Di GISO AMENDOLA.
Il diritto penale è una faccenda feroce, come la recente vicenda della cattura di Cesare Battisti e la sua iper-esposizione mediatica ci hanno nuovamente ricordato. Nel diritto penale emerge in tutta la sua crudeltà un paradosso che attraversa l’intera esperienza giuridica, o almeno quella moderna occidentale: da un lato il diritto è pretesa alla regolazione, alla razionalità, al contenimento dei conflitti e della violenza; dall’altro lato è esso stesso organizzazione della violenza.
Didier Fassin, che il lettore italiano già conosce bene sia per gli studi fondamentali sulla «ragione umanitaria», sia per le indagini etnografiche su comportamenti e discorsi delle forze dell’ordine, tenta in Punire. Una passione contemporanea (Feltrinelli, pp. 187, euro 19), che arriva ora nella traduzione italiana di Lorenzo Alunni, un faccia a faccia con il cuore oscuro del (preteso) diritto di punire. Lo scopo principale è confrontarsi con i discorsi dei giuristi, facendo reagire le definizioni della teoria con l’approccio genealogico e con quello etnografico, per svelarne il nucleo nascosto. La traccia lunga della genealogia e l’immersione nella realtà quotidiana dell’etnografia servono così a fare esplodere le sicurezze tranquillizzanti che i discorsi dei giuristi hanno imbastito sulla pena.
FASSIN PARTE dalla definizione di uno dei principali teorici del diritto del Novecento, Herbert Hart, che cercò nell’analisi del linguaggio la chiave di accesso ai fenomeni giuridici. Hart crede possibile tracciare una frontiera chiara tra il concetto di pena e quello di vendetta o di mera violenza: la pena consiste in un castigo, che risponde a un’infrazione di una norma e che viene inflitto all’autore (reale o presupposto) di tale infrazione da un’autorità terza e normativamente istituita. Fassin fa ricorso all’esperienza etnografica per smontare questa pretesa corrispondenza tra infrazione e castigo che il concetto di pena dovrebbe rispettare. Il grosso degli interventi delle forze dell’ordine, per esempio, sono strutturalmente indipendenti da qualsiasi idea di «risposta» a infrazioni. Sia nella pratica che nei discorsi con cui gli agenti giustificano il loro operato, si tende ad accettare piuttosto tranquillamente l’idea di interventi indistintamente punitivi e preventivi, in zone spesso vissute dagli agenti come terre pregiudizialmente ostili. Del resto, qualsiasi preteso equilibrio tra infrazione e castigo salta completamente se pensiamo al peso enorme delle misure preventive. Anche l’idea per cui la pena è inflitta da un’autorità giuridicamente precostituita diventa molto problematica se solo si pensa alla sempre più diffusa presenza di gruppi e ronde che esercitano attività repressive, stabilendo legami più o meno permanenti e ambigui con le forze di polizia ufficiali. L’unico elemento delle definizioni classiche che davvero sopravvive, può affermare Fassin dopo l’immersione nelle pratiche concrete, è quello dell’identificazione della pena con il castigo.
UNO SGUARDO STORICO sul lungo periodo, argomenta Fassin sulla scorta di una genealogia che deve più a Nietzsche che a Foucault, mostra come, con la modernità, si affermi una vera e propria economia morale del castigo: la pena come risposta alla colpa è l’erede secolarizzata dell’idea cristiana del castigo per i peccatori. Non sempre è stato così: la pena «precristiana» era più vicina all’idea di debito che a quella di colpa (ancora Nietzsche è il riferimento principale) e si inseriva in un circuito di possibili compensazioni e riparazioni. Questa concezione riparativa è invece nella modernità completamente cancellata a favore di quella repressiva, che fonda così la centralità assoluta degli elementi del castigo, della necessaria sofferenza e dell’espiazione.
