Di ENRICA RIGO e LUCIA GENNARI.
L’immagine di Carola Rackete che sfugge alle motovedette della guardia di finanza per attraccare nel porto di Lampedusa, consentendo a 40 migranti di scendere a terra dopo settimane di peregrinazioni, è un’immagine che porta il peso della contingenza storica e politica dei confini e del diritto. È un’immagine che racconta la storia vera dei confini, quella delle navi da guerra schierate contro la vita delle e dei migranti, non quella artefatta del mare che inghiotte per l’imprudenza di chi lo attraversa o di chi cade nelle lusinghe dei trafficanti cattivi. Ed è un’immagine politica perché restituisce la storia di un diritto che ha preso le parti della tracotanza, del razzismo, della dominazione. Lo impersonano le motovedette che inseguono un’imbarcazione che trasporta naufraghi, per nome e per conto del governo in carica, piegate al servizio della sopraffazione contro i migranti.
Proprio al diritto aveva fatto appello la Sea Watch 3 attendendo fuori dalle acque territoriali la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, giunta infine lo scorso 25 giugno. Una decisione con cui la Corte ha perso un’occasione di schierarsi, non a favore di una o dell’altra delle parti o contro il governo italiano, ma da un lato o dall’altro della storia da scrivere, del diritto delle migrazioni. Pur se con una motivazione ambigua e inevitabilmente sintetica, trattandosi di una misura d’urgenza, la Corte ha formulato infatti una decisione antistorica, nella misura in cui richiama una questione di giurisdizione sulla quale non si esprime apertamente. La giurisdizione italiana – sicuramente tale quando si considera legittimo un ordine di interdizione rivolto a un’imbarcazione che si trova ancora al confine – viene meno quando si tratta di tutelare i diritti di chi è a bordo? Il limite territoriale sembra non esistere più per le politiche di controllo delle migrazioni, che si sono progressivamente estese ai paesi confinanti e a quelli di origine e transito, rendendo i governi europei complici di regimi dittatoriali e bande armate che si contendono territori in guerra. Eppure, proprio quel confine territoriale riemerge feroce nella decisione della Corte come limite al riconoscimento e alla protezione dei diritti: oltre le 12 miglia dalla costa l’Italia non è più responsabile, anche se è lei a tenerti sotto scacco.
Sono stati tanti in questi mesi gli appelli allo Stato di diritto di fronte alla successione di atti autoritativi che hanno messo Carola Rackete nella situazione di dover forzare il blocco all’attracco. Di fronte alle presunte chiusure dei porti, dichiarate via twitter in un balletto sulla competenza dei ministeri, prima con il caso Aquarius poi con quello Diciotti; di fronte al primo decreto sicurezza Salvini, che ha continuato per terra la guerra condotta per mare contro i migranti, poi convertito in legge con il beneplacito del Parlamento e del Presidente della Repubblica; di fronte alle direttive del Ministero dell’Interno di interdizione delle acque territoriali; di fronte al decreto sicurezza bis che non solo ha legittimato a posteriori questa prassi, ma ha ulteriormente criminalizzato la solidarietà verso e tra i migranti, ha imposto multe altissime e il sequestro delle navi per via amministrativa e ha fortemente limitato la libertà di dissenso. A tratti, lo Stato di diritto ha tenuto, fintanto che una dialettica tra le parti, anche tra quelle istituzionali, è stata possibile. Ha tenuto, per esempio, nelle Procure della Repubblica accusate di aver fatto scendere i migranti, le quali, riconoscendo la propria competenza a conoscere i fatti, hanno disposto il sequestro probatorio delle navi civili delle ONG, consentendo così a migranti ed equipaggi di far valere i propri diritti nelle sedi deputate. Quando funziona, lo Stato di diritto funziona proprio così: garantendo una dialettica, anche conflittuale, tra le parti e tra le istituzioni; non certo per il richiamo all’onnipotenza della legge e di chi la decide. Ma questa dialettica sembra essere venuta meno. A spazzarla via è un appello feticistico alla legalità: quella che Salvini impone per decreti legge a un parlamento supino che, seppure eletto, delibera senza contraddittorio e discussione. È in questi atti che sono scritte quelle leggi che Carola Rackete avrebbe violato, quelle che consentono di interdire il mare territoriale e gli attracchi, e sulla base delle quali la Guardia di finanza le ha intimato di non entrare nel porto di Lampedusa. Quando lo Stato di diritto assume le vesti della difesa a oltranza del potere, non vale davvero la pena difenderlo.
Anche la cosiddetta legalità internazionale non sembra tuttavia stare meglio: il sostanziale tirarsi indietro della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, fa il paio con l’assenza delle istituzioni europee e le dichiarazioni ridicole degli Stati “buoni”, disposti ad accettare chi dieci migranti, chi qualcuno in più o in meno. Sono numeri risibili di fronte ai fatti storici, non quelli inventati delle invasioni, ma quelli di paesi come l’Italia, che fino al 2011 ha integrato un numero di nuovi ingressi per lavoro di almeno 150.000 migranti l’anno e dove il saldo migratorio è in negativo; o di paesi come la Germania, dove da mesi si è acceso il dibattito sulla riapertura delle frontiere a fronte di una richiesta di manodopera inevasa di almeno un milione di lavoratori.
Il richiamo alla legalità internazionale nell’ambito europeo appare ancora più paradossale davanti alle negoziazioni sulla distribuzione di qualche decina di migranti, che nell’ultimo anno sono state costantemente mediatizzate come moneta di scambio per consentire, in modo del tutto informale, gli sbarchi dei naufraghi soccorsi in mare dalle ONG; davanti al sistema Dublino e ai memorandum internazionali, che tengono decine di migliaia di migranti bloccati nelle isole greche; di fronte alla brutalità dei lager libici, legittimati dagli accordi sottoscritti da Minniti e Gentiloni e dalle stesse politiche europee. Di fronte a questa ipocrita brutalità ci dobbiamo chiedere, allora, perché riconoscere ai migranti la libertà di movimento attraverso i confini faccia così paura. Qual è la posta in gioco di aver reso la libertà di movimento un privilegio di pochi? Sarebbe ora di finirla con la retorica dei confini che difendono qualche presunta civiltà occidentale: difendono razzismo, volontà di sopraffazione e opportunità di dominio. Sono questi i privilegi che si sentono minacciati dalla libertà di movimento dei migranti.
Carola Rackete non ha forzato il blocco per difendere diritti ridotti a feticcio dagli ultras della legalità, ma ha contrapposto la necessità al diritto. Come diceva Simone Weil, è nella contrapposizione delle necessità al diritto che gli afflitti articolano le proprie rivendicazioni, attraverso l’esperienza e l’azione. Con la sua azione, Carola Rackete ha messo in gioco molto di sé e questo la pone su un piano diverso da quello della salvatrice. La pone al fianco delle e dei migranti che attraversando i confini mettono a rischio le loro stesse vite, rivendicando e allo stesso tempo agendo la propria libertà. Sono stati in molti a paragonare Carola alla figura di Antigone. A noi pare che il suo atto non sia un appello a una qualche legge superiore, lo leggiamo piuttosto come una presa di responsabilità, articolata, appunto, attraverso l’esperienza e l’azione. Quella che ci mostra Carola Rackete è una lotta di soggetti incarnati per diritti che non vengono loro riconosciuti, che non coincidono con la forma che il diritto si sta dando e che, come lotta, chiama in causa ognuna e ognuno di noi chiedendoci di prendere parte, al fianco di Carola e al fianco delle e dei migranti!