di SANDRO CHIGNOLA.
Mi sembra utile partire da una constatazione e ribadire alcune premesse. La constatazione è la seguente: se non è dato assumerlo come definitivamente esaurito, il ciclo politico dello Stato registra ora un radicale cambiamento di funzione. Attraversato da flussi di capitale finanziario che producono da sé le proprie sedi di concentrazione territoriale e che non si limitano a reperire le proprie occasioni di investimento, ma che, piuttosto, le inventano, lo Stato nazionale, con le sue istituzioni si ritrova espropriato di una serie di prerogative (sovranità su diritto, moneta e politica interna) e investito di compiti sistemici di altra natura. Quando, nel 2012, viene siglato in Europa il fiscal compact, non soltanto lo Stato cede di fatto la propria sovranità, ma esso viene ad assumere la semplice funzione «tecnica» di regolatore intermedio rispetto a serie numeriche che sono i mercati ad innescare e i cui cicli si riproducono come non aggredibili e politicamente indisponibili. Governare, significa qui non già progettare, ma semplicemente reagire – e just in time – all’algoritmo che determina lo spread, i livelli di debito, l’incremento o la diminuzione del PIL con l’asetticità tecnica della computazione astratta. Inserire l’imperativo del pareggio di bilancio in costituzione significa non soltanto rendere immediatamente visibile cosa intendiamo per decostituzionalizzazione, ma fare di qualsiasi battaglia per la difesa della costituzione una battaglia di retroguardia priva di qualsiasi interesse. E non solo questo. Ciò che nel ruolo dello Stato si modifica dentro la sommatoria dei processi di governamentalizzazione che lo attraversano non è soltanto il portato della sua desovranizzazione di fatto, ma il compito di trasmissione del comando numerico che esso si assume rispetto all’insieme dei poteri – qui lo spettro della gerarchia, ciò che sopravvive alla degerarchizzazione effettiva delle fonti normative, rimane uno spettro efficace – che gli sono amministrativisticamente subordinati. Per quanto ci interessa in questa occasione, sono le città e i comuni, prima dei singoli individui, i terminali sui quali si scaricano il ricatto del debito e le politiche di austerità.
A questa prima constatazione se ne aggiunge una seconda. In quello che è stato chiamato «governo numerico» si moltiplicano gli effetti di spoliticizzazione propri alla rappresentanza politica. Se, tradizionalmente, rappresentare significa comunque – per dirlo con Deleuze – l’«indegnità» del parlare per gli altri, nel quadro della governamentalizzazione dei poteri non si dà nemmeno, a livello delle istituzioni, la possibilità di prendere parola. Coloro che vengono reclutati all’azione di governo – politici nazionali, comitati di esperti, segmenti di una supposta società civile data per organizzata nelle sue componenti – vengono caricati di un semplice compito di trasmissione di decisioni ammantate di tecnicità e dunque legittime in base alla promessa di efficacia della quale si fanno in anticipo carico ponendosi preventivamente fuori discussione.
Incrociare queste due premesse mi sembra decisivo per far proseguire il ragionamento sulle città che si è aperto negli ultimi anni. Da un lato, mi sembra opportuno tenere ben ferma la considerazione per cui i «nessi amministrativi», come li chiamavamo tempo fa, non offrono di per sé snodi che possano essere occupati a fini redistributivi e non possono essere pensati come ciò che fissa il livello principale sul quale condurre la battaglia politica: le serie che li attraversano non si allocano esclusivamente su di essi e trasmettono il comando come una soltanto delle sue gradazioni. Dall’altro, altrettanto importante mi sembra il non cedere all’illusione di poter «rappresentare» le istanze dei movimenti legandole allo scadenzario elettorale o traducendole in programma da opporsi populisticamente alla crisi irreversibile della politica di professione. Se nel primo caso occorre realisticamente assumere che ciò che poteva essere preso e redistribuito è evaporato e che ciò che materialisticamente resta è, piuttosto, il debito; nel secondo, fatto salvo l’evidente rischio della corruzione, il cogliere le opportunità, e sul solo livello di prossimità immediata (la circoscrizione, il municipio, il comune, sì, ma nel senso amministrativo del termine), può far sì che l’occasione diventi piuttosto una strozzatura nella quale perdere la ricchezza e la potenzialità espressiva dei movimenti.
