di MARTINA TAZZIOLI. “Ventimiglia non sarà la nostra Calais […] sul varco italo-francese ci giochiamo l’Europa ”: a fine estate l’ex Ministro dell’Interno Angelino Alfano sintetizzava così la strategia di “alleggerimento della frontiera” del governo italiano al confine con la Francia e la Svizzera. Questa strategia di svuotamento delle frontiere “calde” e dei luoghi di transito non si limita tuttavia a “ripulire” le zone di confine invisibilizzando la presenza dei migranti. Dalla scena degli svuotamenti degli spazi-frontiera bisogna spostarsi oltre, intendendo questo oltre in senso sia spaziale che temporale per rendere conto dei canali di mobilità forzata come secondo atto dell’alleggerimento di confine, o meglio di ciò che resta al di fuori della scena stessa. Seguendo i canali di trasferimento forzato, da nord verso sud è possibile infatti osservare come gli hotspots stessi hanno modificato la loro funzione: da luoghi di identificazione e partizione dei migranti in arrivo, subito dopo lo sbarco, a centri in cui molti degli stessi migranti già transitati per gli hotspots vengono riportati e trattenuti per alcuni giorni dopo essere stati arrestati al nord Italia. I canali di cui parlo sono i trasferimenti forzati che avvengono con cadenza settimanale da Ventimiglia e da Como verso l’hotspot di Taranto, ma anche verso la Sardegna e il cara di Mineo. La guerra ai “movimenti secondari” dichiarata dall’UE, ovvero alla mobilità indisciplinata di coloro che disobbediscono alle restrizioni spaziali imposte dal regolamento di Dublino, si gioca su tutto il territorio europeo dove situazioni simili a quella di Ventimiglia si verificano altrettanto frequentemente, come nel caso di Calais.
Prima dell’ultimo sgombero della jungle, caratterizzato anch’esso da trasferimenti di massa nei Centre d’Accueil et Orientation di tutta la Francia, nell’ultimo anno le tattiche di svuotamento parziale di Calais hanno mantenuto un ritmo piuttosto regolare, e assunto forme diverse: deportazioni nei paesi di origine, deportazioni interne verso centri di detenzione francesi, espulsioni dei cosiddetti “dublinanti” e vere e proprie trappole umanitarie tese a convincere i migranti a fare domanda di asilo in Francia in uno dei centres de répit – i “centri di tregua” – da cui in realtà molti sono stati poi deportati o trasferiti in Italia. La strategia dello svuotamento a cadenza ripetuta va letta, per comprenderne la posta in gioco politica, al di là della sua dimensione prettamente spaziale, guardando al tipo di presa governmentale che si esercita sulle condotte e sulle vite dei e delle migranti bloccati nei vari spazi-frontiera d’Europa. L’alleggerimento del confine corrisponde infatti a una tattica della dispersione delle molteplicità migranti – di ciò che possiamo definire “migrant mobs”, usando il termine “the mob” nella sua costitutiva ambivalenza, ovvero come potenziale soggetto politico collettivo emergente e che tuttavia tende a essere disqualificato come presenza non-politica; the mob sta a significare ciò che produce interruzioni nella temporalità e nelle tecniche di cattura del regime dei confini, e al tempo stesso una molteplicità che induce gli stati a mettere in atto misure di contenimento e dispersione. Sia a Calais che a Ventimiglia la “crisi” migratoria dichiarata dagli stati e resa oggetto di misure poliziesche non è certamente sul piano dei numeri, ma al livello della composizione migrante. Rispetto a cinque anni, infatti, vi è stato un incremento esponenziale di richiedenti asilo, molti dei quali, tuttavia, non rinunciano a tenere insieme richiesta di protezione e la “pretesa” di scegliere dove muoversi in Europa.
