di MARCO ASSENNATO.
Ha ragione Angelo Bolaffi [qui] nell’indicare Il tempo degli stregoni come esempio di ottimo giornalismo filosofico. Nel volume, scritto da Wolfram Eilenberger e recentemente tradotto per Feltrinelli (pp. 401, € 25), il decennio cruciale 1919-1929 diventa un teatro teorico nel quale si incrociano le biografie di quattro grandi filosofi del novecento europeo: Cassirer, Heidegger, Benjamin e Wittgenstein. In una scrittura assai gustosa e non priva di intelligente chiarezza, Eilenberger intende restituire al lettore quella che, indubbiamente con troppa fretta, viene definita l’ultima rivoluzione del pensiero. Non si tratta, tuttavia, di un testo nostalgico bensì di una ricostruzione che ha l’ambizione di parlare all’Europa di oggi.
La scena si apre sull’Hotel Belvedere di Davos [nell’immagine in alto], lo stesso in cui Thomas Mann ambientò la sua Montagna Incantata. Ma è il 29 marzo del 1929 e i saloni dell’Hotel si apprestavano ad ospitare uno dei più celebri confronti della storia della filosofia: quello tra Heidegger e Cassirer. Sarebbe prudente allora fermare qui il paragone con il grande romanzo manniano. Perché, seppure qualche somiglianza è riscontrabile tra la figura del filantropo liberale Luigi Settembrini e Ernst Cassirer, difensore della Repubblica di Weimar, nulla lega d’altra parte il gesuita e comunista di origine ebraica Leo Naphta personaggio nel quale più di un interprete ha voluto vedere György Lukács con Martin Heidegger, filosofo della Selva Nera. Non così, secondo Eilenberger, che insiste nel paragone fino al parossismo.
D’altra parte la costruzione narrativa del testo è assai dinamica: Eilenberger allarga le coordinate geografiche e stressa le sincronie. 1929: a Berlino Walter Benjamin, «giornalista free-lance», si arrabatta alle prese con la sua disastrosa condizione finanziaria ed emotiva e cerca di combattere teologicamente la mercificazione della vita e del pensiero; mentre a Cambridge Ludwig Wittgenstein pretende, di fronte a due frastornati giganti della logica analitica, di aver «risolto tutti i problemi della filosofia». Cosa lega questa costellazione di vite, pensieri, rapporti sociali? La centralità di quel confronto, dice l’autore, la tempesta sulle cime svizzere che presto scenderà in terra.
Quattro uomini, quattro itinerari del pensiero, un solo problema: una gigantesca analessi ci porta indietro di dieci anni per ricostruire la genealogia incrociata di una svolta teorica e poi tornare a convergere sulla disputa di Davos intesa dunque come momento sorgivo della filosofia novecentesca. Dov’è l’attualità allora?
In fondo Cassirer e Heidegger discutono del più classico dei problemi filosofici, tipicamente kantiano: Che cosa è l’uomo? Quali le sue condizioni di conoscenza e di libertà? Tuttavia, dice Eilenberger, essi lo fanno sotto l’incombente pressione della crisi economica e finanziaria, tra i detriti della guerra e nel fango di quella «miscela esplosiva di anticapitalismo, anticomunismo e antisemitismo» che trascinerà, da lì a poco, l’Europa intera nella catastrofe. Il corpo a corpo teorico, giocato sul solco della filosofia neokantiana di Cassirer «bersaglio di tutti i giovani filosofi in cerca di novità»ha dunque questa reale, dura, posta in gioco: pensare nella crisi europea, tenersi dentro l’apocalisse della Kultur, nell’incontenibile tracollo delle ipocrisie liberali e borghesi. Buona intuizione, certo, e corretta. In effetti, la stessa congiuntura agita il pensiero di Ludwig Wittgenstein: figlio della Wiener Moderne di Mahler, Hoffmansthal, Musil, Kraus, Freud, Mach, Rilke; e il cui Tractatus deve essere letto, in questo quadro, come «un testo essenzialmente etico» volto a dimostrare che «l’immaturità patologica della cultura moderna consista nel postulato secondo cui i veri problemi filosofici andrebbero affrontati con metodi verificabili».