È perciò dentro queste coordinate – dunque: senza pretendere di erigere a modello esperienze nazionali o europee che hanno marciato e che marciano ciascuna nella sua singolarità – che va posta, mi sembra, la questione della città. Qui occorre reinventare cittadinanza e democrazia. Ma occorre reinventarla tenendo ben presenti i molti livelli che anche nelle città si incrociano e che le città comunque attraversano. È certo vero, come ebbe modo di rilevare Derrida, che sono le città e non le nazioni, il grande astratto della cittadinanza o del «popolo», il sito della democrazia. Ma è anche vero che non è su di esse che può immediatamente essere rilanciato il mito dell’autonomia comunale o della immediatezza della prassi politica. Della democrazia occorre rivalutare il suffisso in –kratos, quello della forza e della potenza, e del comune medievale l’elemento della conjuratio, della reciprocità e della stipulazione. È tuttavia necessario farlo all’altezza dei rapporti giuridici e istituzionali della governance contemporanea e cioè identificando di quest’ultima i differenti livelli operativi e i singolari punti di debolezza.
La città va reinventata quanto la democrazia, questo mi sembra il punto. Da un lato, essa deve essere assunta per ciò che essa è diventata. Non già una circoscrizione amministrativa interna allo Stato, ma un sito di concentrazione di capitali finanziari e di cattura della cooperazione sociale, il punto di scarico terminale del debito e della dismissione dei compiti di Welfare, il luogo descritto dalla mobilità dei migranti e precari, il punto di incrocio delle reti e della logistica delle merci. Dall’altro, lo spazio della costante sperimentazione e reinvenzione di pratiche di cittadinanza che si esprime nella molecolarità delle lotte (casa, trasporti, diritto allo studio e alla salute, diritto di accesso ai, e di trasformazione dei, diritti sociali) e nella presa di parola dei governati sulle politiche che li affrontano in quanto tali.
Reinventare la democrazia e, con essa, le città, significa inaugurare luoghi all’interno dei quali far crescere e moltiplicare la potenza espressiva dei governati di fonte al governo, indipendentemente da chi, o da cosa, la funzione di governo detenga. Significa non soltanto materializzare, rispetto a quest’ultimo, la funzione di critica e di resistenza di coloro i e le quali dentro il rapporto di governo soggettivano l’autonomia degli interessi e danno spessore a ciò che un territorio è, quando non si limita ad essere lo spazio di territorializzazione operativa della macchina governamentale (fiscalità, preteso interesse pubblico, esproprio finanziario dei beni comuni), ma anche innescare e riprodurre dinamiche di verticalizzazione e di rifiuto della delega rappresentativa nella misura in cui capaci di produrre e di difendere autonomia e progettualità, e cioè di inventare e sperimentare altrimenti la città, sui molti, e differenti, livelli (globali, europei, regionali, metropolitani…) che la attraversano.
Nella fase storica in cui viene codificato il diritto amministrativo, la città viene pensata come il luogo di mediazione tra interesse pubblico e interesse privato e come lo spazio in cui lavorare sull’area di tangenza tra società civile e Stato. Si tratta di modernizzare la nazione, svecchiare i dispositivi e le istituzioni che ne imbrigliano il potenziale, smussare le contraddizioni, territorializzare l’azione dello Stato, difendendo la priorità della sua missione «pubblica», rispetto a, e all’interno di, processi per i quali l’autoregolazione è assunta come impossibile. E tuttavia, in dottrina, tale azione, che si autogiustifica ponendosi l’obiettivo di riequilibrare lo scontro tra gli interessi sociali e di temperare l’avidità del «privato» – forse vale la pena ricordarlo: il diritto di sciopero deve essere conquistato nell’ordinamento contro la fictio juris del contratto di lavoro come contratto tra il singolo lavoratore e il padrone ed invadendo la fabbrica che il padrone tratta come sua inaccessibile e privata proprietà -, viene sovrascritta in termini «comunitari», gemeinschaftlich, proprio in quanto eccedente la differenza tra società e Stato. La città viene letta allora non solo come circoscrizione amministrativa, ma anche come spazio societario, nel quale difendere legami, associazioni, forme della cooperazione che concretizzano e che danno spessore alla libertà dei cittadini qualora essa venga sostenuta dall’azione della pubblica amministrazione. Comuni, gemeinschaftliche, sono qui lo spazio e le pratiche in cui vengono ecceduti e oltrepassati l’antagonismo tra pubblico e privato e la tensione tra agire amministrativo e autonoma iniziativa dei governati.
