di MARCO ASSENNATO.
Per costruire una teoria critica del tempo in cui viviamo, non è necessario partire da Karl Marx. Impossibile invece è utilizzare Marx per pensare «contro il mondo, l’uomo, la società». Valutare l’arco complessivo della vicenda intellettuale di Mario Tronti significa sfidare questo estremo impossibile. Ne è occasione la bella pubblicazione, per il Mulino, di una poderosa antologia trontiana, Il demone della politica (pp. 656, € 46), che raccoglie scritti compresi tra il 1958 e il 2015. Il volume, curato con sapienza da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila Mascat, funziona attorno ad alcuni nuclei teorici – la scoperta del punto di vista di classe; il viaggio tra gli arcani de il politico; l’asintotico dibattersi tra realismo e trascendenza – per approdare allo sguardo nostalgico che questo singolare Freigeist posa sul Novecento.
Nella disposizione del volume gli anni della formazione, alla scuola di Ugo Spirito, sono forse liquidati con troppa fretta, mentre decisivo viene considerato l’incontro con il padre nobile dell’operaismo italiano, Raniero Panzieri. Ed in effetti è qui che Tronti apprende a pensare nel mondo, tra i soggetti antagonistici, dentro lo sviluppo capitalistico. In fondo, il ritorno a Marx dei Quaderni Rossi è tutto qui: il dipanarsi dinamico della macchina produttiva è solcato da lotte operaie, punto di vista parziale che può spezzare l’oggettività della scienza economica, decostruire il grand récit dell’interesse generale, sbattere nel fango le bandiere del riformismo socialdemocratico e fare i conti definitivamente con lo storicismo allora egemone nelle organizzazioni del movimento operaio.
Già dentro i Quaderni Rossi, tuttavia, Tronti distende in conseguenza politica il rovesciamento epistemologico che Panzieri aveva imposto nell’analisi del boom economico: dalla fabbrica alla società si vede prima la classe, poi lo sviluppo; prima gli operai, poi il capitale – che è come dire: prima sta la lotta, poi la struttura economico-politica. Il pensiero si fa integralmente mondano, si mischia ai conflitti e da qui risale al cielo della logica, alla tendenza, ogni volta rilevandone contraddizioni e salti. Rivoluzione copernicana. Scienza operaia. Marx si verifica nella contingenza, sperimentando il futuro. Esiste forse altro modo d’intendere il più terrestre dei filosofi classici? No. Questo assunto di metodo lo dobbiamo certamente a Mario Tronti, come si vede avvicinando le pagine scritte tra il 1961 e il 1966: un pugno di anni su una traiettoria di mezzo secolo. Ma se scegliamo lo «sguardo lungo» troviamo un altro percorso, tutto svolto nel tentativo di scongiurare gli esiti di questa straordinaria immersione nel reale.
Dentro e contro, la «nuova sintesi» da cui riparte Tronti sul finire del 1967, certo segnala una originaria domanda attorno alla politica organizzata – già interna a Operai e Capitale. Ed è indubitabile che sia questo il nodo che lo allontana dall’esplosione del ’68. Ma più in generale il dualismo trontiano determina una fibrillazione decisiva che accompagnerà tutta intera la sua avventura intellettuale. Nell’introduzione al volume si chiarisce bene questo punto: «lo schema trontiano è sempre quello dell’uno travagliato dal due, nel quale la contrapposizione tra le parti struttura l’unità in quanto negazione reciproca». Tuttavia dentro e contro può leggersi in due direzioni. Integrazione nel ciclo produttivo o rivoluzione della macchina capitalista. Tenerle entrambe, è il demone di Tronti.
In mezzo sta quella «storia di passionale innamoramento verso la novecentesca cultura mitteleuropea» di cui Tronti ha parlato altrove. Transito fondamentale questo, agito in dialogo serrato con il pensiero della crisi, senza il quale non si capisce il salto dall’operaismo «alle cose ultime della teologia politica». Inutile, a questo punto, sarebbe cercare continuità. A partire dal celebre Poscritto di problemi pubblicato in calce alla seconda edizione di Operai e Capitale, «la mano operaia», dentro lo sviluppo, resta invischiata nella figura del deus absconditus. Muove i fili, ma non cambia il mondo. Si tratta allora, per noi, di rilevare la qualità filosofica di questo Tronti, leggendolo essenzialmente come un critico di Marx. La sua linea di condotta cerca di stringere in unità «la necessità della rivoluzione» con «la necessità del potere», perdendo così di vista il potere che si esercita in ogni rivoluzione. L’operazione non è certo indolore: si può fare a condizione di isolarsi dal battere della storia e lavorando solo su figure ideali.
