di ARIANNA BOVE.
Si è sollevato un bel polverone. Chi è questo Farage? Cos’è questo UKIP?
La sinistra italiana sembra in cerca di nuove munizioni contro il movimento 5 stelle, e l’alleanza con UKIP un’occasione da non perdere.
Una cosa che sicuramente accomuna Grillo e Farage è l’attenzione che hanno ricevuto dai media. Le campagne elettorali sono dispendiose. Grillo e Farage hanno goduto di pubblicità gratuita. Giornali, televisioni, documentari, lo spazio dell’ “universo dei segni” occupato dai due nel periodo pre-elettorale è stato a dir poco sproporzionato. E, si sa, “there’s no such thing as ‘bad’ publicity”. In Italia, le elezioni sono state un referendum per o contro Grillo. In Gran Bretagna, sono state un referendum per o contro Farage.
Altro elemento che li accomuna è che i partiti maggiori, i partiti dell’establishment, i partiti cosiddetti di governabilità, si sono misurati contro Grillo o Farage. “Siamo noi in grado di governare. Loro no”. Hanno detto. “Siamo noi i legittimi partiti politici, loro sono ridicoli”. Nel 2006, Cameron definì UKIP un partito di “fruitcakes, loonies and closet racists, mostly”. L’elettorato, trattato come un idiota, è ammonito contro le catastrofi che sarebbero seguite a una vittoria di Grillo o Farage. “Votate chiunque, purché non loro. Siate responsabili, non li votate”.
Le campagne negative, “mudslinging”, hanno determinato il tono delle discussioni pre-elettorali. Campagne negative di attacco, che mirano alla personalizzazione e demonizzazione del partito o leader opposto. Mentre le campagne negative di contrasto oppongono una propria politica a quella dell’avversario, quelle di attacco si limitano a denigrare l’altro. Il livello informativo delle campagne negative di attacco è zero. Gli spin doctors sono ben consapevoli del potenziale backlash di “radicalizzazione” e alienazione dell’elettorato di questo tipo di campagne. Se ne sono scritti studi in politologia. In quest’occasione, abbiamo assistito a campagne negative di campagne negative, campagne negative al quadrato. Nell’assenza di politiche da attaccare, si è attaccato chi attaccava. Strano che sia diventato positivo per qualcuno?
Altro punto in comune tra Grillo e Farage è che, nei due paesi, sono rappresentati come i portavoce della rabbia. Renzi, che doveva presentare la sinistra come partito di governo, decide di farlo tramite Grillo, che inserisce, negativamente, nella propria tag line: “la speranza invece della rabbia”. Cameron, confrontato con i sondaggi che danno UKIP in salita, dichiara prima delle elezioni: “I messaggi di UKIP mirano a metter paura alla gente. É la politica della rabbia”.
In breve, ciò che accomuna Grillo e Farage sono i nemici. E sicuramente, gran parte della piccola parte dell’elettorato che ha votato per Farage, consapevole che il sistema elettorale non garantirà mai al suo partito un posto al governo, ha votato, e con rabbia, contro la cosiddetta governabilità, contro l’establishment, contro i partiti di sistema, contro i nemici di Farage. Farage è di certo un male minore a confronto dei suoi nemici.
Questo risultato dovrebbe far pensare alla necessità, ché è compito incombente per chi aspira a salvare la versione rappresentativa della democrazia, di introdurre il voto negativo. Si mobiliterebbero molti più elettori se si accordasse loro la libertà di scegliere chi non votare, o contro chi votare. Il meno non votato vincerebbe meritatamente per aver destato meno rabbia, odio e disprezzo nell’elettorato. Il voto negativo sarebbe anche il correlato più logico delle campagne negative che sono ormai l’esclusiva forma di comunicazione politica pre-elettorale.
In ogni caso, cos’è UKIP?
UKIP nasce nel 1991 come Lega Anti-Federalista. Partito Euroscettico, proviene dall’ala di conservatori che si oppongono al trattato di Maastricht. Resta coerente su questa politica, unica posizione che lo caratterizza negli anni: uscire dall’Europa. I suoi seguaci sono prevalentemente i piccoli imprenditori, non giovani, che guardano ai propri affari e rifuggono “visioni d’insieme”, politiche ideologiche, sogni di alternative. Grazie al sistema elettorale britannico, non ha mai vinto un seggio in parlamento. Tuttora, nonostante lievissimi incrementi nelle elezioni nazionali, non ha un seggio nella House of Commons. La sua unica presenza è nel Parlamento Europeo. L’elettorato britannico che non vuole far parte dell’Unione Europea non ha nessun altro per cui votare. È da notare che l’elettorato britannico che non vota alle elezioni europee resta comunque la maggioranza: 65%. Della minoranza dei votanti, il 26% relativo vota contro l’Unione Europea e per UKIP, ma si tratta del 9% assoluto. Sta al lettore decidere se leggere l’astensione come indifferenza o come rifiuto dell’Unione Europea.
