di GISO AMENDOLA.
Il discorso di Matteo Salvini [⇒ qui] è stato evidentemente il vero discorso della fiducia di questo governo, dopo le esercitazioni, a colpi di citazioni letterarie sbagliate tipiche del giurista accademico in ansia da prestazione, del sedicente presidente Conte.
Da buon discorso fondativo, ci riporta tutti sulla scena dove quest’alleanza di governo ha visto davvero la luce: la dichiarazione di guerra alle Ong che nell’estate scorsa Di Maio proclamò, utilizzando un mix di narrazioni tossiche pescate dai social e di allusioni tratte da rapporti Frontex. La guerra alle Ong “taxi del mare” offriva un nemico fruibile alle paure che, ben coltivate da populisti e sistema mediale, attraversano il corpo sociale, e soprattutto, permetteva la saldatura tra il razzismo esplicito della Lega, e quel mix tra complottismo e richiesta di protezione per gli impauriti dai flussi globali che percorre il M5S: l’allora ministro degli Interni Minniti legittimò il tutto, fino a fare del “richiamo all’ordine” delle Ong l’oggetto dell’azione di governo, attraverso il famigerato protocollo. Così Minniti finì per spalancare la strada, nel nome della guerra alle Ong, alla vittoria del futuro asse M5S – Lega: cosa che ora persino un Orfini dice di aver capito.
Salvini invece lo ha sempre saputo e quindi ci riporta subito sui luoghi della guerra cominciata la scorsa estate: senza tema di recitare anche in senato tutta la paccottiglia guerroccultista, evocazione di Soros a mo’ di Grande Vecchio compresa. Le Ong sono l’espressione del “business delle migrazioni”, dice Salvini, proprio come cantilenano da tempo i vertici del M5S: e ora però tutto il racconto viene inserito in una più esplicita, e più comprensiva, narrazione reazionaria, con tanto di significativa evocazione insistita e continuata dei doveri del “buon padre di famiglia” (il più grande criminale del XX secolo, ricordava Hannah Arendt…) e dell’orgoglio nazionale riscoperto, tanto per ribadire il nodo indissolubile tra Padre, Sovrano e Nazione, tra sessimo, razzismo e sovranismo: un’insistenza esplicita e rivendicata che rende evidente il salto qualitativo che questo governo esprime, pure all’interno di una traiettoria di crisi ben annunciata e preparata dai suoi predecessori di centrosinistra.
L’attenzione di Salvini però si è soffermata, a un certo punto, su un particolare, che ha costituito forse il passo più incerto e goffo della recita reazionaria, per il resto piuttosto riuscita, suscitando non a caso nel corso della giornata molte reazioni arrabbiate. Salvini sceglie di presentare, oltre ai nemici esterni (ovviamente costituiti dall’Europa che ci abbandona, dagli altri Stati che ci tradiscono, e ovviamente da Ong, traghettatori e via mostrificando), anche alcuni ben individuati nemici interni.
Salvini, dopo averlo anticipato al Corriere della Sera [⇒ qui], attacca anche in Senato la “lobby degli avvocati” che moltiplicherebbe i ricorsi contro il respingimento delle domande di asilo per lucrare il gratuito patrocinio (lui dice la difesa d’ufficio…): il suo scopo evidente è quello di intimorire gli avvocati, già da tempo sotto tiro e ora offesi senza mezzi termini dal ministro, e ostacolare i ricorsi contro il respingimento delle richieste di asilo. La questione dei ricorsi infastidisce molto il ministro: la presenta come una lungaggine inutile, una perdita di tempo alimentata dalla lobby degli avvocati per lucrarci sopra il gratuito patrocinio (lo chiama appunto “difesa d’ufficio”, trascurando il fatto che qui non siamo nel processo penale, ma evidentemente un ministro che va “al sodo”, non deve dare mostra di preoccuparsi troppo della correttezza di quello che dice). Il ministro, però, sa bene che i ricorsi contro le domande sono ben lungi dall’essere una perdita di tempo procedurale, tant’è che spesso il richiedente “respinto” che ricorre, vince poi il ricorso. Salvini, al Corriere della Sera, cita dati secondo i quali il 58% delle domande d’asilo viene respinto, il che corrisponde effettivamente alle percentuali accertate negli ultimi due anni (questa percentuale di rifiuto delle richieste di asilo, innalzatasi con grande rapidità negli ultimi anni, testimonia in realtà il fallimento di tutto il sistema degli ingressi, specie in assenza oramai di altre modalità di ingresso “legale”: ma queste non sono ovviamente le preoccupazioni del ministro). Ma il dato che davvero “gli rode”, è che continuiamo ad avere un sostanzioso ben oltre il 40% di ricorsi vinti contro le commissioni (39% in Tribunale, e poi un altro 24% dei procedimenti definiti in Corte d’Appello per esempio nei dati del 2017, cui andrebbe aggiunta la Cassazione: ora dovremo valutare l’impatto effettivo dell’eliminazione di un grado della legge del 2017 – insomma, alla fine della giostra, tra fase amministrativa e giurisdizionale, è almeno il 65 per cento dei migranti che “vince”, irritando evidentemente chi vorrebbe trasformare le commissioni in un muro).