La strategia di dispersione spaziale per riguadagnare controllo sui “movimenti secondari” previene la possibile formazione di movimenti costituenti, di soggetti politici collettivi e di pratiche di supporto ai migranti in transito che vadano oltre forme di solidarietà temporalmente limitate o immediatamente recuperabili dal modus operandi umanitario. La dispersione e divisione non è solo tesa dunque a neutralizzare le molteplicità migranti ma a disinnescare la politicità stessa delle pratiche di migrazioni e lo spazio eventuale di supporto alla logistica del transito che si crea attorno a queste. Detto altrimenti, la dispersione non è mai semplice dislocamento forzato nello spazio ma, oltre a questo, divisione di ogni gruppo temporaneo: da Ventimiglia, così come da Calais o dagli hotspots la neutralizzazone delle molteplicità avviene separando tra loro i migranti e nello spazio e individualizzandone i percorsi di ingresso o non-ingresso nei canali dell’asilo. Da Ventimiglia e Como è possibile osservare, dicevo in apertura, le trasformazioni degli hotspots che diventano spazi di contenimento temporaneo per scoraggiare i migranti a tornare a nord – tattiche di deterrenza contro ogni forma di disobbedienza spaziale – e che generano effetti di contenimento mantenendo i migranti in perpetua mobilità, allungandone e complicandone le geografie. Al tempo stesso, il funzionamento di determinati luoghi come “hotspots” richiede di mobilitare un’attenzione analitica particolare, al di là della terminologia che in questo momento pervade i documenti UE, per indicare, oltre ai luoghi di detenzione designati come tali, zone critiche di confine in cui si attivano interventi rapidi. Attraverso la geneaologia dell’uso politico del termine “hotspot” declinata per lo più rispetto alla politica della mobilità, è la rappresentazione del confine in quanto tale che si trova a essere ridefinita.
Il confine come hotspot è esito di pratiche che con Stuart Hall potremmo definire atte a “policing the crisis”, e non confinate alla gestione delle frontiere e delle migrazioni, e che sono state poi riprese nel linguaggio, ben prima della Migration Agenda del 2015, nelle tecniche di digitalizzazione della frontiera. Bisogna risalire alla metà degli anni Novanta per trovare un uso sistematico di “hotspot” in testi mossi da preoccupazioni di governo dei fenomeni sociali critici. In particolare, è nell’ambito della letteratura e dei documenti istituzionali relativi al crimine che “hotspot” fa il suo ingresso come parola chiave che sta a indicare uno spazio o un fenomeno di crisi e, al contempo, le modalità di gestione di questa crisi localizzata e circoscritta. Gli hotspots, precisamente, designano i luoghi a più alta intensità di criminalità in una determinata zona che necessitano forme di controllo e intervento speciali e mirate. Pertanto, l’ hotspot non indica semplicemente uno spazio-frontiera: la genealogia del termine diventato parole chiave del vocabolario UE rivela un referente spaziale che stabilisce la connessione tra migrazioni e crisi, come fenomeno complesso da gestire attraverso infrastrutture e politiche su misura. Dalla metà degli anni duemila “hotspot” viene ampiamente usato nei reports prodotti dall’agenzia europea Europol relativi alle reti di smugglers: la mappa degli hotspots dei “trafficanti” non rappresenta spazi istituzionali di cattura e selezione della mobilità ma “nodi logistici” (logistical hotspots) dislocati in Europa che convogliano e attirano migranti, ma anche luoghi usati dai migranti stessi per organizzare la logistica degli attraversamenti.
Primo aspetto da sottolineare: gli hotspots ridefiniscono le pratiche di mobilità “indisciplinata” instaurando un continuum di insicurezza tra migranti, smugglers, e potenziali terroristi. Continuum che ritroviamo di fatti all’opera negli hotspots recentemente istituiti lungo la frontiera Mediterranea, dove sia Frontex che Europol intervistano i migranti appena dopo lo sbarco a fini investigativi e dove ciascun migrante viene identificato come potenziale richiedente asilo e, insieme, possibile trafficante o terrorista nascosto tra i rifugiati. Il secondo elemento che la genealogia dell’ hotspot fa emergere e che riguarda in modo più complessivo le trasformazioni dei confini per come questi vengono rappresentati, consiste nella dimensione essenzialmente transnazionale della cartografia degli hotspots. Infatti, questi non coincidono necessariamente con le frontiere nazionali: al contrario, collegando tra di loro i siti-hotspots localizzati sulla mappa, ciò che appare è una geografia degli attraversamenti e, insieme delle infrastrutture per supportare e ostacolare la mobilità “non autorizzata”.
La cartografia degli hotspots, potremmo dire, ci indica la cristallizzazione dei momenti in cui le pratiche di migrazione si scontrano con la materialità delle strategie di cattura e con i canali governamentali messi in atto per riguadagnare controllo sulle forme di disobbedienza spaziale. Il confine come hotspot lo ritroviamo sotteso anche nella logica operativa in gioco in sistemi di monitoraggio real-time come Eurosur, concepito per produrre ciò che viene definita una “situational awareness picture” di ciò che accade alle frontiere esterne dell’Europa. Nella mappa interattiva e costantemente aggiornata di Eurosur ogni attraversamento “irregolare” viene rappresentato come evento migratorio, un hot-spot in quanto tale; e i confini nazionali vengono colorati (di giallo, verde o rosso) a seconda del livello di “impatto migratorio”, presente e potenziale, assegnato a ciascuno di essi. In base al colore di ciascuna frontiera-hotspot, si definiscono le modalità di intervento preventivo e di contenimento da mobilitare e il costo che ciò comporta. La mappa di Eurosur è in un certo senso la rappresentazione cartografica più evidente del confine come hotspot, luogo “critico”, definito dal rischio migratorio e, insieme, dalle operazioni specifiche di contenimento che questo richiede.
