Di ALESSANDRO PEREGALLI

Mentre il Brasile è già il secondo paese per numero di contagi di Covid-19, nonostante mantenga l’indice più basso di tamponi del Sudamerica (0.62ogni 1000 abitanti), e veleggia ormai spedito verso il secondo posto anche per numero di morti, una crisi politica sempre più acuta si innesta, e si potenzia vicendevolmente, con la crisi epidemica. Non si tratta di una semplice crisi “di governo”, è la crisi della democrazia liberale brasiliana.

Da alcuni anni, con la crescita esponenziale dell’estrema destra in tutto il mondo, si sprecano i paragoni tra il presente momento storico e quella che Eric Hobsbawm ha chiamato “Era della Catastrofe” (1914-45), e sulla possibilità o meno di parlare di fascismo contemporaneo. Il problema si pone a partire da due domande. La prima: le diverse espressioni della nuova destra, dal trumpismo negli USA al lepenismo in Francia, da Lega e FdI in Italia a Vox in Spagna, da Jair Bolsonaro in Brasile a Narenda Modi in India, da Viktor Orbán in Ungheria a Rodrigo Duterte nelle Filippine, da Tayyip Erdogan in Turchia al governo golpista ucraino, si possono tutte definire alla luce dell’espressione “neofascismo”? La seconda: laddove questi personaggi e forze politiche sono giunti al governo, hanno portato alla creazione di regimi politici fascisti?

È difficile dare risposte univoche a queste domande. È però evidente che esistono alcuni elementi comuni al di là delle specificità dei singoli contesti, considerando che anche i fascismi storici furono esperienze ben più eterogenee tra loro di quanto l’adozione di modelli “classici” faccia sembrare. E che, tanto nel caso dei fascismi storici come in quello delle nuove destre, si tratta di fenomeni che appaiono in momenti di turbolenza globale e di profonda crisi di riproduzione sociale del capitalismo. È anche certo che queste forze politiche, dove giungono al governo, aumentano fortemente i caratteri autoritari e dello Stato, ma questa è una tendenza che nell’attuale epoca di crisi è seguita in qualche misura anche da forze liberali. In paesi come Turchia o Ungheria ci sono state delle vere e proprie rotture istituzionali, mentre in altri paesi europei o negli Stati Uniti le forze di estrema destra sembrano collocarsi (ancora?) nel marco dello Stato di diritto. Nei paesi del cosiddetto Sud Globale, in cui la democrazia liberale si è sostenuta sempre su basi materiali fragili e socialmente escludenti, ci troviamo di fronte a situazioni ancora indecifrabili. Uno di questi casi è proprio il Brasile di Bolsonaro.

L’ascesa di Bolsonaro

Bolsonaro ha vinto le elezioni il 28 ottobre 2018 (proprio nell’anniversario della Marcia su Roma) capitalizzando il fallimento del lungo ciclo di governo del Partido dos Trabalhadores (PT). Come spesso avviene: dopo una sinistra vacillante viene una destra determinata. Il PT, lungi dal portare avanti una politica di contrasto al neoliberismo per la quale era stato eletto, aveva finito per curarne gli effetti rafforzandone le cause. Approfittando del boom dei prezzi delle materie prime, che gli permisero livelli alti e duraturi di crescita e una bilancia commerciale favorevole, nei suoi 13 anni di governo il PT creò politiche sociali di sostegno al reddito, accesso all’università e ai servizi pubblici che permisero a 36 milioni di persone di uscire dalla soglia della povertà, senza dover restringere i margini di profitto di banche e imprese. Tuttavia, il carattere assistenzialista di queste politiche (che in realtà spesso rispondevano a logiche di sussidiarietà e di partecipazione pubblico-privata), e le modalità di inclusione attraverso consumo e credito individuali e non tramite l’accesso a diritti universali, portarono sempre più persone a riconoscersi non come nuova classe lavoratrice con migliori condizioni ma come “nuova classe media” e ad assumerne i principali tratti soggettivi, come la competizione e l’individualismo. Oltretutto, una politica di cooptazione dei sindacati e dei movimenti sociali nell’apparato statale riduceva la capacità di questi ultimi di lottare per riforme più progressiste.

Le illusioni petiste di aver costruito un Brasile felice e prospero e di aver realizzato una rivoluzione senza conflitto sociale si ruppero, dopoi tumulti del 2013, con la crisi economica seguita al drastico crollo dei prezzi delle commodities. In un contesto di depressione economica e di aumento della disoccupazione i ceti medi iniziarono a distanziarsi sempre più dal PT, e ad abbracciare valori politici conservatori, aumentando il proprio risentimento verso le minoranze di genere e razziali, maggiormente favorite da politiche di inclusione (come nel caso delle quote di accesso all’università). In tutto questo, le pratiche di gestione del PT, con schemi di corruzione nelle relazioni con alleati conservatori di governo, banca pubblica e grandi imprese nazionali, sono servite a generalizzare una forte opposizione nella società e sono state al momento giusto ampiamente sfruttate dai monopoli mediatici e dall’inchiesta giudiziaria Lava Jato, che hanno messo in campo una strategia che ha condotto al golpe parlamentare contro Dilma Rousseff nel 2016.

Belo Horizonte, Minas Gerais. 22 de junho de 2013 (upslon).