LA STESSA ALTERNATIVA tra retribuzione del male compiuto e prevenzione di un male futuro, che ha animato molte discussioni sulla giustificazione della pena, va perciò molto relativizzata: del resto, le teorie sulla funzione della pena sono circondate dallo scetticismo degli stessi operatori, che ben poco credono sia al valore «etico» della retribuzione sia all’efficacia della dissuasione o del reinserimento sociale.
Nella prassi, si punisce puramente e semplicemente per riaffermare la logica del castigo nella sua esclusività: anche la spettacolarizzazione del diritto penale, che tanto ci scandalizza, non è altro che una conseguenza necessaria della centralità che assume l’atto del punire.
IL RICHIAMO individualizzante alla colpa, infine, riemerge continuamente per impedire qualsiasi riferimento alle spiegazioni sociali della devianza. La responsabilità personale, che secondo il discorso liberale dovrebbe assicurare che sia punito solo chi è riconosciuto come colpevole, è richiamata in realtà per separare il giudizio sull’atto deviante da qualsiasi considerazione sul contesto in cui avviene.
È più che mai necessario, oggi, un testo che ci ricorda come la logica della sanzione poggi sulla passione triste del punire, sulla riproduzione dei discorsi sulla colpa, sulla logica redentiva del castigo: tutti elementi che animano in profondità il populismo penale contemporaneo e il giustizialismo. Cerchiamo però di non subire troppo il fascino perverso degli elementi più crudeli e feroci della volontà di punire.
SULLA BRUTALITÀ «originaria» del castigo, si innestano infatti oggi modificazioni in nome del prevenire, del controllare e del governare che hanno trasformato in profondità il sistema penale. Più che un’univoca teologia (secolarizzata) del castigo, tutti questi elementi costruiscono una vera e propria economia politica della pena, che Foucault mise in evidenza e che Fassin pure ricorda e descrive con attenzione, ma tende a relativizzare per far risaltare maggiormente il tema teologico-penale del rapporto colpa/castigo. La stessa scelta di una genealogia à la Nietzsche, che si estende su un lunghissimo arco temporale, probabilmente porta Fassin a sottovalutare scarti e modificazioni di più breve periodo, interni alla gestione della sanzione penale, e a mettere in ombra l’inserirsi di questo governo della penalità nella trasformazione dei meccanismi dell’appropriazione e della produzione della ricchezza.
Probabilmente gli aspetti brutali di esaltazione del nudo potere di castigare, che Fassin illumina nella loro lunga genealogia, vanno integrati con l’emergere di un’economia del controllo e della sorveglianza che coniuga violenza e governo, meccanismi di esclusione/neutralizzazione e meccanismi di gestione/amministrazione. L’eterogeneità delle operazioni del capitale comporta, evidentemente, anche un’eterogeneità delle modalità di repressione: repressioni che, nel segno di una più complessiva economia politica della pena, vanno sempre lette insieme alle resistenze che suscitano e alle quali continuamente provano a rispondere.
IL DIRITTO PENALE, come tutti i dispositivi giuridici, non ha mai badato soltanto a reprimere, ma ha anche continuamente provato a costruire soggettività disciplinate e utilizzabili dagli apparati produttivi. E in questo tentativo si è sempre scontrato con l’indocilità delle soggettività, con la ribellione, con l’intransitività della libertà. Possiamo e dobbiamo esercitare la nostra critica contro la tristissima passione contemporanea del punire, smascherandone la crudeltà e la metafisica «sacrale» che la sottende, come ci insegna questo libro importante; allo stesso tempo, non rinunciamo a fare inchiesta sulle soggettività e sui comportamenti di resistenza che rompono con l’individualizzazione della colpa/castigo e provano a ricostruire esperienze comuni di libertà e di sottrazione alle logiche del Giudizio. La sicurezza delle nostre strade – come ripetono le femministe di NonUnadiMeno – è prodotta dai corpi liberi che l’attraversano, e non dai dispositivi securitari e punitivi.
Questo articolo è stato pubblicato per il manifesto il 17 gennaio 2019.