di SIMON LE BON

– I –

Il diritto più importante
è catena di montaggio,
modi e tempi di lavoro
ogni giorno, ogni ora.
Qui dentro non c’è tempo,
non c’è spazio per la gente,
qui si marcia con le macchine
e non si parla di libertà.
La tua libertà
resta fuori dai cancelli,
la puoi ritrovare
fra le mura di casa.
(Gualtiero Bertelli, Vedrai com’è bello, 1967)

L’ultimo scorcio di autunno non ha certo lesinato “novità” agli agili abitanti di Stalinopoli.
Pioggie tropicali sciolgono il Bel Paese come uno zuccherino nel caffè renziano. Anche l’amico Polcevera che ci aveva salvato da Cartaginesi e Francesi ha lambito minaccioso il sacrario della Brigata Balilla, quasi a rivoltare l’antico motto indietro non si torna.
Il Jobs Act è legge dello stato, giungendo così a conclusione quel mirabile aggiornamento del diritto del lavoro che trova in Marco Biagi il proprio padre (ndr l’ha detto Sacconi, e noi – cojoni – a pensare che fosse mutamento indotto dalle lotte di quarant’anni fa e dalla conseguente ristrutturazione capitalistica) e nella miseria il proprio figlio. Ballo_excelsiorIl Jobs Act è il Ballo Excelsior della dissoluzione della civiltà (anche giuridica) laburista, è il paradiso, il trionfo dell’umanità incivilita, una festa del pensiero, ricco e splendido; tutto un dispiegarsi di tutele crescenti, ovattato benessere che trasforma il fetido operaio in farfalla cognitaria, non più colpito da silicosi ma protagonista nelle Silicon Valley della bio-ermeneutica squinziana [N.B.: il progresso (celestiale utopia-concreta impersonata dall’eccellenza ministro Boschi, Maria in cartongesso nel Presepe del nostro prossimo magro Natale) è individuato e colpito: l’operaio “protetto-coccolato-vezzeggiato-privilegiato” da 50 anni di potere comunista in Italia. Sia chiaro, tutti i mali procedono da questo strano soldato che vive i suoi giorni come fossero eterna Stalingrado, pronto ad ammalarsi di tisi e/o enfisema per saccheggiare il sistema sanitario nazionale, gaudente in cagione di pensione mirabolante e/o succosa cassa integrazione, arrogante come l’Alain Delon della pubblicità dell’Eau Sauvage – la rivoluzione mangiava i suoi figli, lui non li farà mai mangiare perché avvolto in un mantello di ROSSO broccato che è sistema economico-politico bloccato in cronache sindacali e protervia di commissari del popolo trinariciuti, per fortuna che Polito c’è].
La rossa Emilia mostra tutto il proprio disamore per i ludi cartacei (ma come rilevava abile e manicheo il “giovane” per antonomasia, i votanti non sono un problema, abbiamo vinto e questo basta).

Le cronache del mese sono, quindi, un enorme, sintomatico, energico, onnicomprensivo me ne frego.
Nessun ripensamento, nessuna STASI a proteggere la nostra ostalgie (e neanche i soldi per il ticket per l’osteoporosi), il rinnovamento deve continuare, vorticoso come il Bisagno, potente come una trivella a Fegino, sereno come una nera AUDI A6 che corre nella notte dell’EUR, candido come le difese di Blair a proposito della guerra in Irak, potente come i manganelli alla prima della Scala.
Non v’è da dubitare sul fatto che sia il piano di un genio, di quel general intellect in giubbotto nero tracimante dallo statuto d’impresa. È la “rinascita” (alla faccia di Macaluso e Togliatti) di un complesso sinergico impresa-stato-impresa che non lascia nulla al caso (e neanche a operai, precari e studenti).