Sfruttando la rabbia nei confronti della “vecchia politica” e del PT, il malcontento della classe media e un senso sempre più forte di insicurezza, causato dall’aumento della delinquenza per via della crisi, Bolsonaro si è affermato in campagna elettorale come favorito dopo l’ex presidente petista Lula, a cui però era stato accuratamente impedito di partecipare alle elezioni mediante una prigione preventiva illegittima da aprile del 2018. Negli ultimi mesi di campagna, come è noto, il vantaggio di Bolsonaro è cresciuto grazie a un utilizzo sempre più spregiudicato dei social media, accompagnato dall’uso massivo di fake news via Whatsapp, contando sulla collaborazione di Steve Bannon, articolatore dell’“Internazionale Nera”, ex consulente di Trump ed ex ideologo dell’impresa Cambridge Analytica. La spinta definitiva è arrivata in seguito al fallito attentato ricevuto a un mese dal voto. In quel contesto, mentre il candidato preferito dal gran capitale Geraldo Alckmin, del partito di centrodestra PSDB (Partido da Social Democracia Brasileira) non decollava, il grosso della borghesia brasiliana riversava le sue preferenze su Bolsonaro, nel tentativo di sbarrare la strada al ritorno del PT per realizzare le misure di austerità che considerava necessarie nel paese.  Nonostante il secondo governo di Dilma Roussef avesse dimostrato di essere disposto a portare avanti questo tipo di politiche, l’origine e il radicamento popolare del PT lo rendevano un corpo estraneo alla borghesia, che oltretutto si era spinta fino a ordire un golpe parlamentare e non era disposta a tornare sui suoi passi. L’idea originaria delle classi dominanti, fedelmente riflesso dal timido appoggio dato a Bolsonaro da imprenditori, politici di carriera e principali mezzi di comunicazione, e certificata dai rialzi in borsa in risposta alla sua vittoria nel primo turno, era quella di controllare facilmente un presidente da loro ampiamente sottovalutato e imporgli un’agenda di privatizzazioni e la riforma del sistema pensionistico in senso contributivo. La scelta di Bolsonaro, che non era mai stato fan del liberismo economico, di nominare ministro dell’Economia il Chicago Boy Paulo Guedes e ministro della Giustizia Sérgio Moro, il giudice che aveva fatto arrestare Lula, erano la garanzia del suo “disciplinamento”. Tuttavia, la spregiudicatezza della sua personalità e il rafforzamento del bolsonarismo come movimento politico autonomo sarebbero presto sfuggiti dal loro controllo. Prima di considerare come si sta dando quest’escalation reazionaria, consideriamo la pertinenza del termine fascismo per il caso brasiliano.

In Brasile c’è fascismo?

Secondo Atilio Borón, marxista argentino di tendenze ortodosse, l’attuale governo di Bolsonaro non può essere considerato fascista perché non segue il modello del fascismo “storico” in tre aspetti che giudica centrali: in primo luogo, è al servizio del capitale finanziario internazionale, invece di costituirsi intorno a un blocco di potere egemonizzato da borghesie nazionali; in secondo luogo, si inserisce nella tradizione storica di governi latinoamericani servili nei confronti dell’imperialismo statunitense, invece di portare avanti politiche imperialiste proprie; infine, adotta una politica economica ultra-liberale e non, come i fascismi storici, di forte intervento pubblico.

Il politologo brasiliano Armando Boito, seguendo una linea teorica che si rifà al marxista greco Nicos Poulantzas, ha obiettato che in una stessa forma di Stato, come può essere quella democratico-liberale, di dittatura militare o di dittatura fascista, sono possibili blocchi al potere diversi e, di conseguenza, che esistano approcci divergenti in politica economica o politica estera. In effetti, strategie militariste aggressive sono state frequenti anche nella storia di paesi formalmente democratici. Allo stesso tempo, secondo Boito il fascismo non si misura di fatto a partire dagli interessi specifici che in ultima istanza difende (se quelli della borghesia monopolista nazionale o quelli del capitale finanziario internazionale), ma piuttosto da quelli che punta a rappresentare e mobilitare come movimento di massa, cioè la piccola borghesia. Il fascismo emergerebbe in questo modo come un movimento ingannevole, che cresce e si mobilita a partire dalle classi medie ma che in realtà finisce col difendere il dominio dell’élite. Nelle parole del politologo brasiliano, fascismo e neofascismo “sono spinti da un discorso superficialmente critico e allo stesso tempo profondamente conservatore riguardo l’economia capitalista e la democrazia borghese: critica al grande capitale e difesa del capitalismo; critica alla corruzione e alla ‘vecchia politica’ combinate con la difesa di un ordine autoritario.” In quest’ottica, quindi, i fascismi crescono nel seno dei ceti medi, soprattutto nei momenti storici in cui questi tendono a impoverirsi e a vedere come minaccia la possibile concorrenza delle classi popolari, che vengono perciò sempre più percepite con tinte razziali, di genere, etniche o religiose “inferiori”. In questo senso, i fascismi sono sempre inscindibili da un forte acuirsi del razzismo e del sessismo, sebbene razzismo e sessismo si esprimano ampiamente anche nelle ideologie politiche non fasciste. Tuttavia, se è vero che la base sociale e militante fascista è di classe media, arrivando a includere alcuni settori proletari, normalmente la piena trasformazione di un progetto fascista in uno Stato propriamente fascista si da nel momento in cui questo progetto si sposa con gli obiettivi delle classi dominanti.

Di fatto, un movimento e un’ideologia fascista sono perfettamente compatibili con il difendere gli interessi del capitale internazionale e il servilismo geopolitico quasi caricaturale che il bolsonarismo esprime nei confronti degli USA. Nemmeno la differenza tra il dirigismo economico del fascismo storico e l’ultra-liberismo di Bolsonaro è centrale, dal momento che il fascismo non ha mai avuto in realtà un pensiero economico proprio, e si è invece inserito nel marco di compatibilità via via dominante: non è un caso infatti che il fascismo in Italia avesse adottato un set di politiche economiche fondamentalmente liberiste fino alla crisi del ‘29, e rafforzò aspetti populisti, in misura molto più retorica che reale, solo verso la seconda metà degli anni ‘30, quando il liberismo economico era stato messo da parte in tutto il mondo. Oggi il neofascismo, e lo vediamo bene in Europa o negli USA, non è affatto un’alternativa al neoliberismo, ma la sua variante radicale, la sua “macchina da guerra”, anche se nascosta dietro a slogan “popolari” come il protezionismo o l’anti-europeismo. In questo senso, non desta scalpore che anche il bolsonarismo segua una politica liberista, oscillando tra la sua versione soft portata avanti dai ministri dell’ala militare (Casa Civile, Infrastrutture, Miniere ed Energia) e quella estremista di Guedes.

