo il meme dentro la rete. È tuttavia necessaria una contestualizzazione storica sulla sua genealogia.
         L’origine del meme va inoltre cercata nelle pratiche dell’attivismo digitale. La ripetizione ossessiva di un concetto, l’allusione a un corpus teorico più definito e radicalmente oppositivo sono da cercare nelle esperienze dei primi gruppi hacker, così come vanno cercate nei movimenti sociali degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, senza dover scomodare l’Internazionale situazionista e le sue infinite espulsioni per deviazioni dalla giusta linea; o La società dello spettacolo di Guy Debord, laboratori che hanno ispirato le pratiche comunicative e di detournement del media-attivismo. Ma cosa differenzia i meme dalle pratiche controculturali on line? La viralità, l’esistenza di una platea differenziata dove è presente una logica comunicativa “dai molti ai molti” che possono modificare, rielaborare, secondo le regole dell’interattività, il messaggio iniziale a differenza degli strumenti comunicativi del recente passato incardinata invece sullo schema dove il mittente è unico, il pubblico è plurale e il messaggio non può essere mutato, rielaborato più di tanto.
         Il meme è attualmente associato alla crescita dei gruppi xenofobi, razzisti e populisti dentro la destra, prospettando una loro egemonia culturale e politica. Ma più che tecnica di costruzione di una egemonia, è semmai il simbolo di una fragile presenza e sempre sul punto di trasformarsi in una frammentazione pulviscolare di un punto di vista che non riesce a diventare egemone. Il meme è cioè espressione di uno stato d’animo che trova eco nelle relazioni sociali e che si impone in quell’interregno gramsciano, dove il vecchio è morto ma il nuovo non riesce a venire alla luce. E’ cioè allusione a un nuovo sociale che attende di venire alla luce che ha però come cornice la ricorsività, l’ineffabilità, l’irrilevanza di una comunicazione diffusa ma fine a se stessa. Il meme è cioè il contraltare degli sciami che si formano e si dissolvono dentro e fuori la Rete.
         Ci sono in Nichilismo digitale pagine dedicate a come il marxismo ha variamente interpretato le tecnologie digitali. Lovink parte al presupposto che la critica alle macchine in quanto strumento usato per colpire la classe operaia e per sostituire il lavoro vivo con lavoro morto non sia da archiviare come un aspetto del passato. Evocando il cosiddetto “marxismo vitalistico” di gruppi militanti tedeschi, il media theorist olandese ripercorre le campagne contro l’uso della computer science per manipolare l’opinione pubblica e per consolidare la società del controllo, ma sa benissimo che la comunicazione, l’affettività sono aspetti rilevanti nello sviluppo dei Big Data.
         La produzione dell’opinione pubblica in quanto fabbrica del consenso è tuttavia anche un settore economico non solo perché i media e la Rete sono settori produttivi, ma anche perché sono funzionali proprio allo sviluppo dei Big Data, evitando quel peak data che Lovink vede delinearsi all’orizzonte. La ricerca spasmodica di una conferma in Rete porta infatti a moltiplicare post, siti visitati, cioè fattori che fanno accumulare informazioni e dati. In altri termini, tanto la politica delle identità che l’obiettivo di un riconoscimento al proprio sentire oltre che mettere in evidenza che la l’opinione pubblica è un campo di azione impolitico e ostile a una critica dei rapporti sociali dominanti, svelano il fattore alla base dei Big Data: la necessità di pratiche di differenziazione e di moltiplicazione dei punti di vista in quanto fattore dinamico e di innovazione nel capitalismo delle piattaforme.
         Più che pensare ad usare la tecnica di diffusione delle idee del meme per affermare una egemonia bisognerebbe dunque rompere l’incantesimo che fa sovrapporre formazione dell’opinione pubblica e sviluppo dei movimenti sociali, opzioni distinte, che hanno solo pochi punti in comune – la costruzione del consenso – ma che sono antitetiche, perché l’opinione nega la dimensione della politica, prerogativa invece dei movimenti sociali. Il primo aspetto condanna la società a essere spettatore passivo dell’operato del sovrano, riservandosi solo l’opzione di esprimere apprezzamento o critica. Il secondo aspetto, invece, attiene al Politico, cioè all’organizzazione delle forze, alla definizione del nemico e delle possibili alleanze. Elementi sempre più cogenti nella Rete. Il meme, i selfie, il nichilismo evidenziano dunque le derive di un sociale dal quale è bandita la possibilità dell’azione politica. E’ cioè il campo di azione dove la dimensione del potere e dei rapporti sociali di produzione devono essere occultati in nome di un riconoscimento del sé e delle propria, parziale e esiziale identità. Il nichilismo digitale è dunque l’orizzonte di una politica identitaria del riconoscimento che conferma sempre, indipendentemente dalla postura ribella che mette in scena, lo staus quo che ormai come una tela di ragno avvolge nel suo bozzolo la network culture anche nella sua variante radicale.

 

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