Più interessante, però (previa doverosa genuflessione al Leopoldo in camicia bianca) è scovare tra le odi di stampa e TV, il reale dispiegarsi del nuovo corso; la ricerca va fatta però non attraverso i documenti che – mai domo – il governo dello stra-fare produce o quelle che lo stesso assume essere le proprie linee guida, quanto annusando le notizie (non importa se vere o false, se seguite da azioni o ritrattazioni) quali cani bastardi e affamati, presagendo da che parte arriverà il bastone che ci colpirà.
Ebbene, si può dire con una qualche certezza che il bastone sarà dello Stato maledetto, non più diretto, però, da mascelle in orbace o gentleman con il Rolex sul polsino, da ma un capitale orrendamente agghindato secondo la bisogna (da cooperativa, fotografo di moda, assessore voglioso, vescovo bonario, ma sempre e comunque informato allo statuto dell’impresa).
Ecco La Stampa, sotto il promettente titolo Renzi apre alla nazionalizzazione dell’ILVA, ci illustra il senso dell’attuale stato-nazione (cialtrone?): «un intervento pubblico per rimettere in sesto l’Ilva, difendendone l’occupazione e, nel giro di due o tre anni, rivenderla (ecco il primo trucco, parlare di vendita suppone un guadagno, il riferimento ad un contratto tipico pone certezza, rispetto del sinallagma, tutele per il caso di inadempimenti o vizi nel negozio). Il governo alza il velo sulla possibile strada da seguire per salvare il colosso dell’acciaio (che poi d’acciaio non è, se produce solo morte e non reddito ) e propone una soluzione che ha tutta l’aria di una sorta di commissariamento straordinario (commissariamento e moschetto, renziano perfetto? Dal 1992 l’Italia ha due soli schemi per [non] realizzare nulla se non posti di lavoro per amici e parenti, authority e commissari), anche se restano in piedi le ipotesi di acquisizione da parte di gruppi esteri o italiani (sì, ma questi i soldi li darebbero davvero, magari pochi, ma sarebbe davvero un contratto, di qui la soluzione alternativa). A tracciare la road map è il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che in un’intervista a La Repubblica spiega: “A Taranto stiamo valutando se intervenire sull’Ilva con un soggetto pubblico: rimettere in sesto quell’azienda per due o tre anni, difendere l’occupazione, tutelare l’ambiente e poi rilanciarla sul mercato” (sin d’ora due considerazioni straccione sul senso della frase, (i) ipotizzare un “soggetto pubblico” che (ii) si assuma i costi di una bonifica, (iii) senza fare pagare un euro a chi ha prodotto il danno, (iv) perpetuando l’apparenza di una classe operaia in realtà moltitudine cassaintegrata; (v) proiettando sui tapini l’ologramma di un’impresa produttiva; (vi) che incarnazione di Frederic Taylor sostituisca ai tondini le nostre vite). Il premier si schiera tra coloro che preferiscono che “l’acciaio sia gestito da privati”, tuttavia “non tutto ciò che è pubblico va escluso”, perché, sottolinea, “se devo far saltare Taranto (e qui il bullo in giubbotto dice la verità: devo far saltare Taranto) preferisco intervenire direttamente per qualche anno e poi rimetterlo sul mercato”». E poco dopo: «Il governo studia un’accelerazione sull’Ilva. Possibile intervento pubblico con un decreto. L’obiettivo è trovare soggetto pubblico capace, in 2 o 3 anni, di rimettere in sesto l’azienda, garantire l’occupazione degli 11.000 dipendenti e tutelare l’ambiente».
La novità del percorso è strabiliante: trovare un soggetto pubblico, un cherchez la femme 2.0 posto dal (già) giovane (ora sempre più) frequentatore dei salotti à la Mike Bongiorno.

Da Ilva (costituita a Genova nel 1905, due anni dopo la rivolta di Sestri) a Ilva (acquistata dalla Commerciale nel 1921 passava in mano pubblica) a Ilva (negli anni ’80 ceduta ai privati ) a Ilva (assoggettata al pubblico?), restano:
– 4.159.300 kg di polveri
– 11.056.900 kg di diossido di azoto
– 11.343.200 kg di anidride solforosa
– 7.000 kg di acido cloridrico
– 1.300 kg di benzene
– 338,5 kg di idrocarburi policiclici aromatici
– 52,5 g di benzo(a)pirene
– 14,9 g di policlorodibenzodiossine (abbreviato in diossine) e policlorodibenzofurani
– 280 kg di cromo III (cromo trivalente) (dati prima perizia sulle emissioni);
– l’incedere di un rinnovato neo-statalismo liquido (come il PD), debole (come il pensiero) ma funzionale alle ragioni dell’impresa (in sé considerata, come ballerina da adorare nelle Notre-Dame della rivoluzione renziana).