Ma se il carattere fascista del bolsonarismo non viene da questi fattori, da cosa si definisce? Come già argomentato in un’altra occasione, l’elemento fascista del bolsonarismo è determinato dal suo carattere “egemonico” e “mobilitante”. In primo luogo, la presenza di un fascismo con caratteri “egemonici” —nel senso attribuito da Gramsci alla somma di elementi di dominazione pura e di consenso sociale— è un fenomeno relativamente “atipico” in America Latina, e ha come precedenti solamente l’Integralismo brasiliano, movimento nato come risposta a un tentativo di insurrezione comunista nel 1935, e frange minoritarie nello stesso periodo in Argentina. A ben vedere, né le esperienze populiste di Juan Domingo Perón in Argentina e di Getulio Vargas in Brasile tra gli anni ‘30 e gli anni ‘50 possono essere definite realmente fasciste, in quanto avevano un’impronta anticoloniale e una matrice popolare troppo esplicita, né le dittature militari nate negli anni ‘70 nell’ambito del Piano Condor, che si erano dovute imporre in forma antidemocratica attraverso colpi di Stato e che si erano sostenute su dosi massicce di repressione. Da un certo punto di vista, potremmo  evidenziare maggiori affinità tra il bolsonarismo e i governi di Fujimori in Perù e Uribe in Colombia. Tuttavia queste esperienze, che coniugarono dosi diverse di militarismo, paramilitarismo, autoritarismo, anticomunismo e la presentazione del leader come outsider rispetto alla “vecchia politica”, non arrivarono a definizioni ideologiche “mature” come accade ora con Bolsonaro.

Oltre ad attingere a piene mani riferimenti dei fascismi “originali” (celebre è stata la ripresa letterale di un discorso di Goebbels daparte di un segretario alla Cultura), quest’ultimo si rifà alle teorie di Olavo de Carvalho, filosofo brasiliano residente negli USA e vicino all’alt right statunitense, che ha contribuito a popolarizzare idee complottiste come quella che vede nel “Nuovo Ordine Mondiale” un progetto del cosiddetto “marxismo culturale”. Di impostazione conservatrice, anti-illuminista e anti-modernista, centrali nel suo pensiero sono il negazionismo del riscaldamento globale e dell’AIDS, il “terrapiattismo” e, nel pieno della crisi del Coronavirus, l’idea che la pandemia sia “la più grande manipolazione dell’opinione pubblica mai avvenuta nella storia umana”. Riaffermando quindi che non esiste un modello “classico” di fascismo, possiamo considerare il bolsonarismo come un fenomeno ideologico originale, che ha ripreso una dottrina pseudo-fascista quale l’“olavismo” e lo ha saldato e sintonizzato culturalmente e socialmente con la storia del Brasile, l’ultima nazione in cui è stata abolita la schiavitù. In questo senso il nazionalismo in Bolsonaro non riguarda il ruolo, sempre più convintamente marginale, del Brasile nel contesto globale ma, come sostiene Vladimir Safatle, è l’idea di una rinascita della nazione nella sua forma paranoica, schiavista e bianca, come ultimo rifugio di ciò che le classi dominante e medie considerano come proprio, come figura allargata di una loro proprietà. Una rivendicazione proprietaria che nella crisi del Coronavirus è arrivata a veri e propri “rituali di autosacrificio e di violenza”, con persone che ballano in strada senza maschera, suonano il clacson di fronte agli ospedali e deridono apertamente il dolore di migliaia di persone contagiate.

Il secondo elemento che ha prodotto l’eccezione di un’ascesa fascista in America Latina è il carattere estremamente mobilitante, di massa, del fenomeno Bolsonaro. Il fascismo, di fatto, si distingue dalla destra liberale o conservatrice in quanto unico movimento politico reazionario che non si limita alla costruzione di un consenso passivo o alla chiamata “produzione di soggettività”, ma che produce mobilitazione politica, militante e dal basso. Si può quindi affermare, come fa Boito, che in questo momento in Brasile siamo in presenza di un’ideologia neofascista, un movimento neofascista e un governo dominato da neofascisti, ma non ancora di un regime politico fascista. Perché ci si possa arrivare, bisogna capire se il bolsonarismo riuscirà ad ottenere un certo tipo di accordo stabile con le classi dominanti ma, soprattutto, se riuscirà a imprimere un salto di qualità al proprio processo di crescita organizzativa e ideologica, se riuscirà cioè a farsi partito. Come ha argomentato Jeffery Webber,latinoamericanista della York University, il nucleo duro di questo partito fascista in costruzione esiste già ed è costituito dalle milizie, gruppi paramilitari cresciuti nelle favelas di Rio de Janeiro, città nella quale Bolsonaro è stato eletto a deputato federale per 30 anni consecutivi.

Il Partito di Bolsonaro

Il deputato del partito di sinistra PSOL (Partido Socialismo e Liberdade) Marcelo Freixo, di Rio de Janeiro, sostiene che la genesi del bolsonarismo è da cercare “nella fogna della malavita carioca sostenuta dalla triade politica, polizia e crimine organizzato”. Negli anni ‘90 apparvero sulla scena di Rio le milizie, squadracce formate da poliziotti ed ex poliziotti corrotti che si legittimavano agli occhi di certi settori della società per la loro lotta al narcotraffico e alla delinquenza popolare, e che venivano tollerate dallo Stato per fare, in qualche modo, il “lavoro sporco” e perché effettivamente erano composte dallo stesso personale che integra le forze dell’ordine statali. Ben presto però, nei territori poveri dove si installarono, finirono per adottare pratiche di dominio militare, sfruttamento economico (pizzo, estorsioni e in breve lo stesso traffico di droga) e potere politico attraverso il terrore e il clientelismo. Da subito Bolsonaro, da deputato, diventò il principale riferimento politico delle milizie, anche se secondo Webber oggi sarebbero almeno un terzo i consiglieri municipali di Rio legati ad esse.

