di TONI NEGRI. Simone Pieranni ci offre, in un rapido scritto, l’immagine della Cina globale (manifestolibri, pp. 95, euro 8). Ci propone cioé la questione del presentarsi della Cina sull’orizzonte globale e si interroga su cosa significhi. Fino ad un decennio fa, prima della grande crisi, una tale questione si sarebbe detta inverosimile (anche per i «pochissimi» che, come Giovanni Arrighi, se l’erano posta con toni profetici). Oggi invece, corrisponde ad una urgenza dell’intelligenza geopolitica. Centralità globale della Cina, dunque? La cosa puo essere analizzata da due punti di vista. Da un lato, considerando la continuità della grande rinascita della nazione cinese: una rinascita costruita e gestita dal Pcc e collegata sempre di più, ad una identità fantasmata in un lontano passato imperiale, prima dell’epoca delle umiliazioni, prima della vergogna coloniale subita a partire dal diciannovesimo secolo, capace di ritrovare una forte dinamica. Questa vocazione la Cina la trova a partire dalla grande crisi del 2008. Essa è l’unico grande paese industriale che subisce la crisi in maniera secondaria: ciò le permette oggi di esprimere una politica globale, da «grande potenza».
COMPLEMENTARE sarà un’altra domanda: al nuovo secolo cinese corrisponde forse il declino americano? Si può davvero pensare che il predominio geopolitico americano abbia lasciato spazio alla nuova potenza cinese? La discussione è aperta. E, prudentemente, Pieranni analizza le ragioni che vanno a favore o contro quella previsione. Particolare attenzione concede all’opera di Joseph Nye Jr e alla sua teoria del soft power americano: laddove alla domanda sul declino americano si risponde che gli Stati Uniti restano il paese più potente, sia dal punto di vista militare, sia dal punto di vista economico (avendo intrecciato il mondo di un sistema orizzontale di rapporti politici, finanziari, monetari, industriali e commerciali) ma che questa loro condizione, organizzata appunto su strumenti e su un deposito di soft power, non mantiene più una dimensione egemonica.
È quindi sul terreno egemonico, che l’alternativa cinese si propone. Essa evita di presentarsi in un confronto diretto con la potenza americana ma agisce piuttosto in maniera trasversale. Ecco ad esempio i principali fondamentali del soft power cinese secondo Pieranni: «è in questo senso il contrario di quello americano a cui siamo stati abituati in Occidente. La Cina non pone condizioni o problematiche di natura politica: democrazia o meno, gli affari si possono fare egualmente… La globalizazione cinese ed il suo concetto di global governance si basa dunque su alcuni assiomi: armonia dal punto di vista diplomatico, mercati liberi ed in grado di far girare agevolmente merci e investimenti, pace tra le nazioni e un “destino comune” fatto di prosperità».
A PARTIRE da questi presupposti, da alcuni anni la Cina si è lanciata nel grande progetto della «via della seta» : un percorso marittimo e terrestre, sul quale costruire infrastrutture che permettano un più stretto collegamento fra la Cina, l’Asia centrale e meridionale e l’Europa. Una grande banca di sviluppo è stata disposta a questo progetto, per la prima volta competitiva con le banche di investimento internazionali (più o meno sotto controllo Usa). Ma la competitività è fortemente sottaciuta da parte cinese ed investitori di tutti i paesi (ivi compresi americani) sono sollecitati alla partecipazione. Su queste basi programmatiche, e più recentemente assumendo una posizione di contrasto con ogni riflusso protezionista ed a favore del mercato globale, la Cina è comparsa come garanzia della globalizzazzione, nello stesso momento in cui le politiche di Trump facevano tremare molti dei paesi fin qui impegnati nell’enorme conflitto di dare regole al mercato globale.
Pieranni sottolinea anche le difficoltà che nel produrre questo progetto e nel portarlo a termine, la Cina si troverà dinanzi. Le vede, ovviamente, nell’asprezza del compito da perseguire sulla «via della seta», nell’incrociarsi di ostilità nazionaliste e di pretese egemoniche (India e Russia particolarmente attive a situare il loro « maldipancia» su una mediana di accettazioni e di rifiuti). Insiste anche sulle incertezze, le turbolenze e gli improvvisi sussulti che la struttura del partito comunista cinese – pur essendosi avviato ad un ulteriore passo nella direzione della trasparenza dei processi decisionali e della democrazia interna del paese – rischia sempre di subire.
MI CHIEDEREI a questo punto, se due ulteriori questioni non debbano essere sollevate. La prima, che è la più importante, riguarda lo studio delle interazioni di questo processo internazionale egemonico intrapreso dalla Cina e l’attuale fase di trasformazione del paese e soprattutto del suo modo di produzione: la mutazione cioé della struttura produttiva, dall’essere il laboratorio industriale globale della produzione mercantile, al rapido ed impetuoso divenire imprenditore del General Intellect, il centro globale della produzione robotizzata ed automatica. L’equilibrio tra questa trasformazione e l’allargamento globale dello spazio finanziario e commerciale non andrà senza difficoltà. E non sarà facile riorganizzare un mercato interno del lavoro che le classi scolarizzate e l’intellettualità di massa cominciano ad occupare in maniera stabile. In secondo luogo, per dirla chiaramente, sono talvolta spaventato dall’intensità della lotta ideologica attorno alla ridefinizione della «nazione» cinese. È fuori dubbio, e Pieranni sarà d’accordo, che ogni definizione di populismo diventerà derisoria se dovessimo confrontarla alla nascita di un eventuale nazionalismo cinese, all’emergere, non più fantasmatico, di un «dragone rosso». Malgrado tutto – ed è opportuno doverlo ammettere – il partito comunista cinese si rivela assai efficace nel controllare ogni pericolo su questo terreno.
IL LIBRO di Pieranni non è cosi secco come la nostra presentazione lo ha fatto. È al contrario elegante e fluente ed il ragionamento politico è interrotto da informazioni interessanti e curiose – come ad esempio quelle che riguardano il controllo dei «corridoi» creati sulla «via della seta» e l’espandersi, anche al servizio delle imprese cinesi, delle milizie mercenarie create negli States (Blackwater e altre).
Ed ha, inoltre, il merito tutto teorico di identificare il nuovo terreno sul quale, oggi, la ricerca dell’ordine globale (e le alternative ad esso) non puo non concentrarsi. L’ordine globale sta infatti costruendosi sull’orizzontale dei rapporti di forza piuttosto che sull’asse verticale del potere sovrano, ed è investito da flussi globali ed attraversa le frontiere, si propone di coordinare mobilità e molteplicità degli attori. Se lì si forma l’ordine mondiale, è lì dentro che dobbiamo analizzare i rapporti di sfruttamento ed organizzare la lotta di classe.
articolo pubblicato da il manifesto dell’11 luglio 2017