Ecco cosa succede a Bagnoli: l’ordinanza del Tribunale del riesame di Napoli in data 13.10.14 «affonda il bisturi in una congerie di questioni connesse ai meccanismi di controllo giurisdizionale sull’attività d’impresa», come riferito da uno dei primi e più significativi commenti. Come (forse) noto, il Tribunale di Napoli aveva disposto la revoca delle sequestro delle aeree di Bagnoli oggetto di una complessa vicenda giudiziaria connessa ad alcuni siti industriali dismessi dall’enorme impatto ambientale (detta per i non giuristi, morti di cancro a sfare). Il pubblico ministero aveva proposto gravame contro tale ordinanza ed il Tribunale ex art. 310 c.p.p. ha accolto i rilievi dell’accusa ripristinando la misura. Il provvedimento era stato emesso in ragione della ritenuta sussistenza indiziaria di numerosi reati, tra cui quello di truffa aggravata, di disastro ambientale, di falso, di favoreggiamento reale e di smaltimento illecito di notevoli quantitativi di rifiuti (è evidente che i reati, e la conseguente espropriazione di comune e vita cui gli stessi miravano trascende lo storico e romantico inquinamento da produzione industriale che tanto piaceva agli stakanov di risulta del nostro PCI). Contestualmente era disposta la nomina di un custode (ritorna la figura del probo Basettoni) con il compito di procedere immediatamente ad una serie di atti capaci di interrompere la grave compromissione delle matrici ambientali e di consentire una celere bonifica e/o messa in sicurezza delle aree. In ragione della gravità delle condizioni delle aeree, non era sufficiente una “custodia statica” (limitata ad impedire la fruizione e l’accesso ai terreni agli indagati), ma si rendeva indispensabile anche una “custodia dinamica” «al fine dell’adozione di una serie di iniziative e misure tecniche necessarie a scongiurare la protrazione della situazione di pericolo e volte ad eliminarla».
Il Tribunale disponeva poi la revoca del richiamato sequestro preventivo, ordinando la consegna delle aree ai competenti curatori fallimentari della società BagnoliFutura s.p.a. (e già il nome tradiva – al di là della presa per il culo – la prospettiva gestoria nel futuribile, laddove a Miles Davis, l’imprenditore preferisce Stockhausen), indicata nell’ordinanza in commento come la «società di trasformazione urbana a totale partecipazione pubblica (ecco l’emersione del soggetto pubblico d’invocazione renziana? ma non era appena fallito?), redattrice dei progetti di bonifica e successiva esecutrice degli stessi – nella cui disponibilità si trovavano le aree in esame ed ai cui esponenti di spicco molte delle imputazioni si riferiscono – dichiarata fallita nelle more, segnatamente con sentenza del 29 maggio 2014».
A fondamento di tale decisione i giudici di primo grado affermavano che, in ragione del dichiarato fallimento, le esigenze cautelari poste a base del sequestro dovessero ritenute venute meno con il conseguente rilascio delle aeree alla procedura concorsuale, al cui curatore spettava la gestione dinamica e statica delle aree e della società.
La questione, che nella abituale latitanza di governance è lasciata alle mani della magistratura, flette immediatamente sui profili economici e finanziari di una siffatta intrapresa. Il problema era dato dall’impossibilità per i curatori di effettuare le attività dinamiche, «non disponendo la società fallita delle risorse finanziarie sufficienti per sostenere i relativi oneri economici e non avendo peraltro il Tribunale fallimentare adottato provvedimenti di autorizzazione all’esercizio provvisorio».
Ebbene, con il provvedimento in commento si è ritenuto che «la subvalenza della procedura fallimentare e degli interessi creditori è nella specie […] da ritenersi allo stato accertato»; e, quindi, ha chiarito che «l’enorme dispendio di energie di natura economica che l’apprensione dei beni in esame, con le doverose, imponenti attività di gestione e bonifica che essa comporta, non risulta, per quanto consta a questo Tribunale, sostenibile dagli organi fallimentari (che non potrebbero attingere al denaro pubblico), non disponendo essi, certamente allo stato e presumibilmente anche in futuro – secondo quanto si ricava dalle relazioni depositate, non smentite da alcuna emergenza contraria o quantomeno dotata di apprezzabile margine di affidabilità – delle necessarie provviste per far fronte agli ingenti oneri, che, anche quotidianamente, devono essere affrontati per garantire la salvaguardia della pubblica incolumità e degli ulteriori superiori interessi analizzati dal decreto genetico, che appaiono logicamente prevalenti rispetto a quelli creditori, palesemente recessivi».
Tutto viene posto a carico del processo penale, disegnando una supplenza giudiziaria rispetto ad altri organi statali che è difficile ritenere compatibile con la doverosa separazione dei compiti della giurisdizione da quelli dell’amministrazione. Annettere la bonifica nella nozione elastica e indistinta di «custodia dinamica» prefigura un’espansione del potere giurisdizionale ai limiti del coefficiente di tolleranza del sistema, almeno sul lungo periodo. Né può persuadere il rilievo che tale «custodia dinamica» recherebbe vantaggio anche ai creditori fallimentari i cui interessi «anziché essere tutelati verrebbero frustrati» dal dissequestro «proprio alla luce degli ingenti oneri che l’acquisizione comporterebbe, a fronte di un’incerta, futura possibilità di realizzo».