Con lo Stato, inteso come il vertice dell’organizzazione dei dispositivi che ad esso fanno capo, cessa anche la funzione di garanzia e di stimolo del quale l’amministrazione ha storicamente saputo farsi carico, valorizzando l’asimmetria, praticata e teorizzata, tra le ragioni del pubblico e quelle del privato. La governamentalizzazione dello Stato è fatta dell’intera saturazione dei rapporti sociali con procedure ibride che rendono più soffice l’impatto con i governati in parte spoliticizzando, tecnicizzando e differenziando le decisioni e i profili normativi che esse assumono, in parte reclutando a un’azione di governo «partecipata» le strutture per mezzo delle quali i governati si esprimono. È appunto la differenza tra società civile e Stato sulla quale si era definito lo specifico amministrativo che con ciò viene fatta saltare.
Ma allora: se una città, un territorio, non sono semplicemente una circoscrizione amministrativa (o elettorale) e se tuttavia un elemento gemeinschaftlich – un «comune» irriducibile tanto al privato quanto al pubblico – in esse permane, come possiamo pensare e praticare un’azione politica all’altezza delle trasformazioni alle quali si è fatta allusione in precedenza? Senz’altro, il punto di partenza è resistere alla tentazione di fare della verticalizzazione delle istanze dei movimenti un punto di cattura per gli apparati di governo. I movimenti non sono la Caritas, né ONGs che possano essere reclutate per supplire alle carenze dello Stato sociale.
Ciò che mi preme sottolineare, intendendo la funzione di governo come un dispositivo ellittico e duale, è che dentro tale rapporto non si può dare scambio delle parti. Il governato soggettiva interessi e posizioni difendendoli di fronte a chi governa e incitando quest’ultimo per mezzo della propria resistenza. Il governato deve perciò, all’altezza dei rapporti che la multilevel governance si sforza di tenere sotto controllo, saper affrontare il governo muovendo dalla molteplicità e dalla multilateralità degli interessi che ve lo includono, differenziando i singoli livelli operativi della macchina governamentale: una città non è che un punto di articolazione e di snodo di quest’ultimi; i movimenti sociali che le città attraversano, portatori di istanze globali, europee, nazionali e cittadine tradotte in materiali dispositivi di soggettivazione.
Di qui ciò che maggiormente mi preme sottolineare. Ciò che i movimenti devono essere in grado non già di rappresentare, ma di materializzare sono interessi potenti e potenti processi stipulativi. Si tratta di connettere progetti municipalisti facendo comune tra le parti della città – la città che viene, quella che può essere, e non quella che è – e facendo rete tra le città nel processo di governance europea e globale.
Deriva di qui una serie di conseguenze: la prima è che ciò che si tratta di verticalizzare, per poterle difendere, sono autonomie e contropoteri. E autonomie e contropoteri vanno conquistati, prima di poter essere presentificati di fronte al governo. Questo, ed è la seconda cosa che mi sembra importante, non significa necessariamente restare fuori dal governo, anche perché un fuori, rispetto al rapporto di governo non c’è. Una posizione di forza può essere conquistata, ma essa va conquistata sapendo che essa va anche proposta e difesa come un punto intermedio all’interno di processi di governo ulteriori e molto più generali che richiedono, per poter essere resistiti, salti di scala e patti allargati. La terza cosa che mi interessa è che processi di questo tipo richiedono tempo. Non possono essere pensati né posti in essere comprimendoli dentro scadenze che non appartengono loro. Democrazia e libertà devono farsi mondo e «die Welt kostet Zeit» recita un adagio tedesco; richiedono tempo. Partire dal basso significa partire anche dal saperlo bene.