Il ricorso è uno degli inceppi insopportabili della macchina: è quel po’ di giurisdizione che impedisce l’amministrativizzazione totale del percorso della protezione internazionale. L’attacco sguaiato di Salvini agli avvocati, non a caso, si iscrive, pur con un salto evidente nei modi e nei toni, in continuità perfetta con gli interventi che già dall’inizio del 2017 avevano messo sotto tiro i ricorsi: interventi fortemente promossi da Minniti, che avevano eliminato un grado di giudizio, abolito sostanzialmente un reale contraddittorio in sede di ricorso, ridotto drasticamente il numero delle sedi giudiziarie competenti. La legge Minniti-Orlando, in sintesi, già aveva scelto il ricorso come nemico principale e aveva cominciato l’opera della sua “razionalizzazione”, trattandolo come un inceppo “giurisdizionale” dentro una procedura che doveva essere il più possibile ricondotta tutta e solo a una sostanziale natura amministrativa, per di più da affrontare con l’imperativo categorico di velocizzare e smaltire il carico. A tutto questo erano seguiti alcuni “protocolli” (su Euronomade era intervenuto Fant TiBiCino [qui e qui] su quello molto significativo tra ordine degli avvocati e Tribunale di Venezia), che si inseriscono perfettamente in questi interventi, protocolli tutti tesi ad “affrettare” i tempi ma allo stesso tempo a “disciplinare” l’avvocato. Allora gli ordini non si sottrassero alla collaborazione, un po’ troppo tesi a mostrarsi interlocutori affidabili nel “velocizzare” e “razionalizzare”: ora forse sarà più chiaro per tutti quale era già la posta in gioco reale in quei protocolli, non la “buona educazione” da mantenere in tribunale o la “puntualità”, ma un disegno molto più ficcante di normalizzazione forense.
Questo scontro sulla “lobby degli avvocati” rende chiara così la tendenza molto più generale in cui si inserisce, e che è, in tutta evidenza, al cuore stesso dell’azione di un governo come questo. In primo luogo, rafforzare l’amministrativizzazione di tutte le azioni e centralizzarle (il ministro dell’interno diventa perciò, coerentemente, un ministro ad omnia, oltre che motore reale dell’indirizzo politico); allo stesso tempo, intervenire disciplinarmente su tutte le figure che si trovano in posizione da poter sviluppare resistenze e solidarietà, richiamandole continuamente ad una buona e ordinata collaborazione, persino con la continua discesa in campo retorica e polemica del ministro stesso per additare quale “nemico” inceppi di volta in volta la macchina. Così, alla grande narrazione “molare” su Patria e Padri, si alternerà la necessità “molecolare” di intervenire su tutti i livelli, anche quelli più puntuali e specifici dei conflitti, per produrre quegli effetti disciplinari senza i quali questa operazione di centralizzazione/amministrativizzazione rischierebbe di essere continuamente interrotta.
Proprio però questa necessità continua di riportare sotto controllo, di alzare lo scontro e di minacciare per ricondurre all’ordine, può inceppare la macchina. Questa volta, l’intervento del ministro ha ricevuto in risposta una immediata e forte mobilitazione delle reti legali, del mondo forense, dalle Camere Penali [qui] al Consiglio Nazionale Forense [qui] : ma anche di tutto quel mondo di lavoratrici e lavoratori avvocati che lavora (anche) con il gratuito patrocinio [qui], lavoratori che , pur “gratificati” con il titolo di lobby dal ministro, costituiscono in realtà lavoro autonomo oramai precarizzato e impoverito, ma che il populista tanto amico del “popolo che lavora” evidentemente considera solo un miserevole ostacolo da rimuovere.
Questa reazione ci conferma evidentemente che, in questa lotta alle migrazioni, sempre più evidentemente centrale nella costituzione di questo governo, e più in generale di tutto questo ciclo politico reazionario che si è aperto nella crisi europea, lo scontro coinvolge in modo sempre più intenso tutte le forme di solidarietà. La guerra sui confini esterni e quella sui confini interni, nei diversi ambiti della cd. “accoglienza”, della solidarietà, del lavoro, si intrecciano in modo indissolubile, coinvolgendo sempre di più anche gli operatori impegnati a diverso titolo e spingendo continuamente a irrigimentarli, disciplinarli e sorvegliarli. Così incontrò già l’anno scorso resistenze forti e vincenti la pretesa, avanzata sempre con Minniti ministro, di trasformare gli operatori in pubblici ufficiali, arruolandoli esplicitamente e coattivamente in ruoli di custodia e di sorveglianza, e premendo su tutti quelli che non hanno già interiorizzato questi ruoli o sentono ormai crescere il disagio nel ricoprirli; allo stesso modo, ha suscitato ora questo vespaio di reazioni l’attacco diretto alla “lobby degli avvocati” e al diritto di ricorrere. Segno che questa guerra che mira continuamente a rompere tutte le forme di solidarietà intorno alla mobilità migrante, produce però anche contromobilitazioni che spingono sempre più le stesse figure dei solidali oltre la sfera della semplice azione solidale e/o umanitaria, forzando così i confini corporativi dai quali muovono le singole proteste di operatori, legali etc., e producendo nuovi processi di politicizzazione e di disponibilità al conflitto. Attorno a questi processi che connettono le lotte sui confini esterni con quelle sui confini interni, e che aprono forse la possibilità di trasformare le diverse forme di presenza e di lavoro solidale in vere coalizioni sociali con i migranti, c’è evidentemente un grande spazio di invenzione organizzativa e politica da sperimentare.