Marielle Franco (Jeso Carneiro)

Secondo Freixo, l’uomo chiave della relazione tra Bolsonaro e le milizie è l’ex poliziotto Fabrício Queiroz, oggi al centro di uno scandalo di corruzione che coinvolge anche il figlio di Bolsonaro e consigliere di Rio, Flávio. Fu Queiroz a favorire l’avvicinamento alla famiglia Bolsonaro di Adriano da Nóbrega, assassino seriale che è stato recentemente ucciso in un conflitto a fuoco dalla polizia statale di Bahia. A testimoniare i legami con la famiglia del persidente c’è, per esempio, il premio onorifico che Flavio Bolsonaro assegnò a Adriano nel 2005 mentre si trovava in carcere. Adriano era il capo della milizia Escritório do Crime, gruppo criminale che, secondo le inchieste della magistratura, sarebbe artefice dell’assassinio della consigliera comunale del PSOL Marielle Franco il 14 marzo del 2018.  La polizia federale ha individuato come esecutore materiale di quell’omicidio Ronnie Lessa, ex poliziotto ma anche ex vicino di casa della famiglia Bolsonaro, e la cui figlia ebbe in passato una relazione proprio con Flávio. Oggi le indagini sull’omicidio di Marielle si stanno sempre più avvicinando alla famiglia Bolsonaro, e questo è un fatto che, come vedremo, sta avendo una certa importanza nell’accelerazione della torsione autoritaria del governo. Fatto sta che il clan Bolsonaro non perde occasione per attaccare la figura di Marielle, che rappresenta tutto quello che il bolsonarismo disprezza: donna, nera, bisessuale, di origini popolari e di sinistra.

Secondo Webber, da quando Bolsonaro è diventato presidente, è probabile che uno dei suoi obiettivi principali sia stato e sia l’espansione in senso nazionale delle milizie, fino ad ora relegate a Rio de Janeiro. A questo si deve la politica di liberalizzazione del porto d’armi portata avanti, non senza battute d’arresto nel Congresso, dal governo federale.  Non ci sono attualmente dati concreti sulla reale espansione delle milizie in Brasile, ma possiamo leggere come dei passi in questa direzione tanto l’insubordinazione armata di un pezzo della polizia militare dello stato del Ceará questo febbraio, quanto la presenza di un nucleo di miliziani armati nell’accampamento fisso che dallo scoppio della crisi da Coronavirus si ritrova a Brasilia nella piazza dei Tre Poteri per chiedere la chiusura manu militari di parlamento e Corte Suprema. Sebbene Bolsonaro sia stato eletto con la sigla del PSL (Partido Social Liberal, un partito quasi sconosciuto fino al boom del 2018, ed oggi già lacerato da scandali di corruzione, abbandonato dallo stesso presidente e profondamente diviso tra bolsonaristi e anti-bolsonaristi) il suo vero partito, il vero core del movimento fascista che punta alla conquista dello Stato, sono le milizie. In questo non sarebbe del tutto impreciso un paragone con le SS e le SA del nazismo ma forse, come ha fatto notare Webber, il modello più immediato di Bolsonaro è la stretta relazione tra l’ex presidente colombiano Álvaro Uribe e i paramilitari delle Autodefensas Unidas de Colombia. Anche Uribe era partito dalla costruzione di un feudo paramilitare nella provincia di Antioquia, per poi favorire la diffusione del paramilitarismo su scala nazionale, garantendogli ogni tipo di immunità giuridica, e in una certa misura saldandolo all’apparato statale e al proprio esercito. Quello che bisognerà capire è se Bolsonaro tenterà o no, grazie alla forza militare e ideologica delle milizie, di dare il colpo di grazia alle istituzioni democratiche, o se si manterrà nei limiti del quadro costituzionale.

Se quindi le milizie sono il nucleo duro del partito di Bolsonaro in formazione, quest’ultimo è più ampio e, nonostante un lento declino dell’indice dei consensi nei confronti del presidente, si rafforza e si radicalizza. In Brasile negli ultimi anni è diventato un luogo comune l’idea delle tre “B”: Bala, Biblia e Boi (pallottola, Bibbia e bue), che stanno ad indicare rispettivamente l’industria delle armi (in senso ampio, dai fabbricanti all’Esercito, dalle milizie alla polizia, dai fazenderos ai piccoli proprietari a favore della “legittima difesa”), le chiese evangeliche e neo-pentecostali e i latifondisti dell’agribusiness. Questi tre settori di fatto raccolgono una rappresentatività sempre più grande in parlamento, e gli ultimi due sono cresciuti enormemente in passato in alleanza con il PT, prima di salire sul carro di Bolsonaro. L’appoggio dei grandi possidenti terrieri e dei gruppi di tagliatori di legna illegali che stanno portando avanti la distruzione dell’Amazzonia rappresenta il lato più ferocemente reazionario del bolsonarismo, che ha offerto a questi settori la bandiera ideologica del negazionismo del cambiamento climatico, l’anticomunismo con cui contrasta il Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra (MST) e lo smantellamento della normativa in difesa dei diritti degli indigeni. D’altro canto, la relazione preferenziale del bolsonarismo con la maggior parte degli ambienti evangelici, fondato sulla comune crociata contro i diritti delle donne e della diversità sessuale, ha fornito al fascismo brasiliano un coinvolgimento militante (ma anche un controllo clientelare) di pezzi consistenti di proletariato, sfruttando la presenza capillare di queste chiese in quartieri periferici e favelas.