Tutti i problemi sembrerebbero, quindi, dissolti nella mirabile sintesi imprenditoriale che devolve al simulacro della sovranità [vuoi in abito elegante come quella volta il puzzone al Lingotto (e di qui al “giovane” in sollucchero per Eataly il passo è breve), vuoi in sobria potestà togata] il compito di bonificare terre e cuori rivolgendoli alla vita impregnata di azienda e determinando una nuova ed immaginifica schiavitù al servizio dell’Impresa, che deve esistere indipendentemente da ogni riferimento alla produttività.

– II –

M’hanno detto a quindici anni
fai la specializzazione,
è importante, nella fabbrica
farai il lavoro che ti piace.
lo l’ho fatta, ed a vent’anni
poi mi sono diplomato
e ad un corso aziendale
m’hanno pur perfezionato
(Bertelli, cit.)

hight_societyMa le novità non finiscono qui.
Come d’incanto, apparentemente in controtendenza e ad asseritamente a rompere le uova nel paniere a contanta visione politica degna di un barone Haussmann, scoppia il caso di mafiacapitale.
Già il nome è brutto di per sé, ma non è che mare nostrum, tangentopoli, marita, pizzaconnection, salutamassorreda fossero meglio.
Quello che conta è che fasci d’antan, cooperative pseudo rosse, politici mascellati e pii veltronici fossero tutti accomunati dalla determinazione di socializzare il loro benessere, che poi non era loro, ma del sistema impresa-stato-impresa che si va delineando.
Poco importa che all’enormità della truffa non si accompagnasse il lusso sfrontato di Palazzo Grazioli, che comunque non si uscisse da una consociativa elargizione di cariche ed impieghi, anche non prestigiosi (dirigere Fincantieri non è reato, compagno Belsito sarai adorato!): ciò che ha trafitto il mio cuoricino da piccolo M-L è il sovrapporsi di immagini recenti e non.
Da un lato, manganellate dispensate a operai, studenti e precari (di prima, seconda, terza e forse quarta generazione), delegati FIOM descritti quali Bokassa, sgomberi di poveracci da case fatiscenti, trascurate da “istituti case popolari” che hanno costi di gestioni sufficienti a far vivere i senza tetto in magioni principesche.
Dall’altro, feste (mortifere) di ministri e assessori con pregiudicati, fasci e starlettes, cooperative intessute di miseria morale a cavalcare emergenze immigrati esistenti solo nella mente dei giornalisti di RAIGNU’.
Conclusivamente: altro che “assalto al cielo”, quanto riportato sub I) e II) è trepida spoliazione della Cassa Depositi e Prestiti.