Bisogna chiedersi da dove proviene il sentimento anti-Unione Europea? Non credo. È un sentimento che accomuna tutti i paesi d’Europa. Un sentimento cresciuto e fomentato da governanti che hanno, per anni, e fin da prima della “crisi”, colpevolizzato l’Unione Europea ogni qual volta le proprie politiche economiche non trovavano consenso nell’opinione pubblica del paese. Governi di destra e di sinistra hanno pedalato la retorica della perdita di sovranità. UKIP ne coglie i frutti.
Oltre al no all’Europa, UKIP ha recentemente nutrito la sua politica anti-UE con retoriche schiettamente anti-immigratorie. Anche l’anti-immigrazione, o “managed immigration”, accomuna le politiche di tutti i partiti del paese, senza eccezioni. La differenza è che, al contrario degli altri, UKIP non indulge in disquisizioni su chi meriti di entrare e chi no, chi sia necessario alla crescita economica del paese e chi invece la danneggi, non difende, in altre parole, il sistema “a punti” della gerarchizzazione dei migranti a fini economici. Respinge tutti, senza troppe distinzioni. Anche su questo, come sul tema Europa, UKIP coglie i frutti di anni di lavoro preparatorio alle legislazioni anti-immigratorie degli ultimi quattro governi, e ne coglie i frutti, distinguendosi per il suo netto “no” laddove gli altri partiti si inerpicano in “ni” e “so”.
Contro l’Europa, contro l’immigrazione, contro l’establishment. Questi sono non i capisaldi, ma le uniche proposte di UKIP. UKIP è migliorato nell’affrontare accuse di razzismo e nazionalismo, preservandosi però il diritto di uscire occasionalmente dal seminato del pervasivo PC newspeak, la lingua di legno della political correctness, e anche grazie a questo si è conquistato molta pubblicità gratuita e qualche simpatia in un pubblico che oramai riconosce bene l’ipocrisia e il fanatismo identitario del tokenism delle cosiddette pari opportunità e dei giochi linguistici del divide et impera.
Sicuramente UKIP e la sua prominenza nella sfera mediatica pre-elettorale è il prodotto di una sinistra in stato di crisi permanente. Una sinistra che ha bisogno di un nemico per autocostituirsi e far rientrare in riga la propria base delusa e frammentata. La memoria delle guerre mondiali e le lotte al Nazismo però non appartengono alle generazioni contemporanee, che di sinistra hanno vissuto solo il buonismo guerrafondaio in Afghanistan e Iraq, gesti disperati per raccattare voti verso le ambigue “squeezed middle classes”, la demonizzazione dell’underclass e del disoccupato precario, e tanta, tanta ipocrisia e codardia nell’avvallamento delle politiche di smantellamento e vendita del servizio pubblico alle corporazioni fraudolente esentassi di turno.
In Italia anche il M5S emerge dalla crisi della sinistra, ma il recente voto per Renzi è un voto conservatore e la crisi tutt’altro che risolta. La reazione della sinistra italiana ai risultati delle scorse elezioni nazionali è stata indicativa della sua obsolescenza e fragilità. Infastidita dal fatto che Grillo ha cambiato le “rules of engagement” e disorientata, si è esposta nella sua forma più conservatrice. La sinistra ha optato per una critica morale a Grillo e l’M5S, che avrebbe voluto fosse un movimento proprio e fatto in casa. Nella sua opposizione al voto degli elettori per il M5S la sinistra ha rivelato il proprio elitarismo con una critica pedestre al “populismo” che ha fatto veramente rabbrividire. La sinistra ha deriso Grillo per aver voluto che la gente comune, (piuttosto che una qualche rivoluzione), occupasse il governo. Ha obiettato nel puntare il dito contro il politico di carriera, il funzionario corrotto che occupa posti multipli di potere ed influenza. Ma come opporre un richiamo a un principio fondamentale della democrazia, secondo il quale il processo decisionale non è appannaggio di pochi tecnocrati, e piuttosto la capacità di prendere decisioni, l’intelligenza ed il credere in uno scopo comune, è ciò che caratterizza la cittadinanza? Lontani anni luce sembrano i suoi discorsi sull’intellettualità di massa. Che la sinistra organizzata – che contiene la propria giusta quota di politici di carriera – abbia sfidato questo principio è indicativo della sua paura della gente e la sua distanza da essa.