Dall’inizio della crisi da Coronavirus, la politica di negazione o totale sottovalutazione della pandemia da parte del governo ha avuto, come noto, conseguenze drammatiche in termini di vite umane. Ciò ha portato a una crescita del dissenso, con più del 70% della popolazione favorevole alla quarantena e un 50-60% ormai apertamente contrario al governo Bolsonaro in quanto tale. Ma a fronte di questi dati, e a una posizione sempre più anti-governativa da parte dei media mainstream, gli indici di approvazione del governo scendono lentissimamente, e risulta che quasi il 30% della popolazione abbia ancora fiducia nel presidente. Quella che si è registrata è però una leggera tendenza del governo a perdere consenso nelle classi medio alte, che lo votarono in massa alla elezioni, e a compensarlo con pezzi di piccola borghesia o di settori popolari che vivono dell’economia informale che, in un clima politico in cui le proposte di redistribuzione della ricchezza e di reddito di quarantena sono sempre più invisibilizzate, vengono attirate dalla narrativa bolsonarista del mantenere tutto aperto e del “è peggio morire di fame che di Covid”. La classe dominante si trova in questo momento divisa, ma i grandi marchi sembrano propendere per accettare la quarantena, sapendo bene che potranno rifarsi delle perdite di oggi con maggiori quote di mercato domani a scapito dei concorrenti minori, molti dei quali falliranno. Dal canto loro, le sinistre non hanno saputo costruire un discorso autonomo, e sono andate a rimorchio delle politiche messe in campo dai governatori conservatori, come gli ex alleati di Bolsonaro João Doria, di San Paolo, e Wilson Witzel, di Rio, che hanno portato avanti una difesa aproblematica dell’isolamento sociale. La scelta, comprensibile, dei movimenti sociali, di “restare a casa”, ha però di fatto lasciato campo libero all’azione diretta dei militanti bolsonaristi, che da metà marzo scendono in strada tutte le settimane nelle capitali del paese per contrastare le politiche di sanità pubblica di sindaci e governatori e per chiedere l’apertura generalizzata. In questo contesto di rafforzamento del bolsonarismo “dal basso”, una serie di episodi critici hanno portato all’inasprirsi dei rapporti tra il governo e gli altri due poteri della Repubblica, il parlamento e l’STF (Supremo Tribunal Federal).

Il partito militare

La formazione di un partito attorno al nucleo delle milizie, e il progetto fascista ad essa connesso, non è l’unica strategia oggi in campo in Brasile per portare a una rottura degli ultimi deboli presidi della democrazia formale. Un’altra linea reazionaria ha preso forza negli ultimi anni, una linea culturalmente diversa dal bolsonarismo, anche se con elementi di affinità, e che non si propone la creazione di un regime strettamente fascista, ma che negozia con il bolsonarismo la definizione di un nuovo ordine autoritario. Questa strategia risponde all’esercito e ha come modello la dittatura militare (1964-1985). L’estraneità della strategia delle Forze Armate al fascismo è definita dal fatto che queste ultime non portano avanti un’ideologia egemonica e mobilitante, ma puntano piuttosto alla pacificazione sociale. Oltretutto, non vedono di buon occhio la crescita delle milizie, che in qualche modo riducono il loro monopolio della violenza sulla società.

Il ritorno dell’esercito al centro della politica brasiliana, dopo tre decenni di democratizzazione del sistema politico, è una tendenza in corso da anni. Quando nel 2002 Lula da Silva, ex leader sindacale operaio, fu eletto presidente, il Brasile visse l’illusione che il processo di ritorno alla democrazia dopo la lunga parentesi di governo militare fosse giunto a compimento. Lungi dal contrastare il peso delle Forze Armate, il governo Lula intrattenne sempre buone relazioni con la cupola militare, sviluppò e finanziò la struttura militare, e mise in campo una politica sub-imperialista regionale del Brasile ben vista dai quadri dell’esercito, e che ebbe come momento culminante la leadership brasiliana della missione di pace ad Haiti iniziata nel 2004 e finita ingloriosamente nel 2017. Oltretutto, Lula non cercò in alcun modo di infastidire l’esercito con commissioni d’inchiesta sui crimini commessi dalla giunta militare in passato, i cui membri mantennero una condizione di sostanziale impunità. Le cose cominciarono a cambiare con Rousseff a partire dal 2011: già mal vista dall’esercito in quanto donna ed ex guerrigliera imprigionata e torturata ai tempi della dittatura, Dilma decise di seguire l’esempio di Argentina e Cile e di creare una “Commissione della Verità”, oltre subordinare le principali nomine militari al ministero della Difesa. Parallelamente, però, mentre Dilma con una mano cercava di limitare il potere politico dell’esercito, con l’altra indirettamente lo rafforzava, prima con la formulazione di una normativa anti-terrorismo fortemente liberticida in risposta alle proteste di giugno 2013 e poi, nel 2014, con l’intervento federale per la pacificazione delle favelas di Rio, in cui operarono quadri militari che si erano formati ad Haiti.

I dissidi con la cupola militare, tuttavia, spinsero quest’ultima a contrastare, in maniera sempre più esplicita, il PT, e ad avallare le manovre golpiste che portarono alla caduta di Dilma nel 2016, in un processo che toccò il suo apice quando, alla vigilia della decisione dell’STF sull’Habeas Corpus di Lula (la possibilità di evitare il carcere preventivo per i delitti di corruzione per cui era incriminato), il generale Villas Boas ammonì che nel caso in cui il tribunale avesse dato l’impunità all’ex presidente le Forze Armate avrebbero dovuto intervenire. Altre minacce si sono susseguite nei mesi successivi di fronte all’eventualità che la magistratura permettesse a Lula di candidarsi alle elezioni.

In campagna elettorale Bolsonaro, che a sua volta, prima di diventare politico, aveva fatto una breve e fallimentare carriera nell’esercito, decise di candidare come vice presidente l’ex generale Hamilton Mourão, sancendo in questo modo un sodalizio tra il suo partito fascista in formazione e un pezzo del partito militare; un sodalizio che si è ri-celebrato simbolicamente il 31 marzo del 2019 e del 2020, anniversari del golpe militare del 1964 che sono stati solennemente festeggiati dal governo brasiliano. Oggi in Brasile ci sono circa 2500 funzionari del governo federale che provengono dalle fila delle Forze Armate e ben otto ministri su 22 sono militari, l’ultimo dei quali, il segretario della Casa Civil (una sorta di sottosegretario alla presidenza) Walter Braga Netto, è stato nominato nel pieno della crisi pandemica dando adito a teorie del complotto, circolate anche in Italia, che vedevano una destituzione di fatto del presidente da parte dell’ala militare. In realtà, le cose sono più complicate.