Ventimiglia, come Como, Eidomeni e Calais sono alcuni dei luoghi in cui il confine si fa hotspot sia nelle procedure di identificazione e controllo che come cristallizzazione spaziale di “crisi” prodotte dalle esigue molteplicità migranti. L’hotspot non è definito dalle sole infrastrutture detentive ma dalle forme di contenimento che questo genera – oltre le barriere dei centri di accoglienza – e dal margine di ingovernabilità delle molteplicità migranti. Ingovernabilità che, tuttavia, non è senza ripercussioni per i migranti stessi, come mostrato dal dossier redatto da Amnesty International che riporta le torture commesse dalla polizia italiana nei confronti dei migranti che rifiutano di lasciare le impronte all’interno degli hotspots. Il documento di Amnesty International costituisce indubbiamente una denuncia essenziale e ampiamente documentata, sulla base di testimonianze che spesso vengono squalificate come prive di fondamento quando non vi è un’organizzazione internazionale riconosciuta a sostenerle. Similmente, non si può non notare che la presa sui migranti avviene molto spesso in modo estremamente coercitivo e diretto attraverso violenze fisiche. E tuttavia, mettere in evidenza le catture esercitate sui corpi implica domandarsi quale angolo di attacco mobilitare all’interno di tale scenario, senza lasciar prendere alla critica una forma che riproduca le modalità stesse del controllo.
La grammatica politica dei diritti umani viene assunta in questo momento come punto di partenza e orizzonte di lotta da parte di molte organizzazioni, gruppi e singoli che indicano nel rispetto delle libertà fondamentali il campo di battaglia su cui dispiegare la critica e l’azione a fronte dell’ ordinaria violenza di confine. La moltiplicazione di forme di rifiuto collettivo da parte dei migranti all’interno degli hotspots e nei luoghi di transito di tutta Europa ci spingono a partire per così dire “dall’alto” nelle rivendicazioni e nelle lotte sul territorio, ovvero prestando ascolto e facendo proprie le poste in gioco delle rivendicazioni agite dai migranti. Rifiuti contro le procedure di identificazione forzata e contro le tracce digitali che i migranti in arrivo sono costretti a lasciare, ma anche resistenze al programma della Relocation che procede come noto a rilento (solo il 5% per ora degli aventi diritto è stato ricollocato) e soprattutto non da’ agli individui la possibilità di scegliere il paese in cui fare domanda di asilo. Rifiuto, quello dei canali della Relocation, definito “oltraggioso” e “non accettabile” poche settimane fa dal Presidente della Commissione europea Claude Juncker riferendosi in particolare ai richiedenti asilo “che dalla Grecia e dall’Italia si rifiutano di andare in altri Paesi rispetto alla Germania”.
Invece che codificare immediatamente queste forme di disobbedienza spaziale all’interno di categorie e linguaggi prestabiliti, si può partire precisamente da ciò che resta a margine, spesso offuscato, nella traduzione di queste lotte entro il linguaggio giuridico-politico istituzionale. Ciò che di fatti resta inascoltato in queste forme di rifiuto collettivo o che risulta “intollerabile” se osservato attraverso il registro dell’umanitario, è il claim politico portato avanti dai migranti ben oltre il diritto a non esser torturati o lasciati morire: “give us freedom, we want to choose where to go”. La libertà di scegliere dove andare e del decidere dove stare e fare domanda di asilo, è “diritto” non previsto né concesso ma che molti dei migranti bloccati a Ventimiglia o temporaneamente detenuti negli hotspots mettono in atto facendo saltare l’alternativa escludente tra protezione e asilo da un lato, determinazione e scelta dei propri spostamenti dall’altra. Ripensare asilo e protezione insieme, e non in alternativa, a libertà di scelta – di movimento e di presenza nello spazio – appare come la sfida politica a cui le lotte dei migranti ci chiedono di essere all’altezza. Nè nel nome de “il minore dei mali possibili” a cui il registro dell’umanitario ci abitua, né rifacendoci a libertà fondamentali assunte apriori: seguendo le pratiche di rifiuto esercitate dai migranti, non solo nella loro dimensione di sottrazione ma nelle rivendicazioni politiche che veicolano, ciò che si apre oltre la contestazione delle politiche migratorie è una riarticolazione possibile tra politiche di asilo e pratiche di autonomia di movimento.