Null’altro, d’altro canto, occupa il Benjamin critico-distruttore del carattere borghese: quella coscienza lacerata che non cessa di autorappresentarsi come «colpevole-incolpevole nello spazio del destino». La colpa, il destino, l’eterogenesi dei fini della società liberale: cifre, queste, perfettamente riscontrabili nell’immobilismo ideologico della Repubblica di Weimar schiacciata, come fu, tra il debito imposto dagli Stati del grande capitale, la rivoluzione comunista, e le metastasi nazionalsocialiste.
Urgeva, allora, trovare parole nuove per rivolgersi a questa «generazione di reduci, traumatizzati dalla guerra e dalla sconfitta» e, come comprenderà presto Toni Cassirer (la moglie del rettore di Amburgo) l’enfasi sulla grande Bildung tedesca, la riformulazione della domanda kantiana in termini di analisi critica delle forme culturali, su base collettivo-razionale non potevano bastare: «per scuotere la Germania di allora ci volevano mezzi diversi».
Davos, com’è noto, fu il trionfo di Heidegger contro Cassirer. Il chiasma pre-esistenzialista tra «le più astratte questioni metafisiche» e «il dramma dell’esperienza ordinaria», l’insistere sull’«origine» e sull’«angoscia» come squarci che aprono «un altro mondo», l’enfasi sull’«autenticità» contro la vita falsa, il mito del «radicamento» come balsamo e «dimora dell’essere» potevano apparire una sostanza critica sufficiente a spezzare tanto la cultura accademica, quanto i principi morali e gli ordinamenti liberali dell’idealismo tedesco.
Ma, per tenere questa tesi generale, il costrutto narrativo di Eilenberger si obbliga a forzature di ogni sorta: il grande liberale, ultimo eroe borghese e i suoi antagonisti selvaggi, dice Eilenberger. Il primo verrà sconfitto, è vero, ma l’heideggerismo porterà al nazismo e Benjamin morirà suicida. Solo Wittgenstein troverà la forza di ricominciare, ancora e ancora, a fare filosofia. Qui il testo scivola pericolosamente e sembra servirci la solita sbobba degli opposti estremismi, irrazionali, contro la saggia e moderata morale liberale della vecchia Europa (o il veleno neoliberale dell’Europa odierna). Benjamin e Heidegger, scrive Eilenberger, «entrambi aspirano a una svolta rivoluzionaria […] pur di evadere dalla strada a senso unico della modernità». Bene: e tuttavia come si può confondere il Benjamin costruttivista, il comunista brechtiano, uomo compiutamente metropolitano, con il sacerdote dell’essere e la sua Hütte? Così il quadro appare bloccato.
In due momenti tuttavia, questo grosso e intrigante racconto, sembra capace di una qualche apertura: negli accenni alle ricerche che Warburg e Cassirer impostano sul Rinascimento, come momento aurorale del moderno: «il contrario dell’astrazione e della coscienza contro il corpo», piuttosto «una riconquista della libertà a partire da una visione scientifica del mondo, con una lucida consapevolezza dei suoi limiti ed equivoci»; e poi nel capitolo dedicato ad Hannah Arendt, sabotatrice segreta del progetto heideggeriano: «al solipsismo esistenziale dell’essere-proprio ricorda Eilenberger Arendt risponderà con una filosofia del nascere e della pluralità». Scoperta dell’altro, nascita, Amor Mundi, critica della ragione. Ben altre rivoluzioni del pensiero saranno necessarie a percorrere, a partire dal secondo dopoguerra, questa rinnovata riscoperta del reale.
questo testo è stato pubblicato sul manifesto del 26 luglio 2018