E’ noto che nel governo brasiliano ci sono fondamentalmente tre componenti: l’ala cosiddetta ideologica, ossia il vero e proprio partito bolsonarista, rappresentato soprattutto dal presidente, e dai titolari di Esteri, Istruzione, Ambiente, Donna, Famiglia e Diritti Umani e, a partire dalle dimissioni di Sérgio Moro, Giustizia; l’ala neoliberista ortodossa, rappresentata dal ministro dell’economia Guedes; e l’ala militare. Quest’ultima, sebbene condivida il culto dell’ordine e l’anticomunismo viscerale del bolsonarismo, oltre che l’allineamento geopolitico agli USA, adotta posizioni più flessibili, moderate e pragmatiche delle altre due; in questi 19 mesi di governo, i militari hanno cercato di ammorbidire alcuni eccessi ideologici e di portare avanti una linea di maggior real politik che potesse evitare lo scoppio tanto di problemi internazionali come di crisi sociali interne e rallentare il processo di periferizzazione economica e di marginalizzazione geopolitica del paese. In questo senso, per esempio, come ha osservato Gabriel Merino, i ministri militari, e soprattutto Mourão, hanno tentato di preservare il MERCOSUR dalle spinte distruttrici del bolsonarismo, hanno mantenuto una stretta relazione con la Cina edulcorando le sparate da Guerra Fredda del ministro degli Esteri e del primogenito di Bolsonaro, Eduardo, e hanno posto un freno alle pulsioni belliche del bolsonarismo contro il Venezuela, facendo capire a Washington che il Brasile non avrebbe pagato il costo di sangue di cui Trump ha bisogno per detronizzare Maduro. Da un punto di vista geopolitico, dunque, i militari sembrano meno propensi a una servilismo totale nei confronti degli USA, ma piuttosto a una subalternità negoziata. Anche da un punto di vista economico i militari sono più pragmatici e meno legati al semplice laissez-faire, e sono loro di fatto ad aver imposto a Guedes un piano di investimenti pubblici in infrastruttura per contrastare gli effetti economici della pandemia.

Tuttavia, come ha segnalato un articolo della fondazione Tricontinental, la posizione economica dei militari da tempo non è più nazionalista e “sviluppista”, come era ai tempi della dittatura, ed è molto più incline a programmi di privatizzazione, incluso dei settori strategici. Le differenze con il bolsonarismo “duro” sono più retoriche che qualitative. Sono quindi piuttosto affrettate le teorie per cui il partito militare starebbe cospirando contro Bolsonaro o strizzerebbe l’occhio alle proposte parlamentari di impeachment del presidente. Sebbene idealmente persegua un orizzonte politico di “bolsonarismo moderato” o di “bolsonarismo senza Bolsonaro”, sa bene che la fusione della propria corporazione con l’apparato statale è un processo di non ritorno. Ed è anche consapevole che il basso clero dell’esercito è particolarmente simpatetico al presidente.

Il “momento Matteotti”

Lo scoppio della pandemia da Coronavirus rappresenta, a mio modo di vedere, un possibile “momento Matteotti” nel processo di escalation autoritaria in Brasile, quel momento cioè in cui a partire da fatti politici eclatanti chi sta cercando di rompere l’ordine costituzionale non dissimula più fedeltà alle istituzioni e alle procedure democratiche ma sembra sempre più disposto a violarle apertamente, e ad assumersene le conseguenze. Intendiamoci: non considero affatto che il destino della crisi attuale sia segnato. Oggi più che mai la dinamica storica è aperta, soprattutto in una regione in cui il vento della ribellione ha ricominciato a soffiare forte a partire dagli ultimi mesi del 2019.

I segnali che siamo arrivati a un punto di svolta si sono moltiplicati negli ultimi mesi. Come sostiene Freixo, “può benissimo darsi che alla fine non si realizzi, ma mai una dittatura era stata annunciata come ora in Brasile”. Oggi l’AI5, l’Atto Istituzionale con cui il governo militare nel 1968 cassò il mandato dei parlamentari contrari alla giunta, autorizzò interventi federali in municipi e stati e legalizzò di fatto la tortura, è un tema all’ordine del giorno; è stato minacciato prima da Eduardo Bolsonaro, poi dal ministro Guedes e infine dallo stesso Presidente della Repubblica, e viene richiesto a gran voce dalle manifestazioni fasciste. I media lo condannano, ma ne parlano sempre più come di una possibilità concreta. Con una puntualità sorprendente, l’AI5 è inoltre evocato ogni volta che le indagini sul caso Marielle si avvicinano alla famiglia Bolsonaro.

Dopo che in ottobre è stata approvata dal Congresso la riforma delle pensioni, principale richiesta dell’élite economica, i rapporti di questa con il governo Bolsonaro si sono via via complicati. Negli ultimi mesi del 2019 e nei primi del 2020 un lungo braccio di ferro tra governo e parlamento sulla gestione di una parte del bilancio pubblico ha visto la vittoria di quest’ultimo e, come risposta, la convocazione di manifestazioni filo-governative che chiedevano esplicitamente la chiusura del Congresso. La prima di esse è stata il 15 marzo, momento incipiente della diffusione di casi di Covid-19 in Brasile, quando Bolsonaro, dato da molti come possibile infetto da Coronavirus dopo una sua visita negli Stati Uniti, aveva partecipato direttamente, senza maschera e dispensando abbracci. Poco dopo è iniziata la lunga telenovela sul suo tampone, il cui risultato non è stato reso pubblico. In quell’occasione sono state depositate presso il Congresso le prime richieste di impeachment per crimini contro la salute pubblica.