In altri termini, contro Marx, Tronti rivendica ciò che Marx non poteva dargli: strappa ai grandi reazionari del Seicento una teoria dello Stato, costringe Lenin tra Hegel e Weber, per consegnare queste armi esiziali tra le mani «delle masse». Se il politico è stato determinante per entrare nel capitalismo, egli pensa, può essere altresì la leva fondamentale per uscirne. Non più lotte operaie nello sviluppo, dunque, ma masse organizzate nello Stato capitalistico, per gestire la transizione verso «un’altra formazione economica e sociale». Poteva essere questo l’orizzonte fondamentale del pensiero antagonista sul tornante degli anni ’70? Evidentemente no. L’autonomia del politico chiude il «contro» delle lotte «dentro» la semplice innovazione del ciclo sociale capitalistico e scopre che nessuna trasformazione «di parte operaia» dello sviluppo è possibile, dall’alto della macchina amministrativa.
Qui il politico-pratico s’inceppa. I dualismi diventano una trappola logica. La «ragione storica nemica» diventa una «fortezza inattaccabile». E allora? Allora non resta che «volgere le spalle al futuro». Il pensiero, mosso da «disperazione teorica», prende forma «tragica», diventa «astratto, indiretto». Dalla metà degli anni Settanta in avanti, all’opposto del momento operaista, Mario Tronti rivendica il più completo disinteresse – ed anche un certo disprezzo – verso i nuovi soggetti sociali: «a che pro studiare le nuove forme di capitalismo, se ormai aveva vinto ?». Contro il mondo, contro l’uomo, contro la società, il filosofo lancia pensieri «sommi» : «con Carl Schmitt in divergente accordo. Con Karl Marx in convergente disaccordo».
Realismo è trascendenza. Per uscire dal labirinto della modernità, il conflitto viene proiettato in cielo, come sempre con ali di cera: si compone un’apocalittica della società borghese e della sua «regressione depoliticizzante». Qui opera il richiamo – in chiave di teologia negativa – al potere che frena. Qui si passa da Karl a Carl. La polemica contro la democrazia liberale evoca le grandezze d’una, mai avvenuta, stagione neoclassica. In alto, l’appello alla «grande forma», alla «decisione sovrana» diventa ossessivo. In basso, si polemizza contro le «forme di vita» contemporanee, nel tentativo di spezzare l’equivalenza tra homo oeconomicus e homo democraticus.
Il lungo détour nel pensiero reazionario rinnova in forma eversiva la vecchia Kritik-Kritik. Il filosofo cerca di introdurre dualismi, conflitti, nell’universale macchinazione della storia. A partire dall’esperienza della rivista Bailamme e dalla frequentazione dei monasteri camaldolesi di Monte Giove e di San Gregorio al Celio, Tronti trova i materiali teorici con i quali forgiare il suo Freigeist. L’analisi antropologica definisce una pratica della libertà come «esercizio terreno di distacco spirituale». La libertà dello spirito contro il «borghese-massa», dunque. Il discorso da qui va ripreso sul serio. Tronti oppone alla figura concreta dell’individuo proprietario, un’immagine ideologica. Bloccata l’azione, libertà si da ancora in interiore homine. Da questa fortezza egli urla al mondo: «ecco voi qui, con le vostre idee, non mi prenderete». Raccoglie le forze, in attesa di una congiuntura propizia «per ripartire, per sortire all’attacco degli assedianti».
La ricerca trontiana chiarisce per tutti noi le contraddizioni e i limiti della verticale sovrana. Possiamo allora servirci, ancora oggi, di questo singolare congegno teorico ma ribaltandolo, facendo leva sui suoi limiti. Dal palazzo dell’impero, il suo messaggio ha provato a raggiungere il basso della società e, come nel racconto kafkiano, è rimasto impigliato nel dedalo infinito delle stanze, dei corridoi, delle corti. «Io ho sistemato l’alto – dice ai curatori del volume – quello che oggi fa problema è come rideclinare il basso. Cioè qual è la parte? Questo è un problema irrisolto». Tronti, in fondo, non vede ciò che, appena sfiorato in quel grumo stretto degli anni Sessanta, si è imposto di non guardare per i decenni successivi. Le coppie astratte della sua aporetica chiedono un bagno di concretezza. Si vedrebbe che la libertà non è spirito ma pratica cooperativa, amicizia politica, comune, che si costruisce dentro all’intelletto generale. Nel mondo.
questa recensione è stata pubblicata sul manifesto il 16 gennaio 2018