Di MARIANGELA MIANITI
Il movimento iraniano «Donne, vita e libertà» è l’unico evento del presente che ci fa sperare nel futuro e in un anno migliore del precedente. Da mesi le notizie che arrivano con fatica dall’Iran mi accompagnano come un sottofondo persistente. Sono sempre lì, nei pensieri e nei desideri, a scatenare rabbia per la repressione violenta e mortifera, senso di impotenza perché l’unica cosa che possiamo fare da qui è parlarne e parlarne e parlarne, ammirazione per l’inesauribile forza di questa rivoluzione iniziata dalle donne e che, giorno dopo giorno, manifestazione dopo manifestazione, ha contagiato un’intera società e la sua moltitudine fatta anche di uomini e di giovani, giovanissimi, anziani, madri, padri, insegnanti, studenti, artisti, intellettuali, commercianti, operai. Le crepe sono arrivate anche dentro le famiglie degli ayatollah, con figlie e nipoti che hanno dichiarato pubblicamente il loro dissenso, e per questo sono state zittite.
Quando un regime sente di essere arrivato alla fine, perché non sa e non vuole cambiare, tira fuori il peggio di sé, la repressione che tortura, uccide, impicca i propri figli. Si consuma così il gioco perverso del dare la morte illudendosi che in quel modo si allungherà la propria vita, per quanto e a che prezzo poco conta. Questa ottusa autodifesa, e il suo contraltare che è la lotta, trova un simbolico anche nelle immagini e nei corpi.
Basta guardarli, gli ayatollah intransigenti, per capire il loro odio per il vivente. Le facce barbute, inespressive, le teste chiuse dentro i turbanti, le guance cascanti, i gesti ingessati, i corpi bardati dentro paramenti che vorrebbero dare ieraticità, le parole che scelgono, gli ordini che danno, tutto parla di un mondo in putrefazione e che, proprio per questo, non sopporta le istanze del desiderio. E infatti, tra le mille nefandezze, come le forze iraniane hanno scelto di punire le ribelli? Hanno sparato puntando agli occhi, al petto, ai genitali per marcarle nelle parti del corpo che, per loro, rappresentano l’essenza del femminile.
Il danno di quel regime stava già nell’origine, in quell’idea di società che, per assoggettare e controllare metà della popolazione, le donne, si è inventato una «politizia» della moralità e dei costumi che doveva controllare e punire ogni forma di libera espressione del sé.
Il corpo femminile è al centro di questa rivoluzione perché è il centro di ogni democrazia, di ogni liberazione sociale. Non è un caso se la rivolta è nata dalla morte di Masha Amini, arrestata perché portava male il velo. Non è un caso se il gesto simbolico di quelle proteste, che stanno diventando rivoluzione, è quello di donne, ragazze e bambine che si tolgono il velo, lo bruciano, e manifestano, e camminano per le strade con i capelli al vento, e ballano e gridano «Donna, vita, libertà», sostenute e accompagnate da mariti, fratelli, amici, figli, padri.
Controllare e reprimere, vietare e punire, coprire, stabilire che cosa una donna può indossare o non indossare, fare, frequentare, studiare è un esercizio che piace a chi delle donne ha paura. Di conseguenza, è un segno di debolezza di chi, per credersi forte e dominare, usa la hybris del potere. Triste e infelice è la società che reprime, ancor più triste e infelice se reprime e pretende di controllare le donne. Chi fa quella scelta dovrebbe mettere in conto che, prima o poi, perderà perché le donne zitte non stanno, anche se la lotta è lunga e difficile.
Oggi, in Iran, il corpo delle donne è diventato il corpo di una moltitudine che sta facendo la storia.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 3 gennaio 2022.