I fatti dei mesi successivi sono abbastanza noti anche al pubblico internazionale: il Brasile ha fatto costantemente notizia per via della politica scellerata del governo, contrario all’isolamento sociale, insultante nel suo disprezzo delle vittime e favorevole, contro ogni evidenza scientifica, all’uso dell’hydroxiclorochina come farmaco miracoloso. In questo delirio, ben due ministri della Sanità, Luis Henrique Mandetta e Nelson Teich, si sono dimessi in meno di un mese. In un braccio di ferro infinito, potere esecutivo, legislativo e giudiziario si sono scontrati su tutto, dai magrissimi sussidi di emergenza per i settori popolari alla gestione del bilancio federale alla possibilità o meno di sospendere per un tempo indefinito i contratti di lavoro. Conflitti nei quali il governo ha sempre cercato di restringere gli aiuti e boicottare le normative, nel costante tentativo di difendere gli interessi delle imprese e privilegiare la tenuta economica sulla vita dei lavoratori. A questi conflitti tra poteri si sono aggiunti quelli del governo con stati e municipi, molti dei quali favorevoli a certi livelli di distanziamento sociale; l’effetto è stato una governance del territorio nazionale completamente schizofrenica e a macchia di leopardo.

In questo contesto, le dimissioni di Sérgio Moro il 24 aprile determinano un salto di qualità nella crisi. Si danno come risposta all’ingerenza di Bolsonaro nel suo ministero per sostituire il capo della PF Polizia Federale (PF) Maurício Valeixo, uomo di fiducia del ministro, colpevole secondo il presidente di non aver bloccato le indagini della PF di Rio de Janeiro, relative tra le altre cose all’omicidio di Marielle Franco. Al momento di dimettersi, Moro accusa Bolsonaro di aver disposto la sostituzione di Valeixo con la finalità di “proteggere la sua famiglia” dalle inchieste. Oltre al caso Marielle, nel mirino del presidente ci sono le misure prese dalla PF su una dozzina di deputati bolsonaristi indagati dall’STF per aver diffuso fake news in campagna elettorale. Quella sulle fake news, di fatto, è un’altra indagine che, se portata fino in fondo, potrebbe arrivare ad estromettere Bolsonaro dall’incarico. Come risposta alle accuse di Moro, Bolsonaro immediatamente nega l’interferenza nella PF, ma rivendica di voler avere uomini di fiducia in quell’istituzione per via di alcune inchieste che riguardano la sua famiglia. Il 28 aprile Bolsonaro nomina Alexandre Ramagem a direttore della PF e Mendonça come ministro di Giustizia. Il giorno successivo un giudice dell’STF nega la nomina di Ramagem per essere amico di famiglia di Bolsonaro; questi, irritato, accetta, nomina Rolando Alexandre ma minaccia che era a un passo dal disobbedire alla decisione della corte. Il 2 maggio Moro testimonia alla PF di Curitiba e rivela che le prove dell’interferenza di Bolsonaro per aiutare la sua famiglia si trovano nel video della riunione del Consiglio dei Ministri del 22 aprile. L’STF dispone la requisizione del video, ma il governo resiste per settimane, indicando che ci sono frasi sensibili in questioni di politica estera.

Nel frattempo, il 14 maggio, Mourão pubblica un editoriale per il giornale Estadão, in cui descrive la crisi istituzionale che vive il paese e la riassume in quattro problemi: la polarizzazione della società sulle misure da adottarsi per sconfiggere la pandemia, con un eccessivo accanimento dei media contro l’esecutivo; il non rispetto da parte di governatori, magistrati e legislatori del carattere federale, e non confederale, della nazione; l’usurpazione delle prerogative del potere esecutivo da parte degli altri poteri; l’accanimento contro il governo su temi sensibili come l’Amazzonia. L’editoriale si chiude prefigurando una situazione grave, ma non insuperabile, ammesso che emerga una maggiore “sensibilità delle più alte autorità del Paese”. Otto giorni dopo il generale Augusto Heleno, capo di gabinetto della Sicurezza Istituzionale del Presidente della Repubblica, minaccia esplicitamente un golpe nel caso in cui la magistratura disponga il sequestro del cellulare di Bolsonaro per indagini relative all’inchiesta sulle fake news. Di fronte allo scandalo sollevato dal suo comunicato, 90 ex ufficiali scendono in difesa di Helenoe parlano di guerra civile.

Il giorno stesso, 22 maggio, l’STF rende pubblico il video della riunione ministeriale del 22 aprile, in cui Bolsonaro sostiene che “non aspetterò che tutta la mia famiglia, i miei amici, si fottano, perché non posso cambiare qualcuno delle forze dell’ordine”, dando prova del suo tentativo di ingerenza nella PF. Il presidente afferma anche che intende armare “il popolo” per evitare che qualche “figlio di puttana” impianti una dittatura. Nello stesso video, emergono altre frasi compromettenti come quella del ministro dell’Istruzione Abraham Weintraub che, oltre a negare l’esistenza di “popoli indigeni” in Brasile, sostiene che invece che dialogare con l’STF si dovrebbe “mandare tutti quei vagabondi in galera”; o del ministro dell’Ambiente Ricardo Salles, che sottolinea “l’opportunità che abbiamo che la stampa ci sta dando un po’ di respiro” per far passare “riforme infra-legali di de-regolamentazione e semplificazione in ambito ambientale”, agendo “senza coinvolgere il Congresso, perché tutto ciò che passa dal Congresso non lo riusciamo ad approvare”. L’obiettivo, neanche a dirlo, è accelerare la devastazione dell’Amazzonia, mentre tutto il mondo ha gli occhi puntati sul Covid.

Lo scorso 28 maggio, infine, una nuova minaccia di golpe viene data dallo stesso Bolsonaro: in seguito all’ordine di sequestro, da parte di un giudice costituzionale, di PC, tablet e cellulari di 29 persone del suo entourage, per indagare sullo scandalo fake news, il presidente avverte: “ieri è stato l’ultimo giorno. Chiedo a Dio che illumini le poche persone che osano considerarsi migliori e più potenti di altre che rimangano al loro posto”. Poco dopo, diffonde sui social l’opinione di un avvocato che, contro il parere di ogni costituzionalista, considera legittimo l’“intervento puntuale” delle Forze Armate come “potere moderatore” nel conflitto tra altre istituzioni. Eduardo Bolsonaro rimarca: “le Forze Armate arrivano, mettono un panno caldo, azzerano il gioco e dopo torna il gioco democratico.”

Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso

Da mesi, in Brasile ci si chiede con sempre maggior insistenza: Bolsonaro cadrà o reggerà? Ci sarà un impeachment o un colpo di Stato militare? Arriveremo a svolgere le elezioni municipali di quest’anno e quelle politiche del 2022? A queste domande se ne aggiungono altre: quando si raggiungerà il picco della pandemia che sembra non arrivare mai? Quanto sarà il costo di sangue del genocidio di Bolsonaro? Quali conseguenze genererà una gestione economica che si configura sempre più come guerra aperta contro le classi popolari? Domande strettamente connesse l’una con l’altra.

Nel primo anno di governo di Bolsonaro la crescita economica è stata intorno all’1% del PIL, al di sotto delle aspettative e con indici in discesa già a inizio 2020. Di fatto, il Brasile non si è mai ripreso dalla depressione economica dovuta alla caduta dei prezzi delle materie prime nel 2015, e l’ulteriore crollo del crudo in tempo di Coronavirus non promette niente di meglio. Le principali società finanziarie e di consulenza indicano la caduta del PIL per quest’anno in un -6 o -7%, con forti rischi a che si possa arrivare in doppia cifra, mentre la disoccupazione dovrebbe arrivare al 14%, indice più alto dell’America Latina. Le favelas e le comunità periferiche e rurali sono state lasciate da sole di fronte alla pandemia, e già si sono verificate rivolte nelle carceri. La pace sociale, sostengono tutti, non durerà ancora per molto, anzi forse è già finita. Secondo il leader del Movimento dos Trabalhadores Sem Teto (MTST) Gulherme Boulos, il governo Bolsonaro è pronto a sfruttare un eventuale caos sociale, con manifestazioni diffuse e saccheggi nei supermercati, per giustificare misure più autoritarie per il mantenimento dell’ordine. L’arrivo del vento insurrezionale che spira dal resto dell’America Latina potrebbe rappresentare quello che per Perry Anderson è l’anello mancante per poter parlare di fascismo in Brasile: la risposta reazionaria a una minaccia di rivolta sociale. Secondo Boulos, la reticenza e il ritardo del governo per concedere i miseri 600 reais mensili (intorno ai 100 euro secondo il cambio attuale, fortemente ribassato dalla crisi) per tre mesi a poveri e disoccupati avrebbe come fine proprio quello di esacerbare il malessere sociale e portare alla giustificazione politica per la rottura dell’ordine democratico. Un altro interrogativo è quale forma potrebbe assumere questa rottura.

Secondo un altro articolo della Tricontinental, ci sono in realtà quattro forme di Stato d’eccezione previste formalmente dalla Costituzione: la prima, la Garantia da Lei e da Ordem (GLO) prevede il semplice intervento dell’esercito negli stati per questioni di ordine pubblico con funzioni di coordinamento delle forze di polizia, formalmente senza alterare i diritti individuali ma di fatto imponendo un coprifuoco per un tempo indefinito. Se quest’ipotesi è la più soft e non richiede l’approvazione del Congresso, le altre tre sono: l’Intervento Federale, già sperimentato a Rio nel 2014 e 2018, può arrivare a sottoporre al governo federale l’intero comando di uno stato, dandogli facoltà di cambiare il governatore e controllare tutte le aree (sicurezza, sanità, economia e finanze); lo Stato di Difesa, che per ristabilire “l’ordine pubblico o la pace sociale minacciati da grave e imminente instabilità istituzionale” arriva a restringere il diritto di riunione e generalizzare pratiche di controllo dei cittadini generalmente previsti solo in caso di indagini giudiziarie; lo Stato d’Assedio, che radicalizza le misure precedenti con obblighi di dimora, limiti alla libertà di stampa, invasioni di domicilio. Una rottura a tempo indefinito dell’ordine democratico a partire da uno di questi strumenti potrebbe seguire le orme dell’autogolpe che fece Alberto Fujimori in Perù nel 1992: anche in quel caso, la svolta autoritaria era stata prodotta da un’intesa tra un outsider populista e ultraliberale e il partito delle Forze Armate. Il problema, in questo caso, è che Bolsonaro non dispone di maggioranza al Congresso, anche se nelle ultime settimane ha raggiunto accordi con una serie di piccoli partiti di destra che, in cambio di nuove prebende e incarichi pubblici, gli garantiscono un numero di deputati sufficiente a sbarrare la strada a richieste di impeachment. Se però lo scontro tra poteri dovesse radicalizzarsi, queste misure d’eccezione previste dalla stessa Costituzione potrebbero non essere più sufficienti.

In questo contesto caotico, molte cose devono ancora definirsi: quali equilibri si determineranno nel “caos sistemico” globale che ci lascia il Coronavirus; quanto sarà effettiva l’accumulazione di forze del bolsonarismo; se le classi dominanti, che hanno criticato Bolsonaro sulla gestione della pandemia, aumenteranno la loro distanza dal governo o si faranno sedurre da una soluzione autoritaria nel momento in cui scoppiasse una crisi sociale; infine, e soprattutto se si dovesse verificare un’importante reazione popolare. Se partiti e movimenti democratici si limiteranno a strategie elettorali, procedimenti legali e negoziati parlamentari con i partiti liberali (tutte cose, in una certa misura, comunque utili) il loro destino sarà segnato; a maggior ragione se per paura di un golpe cercheranno, come fecero nel 2013, di frenare e contenere la rabbia popolare. Solo un movimento di massa, che non si riduca alla difesa di un’idea feticista di democrazia, che in Brasile è sempre stata patrimonio di una minoranza, ma si connetta con il dramma sociale delle classi popolari, potrà forse inceppare gli ingranaggi dell’autoritarismo di Stato, come hanno dimostrato le recenti esperienze in Cile, Ecuador, Colombia e, proprio in questi giorni, negli USA. Nell’ultima settimana abbiamo avuto indizi in questa direzione, con manifestazioni sempre più grandi nelle principali città, lanciate dai gruppi ultras antifascisti, che hanno impedito i consueti ritrovi fascisti. Domenica 7 giugno si attende un’importante giornata di lotta.

Galleria fotografica di Tuane Fernandes

Questo articolo è stato pubblicato su l’America Latina il 6 giugno 2020.

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