L’ostilità morale e moralista della sinistra verso Grillo proviene da un contare su modelli di comportamento che sono ovunque obsoleti ma a cui resta ancorata fedelmente. Tali modelli hanno la loro origine in una formazione ideologica che ha molto più a che fare con il dove si va in giro (o chi sono i propri genitori e nonni e che scheda di partito avevano) che una sincera introspezione generazionale su che tipo di valori contino o che tipo di mondo si vuole costruire. In questo la destra e la sinistra sono molto simili: paradossalmente sia identitariamente chiuse come parrocchie che aspiranti ad attrarre una massa, o maggioranza, in gran parte frutto della propria immaginazione e vestigio delle fantasie di generazioni precedenti. Questo nel contesto di un capitalismo che ha formato interessi controbilancianti, ed esigenze di differenziazione e distinzione che sono ormai divenuti parametri ontologici dell’essere sociale e di cui anche la sinistra identitaria opportunisticamente spesso si nutre.
La risposta della sinistra al successo del M5S è stata caratterizzata da nostalgia e paura. A differenza della destra e dell’ideologia neoliberista, che difendono, rispettivamente, un “rifiuto” della storia (il fascismo non era male) e l’assenza totale di storia (l’uomo è naturalmente e sarà sempre una macchina interessata a sé produttrice di massimizzazione del profitto), la sinistra sfrutta la storia, ma nel più conservatore dei modi.
La sinistra è l’unica forza conservatrice al potere oggi. Invece di interpretare il materialismo storico come capacità di mantenere una maggiore consapevolezza e sensibilità alle formazioni storiche delle forze del potere nella società e la loro lotta nel capitalismo, si aggrappa ai simboli di un secolo passato come l’eredità di un popolo che non tornerà più. Il materialismo storico, la filosofia della prassi, filosofia di comprensione e adattamento epistemologico al presente per eccellenza, nelle mani della sinistra si riduce a punti sulla carta fedeltà del supermercato.
L’alleanza del M5S con UKIP facilitata dalla chiusura dei Verdi, può dare munizioni alla retorica moralista della sinistra? Sicuramente. Ma sul rapporto flirtante con la destra anti-establishment, bisogna ricordare che fino alle scorse elezioni in Italia, il partito di Grillo è stato l’unico in Europa, a parte i Partiti Pirata, in grado di incanalare i sentimenti esistenti di “odio” e rabbia contro la classe politica, piuttosto che contro il prossimo in linea nella scala di vulnerabilità socio-economica. Nel Regno Unito, l’odio e la rabbia generalizzata è stato invece gestito con cautela da tutti i partiti affinché i poveri si auto-cannibalizzassero, cosicché i proletari “indigeni” si scannassero con i migranti, i disoccupati con sussidio si scannassero con gli “occupati” che vivono di “working tax-credit”, e così via. Quello che l’establishment sovvenziona è l’ideologia della crescita infinita, la crescita dei margini di profitto dei pochi, a scapito di tutta la società. E dietro la difesa di questo e solo questo tipo di crescita, che altro non è che crescita del divario tra chi ha e chi no, si nascondono tutte le forze cosiddette progressiste della gestione della crisi in Europa che si presentano come unica alternativa “praticabile” all’austerità, unica alternativa di governabilità della crisi. L’alternativa tra crescita e austerità è un semplice gioco di parole. Le politiche progressiste Europee decidono di difendere la crescita a scapito della prosperità. Negli ultimi 30 anni, in Gran Bretagna, la crescita economica raddoppia parallelamente alla crescita del numero di persone che vivono al di sotto della soglia della povertà. Il 33% della popolazione ha difficoltà a vestirsi, scaldarsi, mangiare. Un “tweaking” alternativo del sistema che nessuno, a destra ed a sinistra, conservatore o progressista, vuole immaginare di poter vivere senza, non pare esser desiderio di chi vota per i partiti anti-establishment. Per ciò, trattare questi elettori come un branco di idioti è a dir poco ingenuo.