– III –

Perché siamo i fantasmi
del fantasma d’Europa
che di carne e di sangue
ne ha conservata poca
e dice con sospiro
come un basso profondo
unitevi di nuovo
zombie di tutto il mondo
(Gianfranco Manfredi, Zombie di tutto il mondo unitevi)

Dimenticavo: nelle more, c’era stato il 14N.
«Così, il #14N torna ad essere l’occasione per i soggetti sociali di svolgere quella fondamentale funzione anticipatrice, riconfigurando un nuovo campo di conflitto. E non lo fa inserendosi semplicemente nel ciclo di lotte europeo, né tanto meno limitandosi a riempire un vuoto nel nostro paese.  Lo compie, con la forza di operare un salto in avanti. Si presenta come una soggettività politica potenzialmente in grado di  incarnare il superamento oramai maturo, nei linguaggi, nei metodi e nei programmi, del corporativismo sindacale, anche quando questo si presenta con iniziative “generali”. Lo fa esprimendo la forza della “coalizione sociale”, come forma organizzativa aperta, irriducibile sia alla somma delle componenti politiche che, al contempo, alle reti di scopo. In secondo luogo, ma non meno rilevante, lo fa aprendosi consustanzialmente ad una dinamica in grado di divenire transnazionale. D’altro canto, le politiche lavorative nello spazio europeo, dove il comando finanziario si traduce in irrigidimento della governance neoliberale, costringono i movimenti a dotarsi di un dispositivo politico de-territorializzante» (libero saccheggio da Forme di vita come mezzi di produzione. Viva lo sciopero sociale, in Euronomade).
C’entra? Non c’entra? Boh! Sta di fatto, che quel giorno, in quelle ore «le pratiche di sciopero diversificate nell’arco di 24 ore si sono manifestate nel blocco degli ingressi dei luoghi della produzione, nella comunicazione delle strade dello shopping, dinanzi alle catene commerciali, agli snodi aeroportuali e autostradali, presso le istituzioni erogatrici di welfare, nelle scuole e nelle università. Così lo Sciopero Sociale è divenuto il tentativo, ben riuscito, di dotarsi di metodi e di pratiche per porre freno al “bio-potere” della vita, dei corpi, delle forze, muovendosi lungo i punti di intersezione tra la sfera della produzione e quella riproduttiva» (loc. op. cit.).

– IV –

Il nemico, marcia, sempre, alla tua testa.
Ma una testa oggi che cos’è?
E che cos’è un nemico?
E una marcia oggi che cos’è?
E che cos’è una guerra?
Si marcia già in questa santa pace
con la divisa della festa.
Senza nemici né scarponi e
soprattutto senza testa!
(Claudio Lolli, La socialdemocrazia)

scelbaMa torniamo a mafiacapitale orrendo connubio di esseri schifosi che vivono nel mondo di mezzo.
I richiami a Tolkien all’immaginario fascio che questo evoca sono stati molteplici e alcuni effettivamente puntuali e corretti (anche se a me Il signore degli anelli ha sempre leninisticamente fatto cacare).
A me (figlio degenere del baffo georgiano, e forse per questo) quel ribollire di immagini e notizie, congiuntamente assorbite, ha fatto pensare ad un altro incubo, gli anni ’50, quello dei salari bassi, degli operai uccisi e imprigionati (gli studenti non li cito non per snobismo, ma perché in quella I repubblica studiavano soli i ricchi e la scuola serviva per studiare, ci vorranno le legioni dei figli del benessere a scompaginare i piani).
Furono gli anni di Scelba e del culturame, della mafia che farciva di picciotti le liste nelle campagne elettorali DC, dell’occupazione delle terre e delle fabbriche in costante ristrutturazione, della determinazione PCINA di supportare il sistema di produzione industriale («ricordarsi sempre che l’insurrezione che noi vogliamo non ha lo scopo di imporre trasformazioni sociali e politiche in senso socialista e comunista, ma ha come scopo la liberazione nazionale la distruzione del fascismo. Tutti gli altri problemi verranno risolti dal popolo DOMANI», così Palmiro Togliatti il 6.06.44, domani domani/Ti faccio un regalo/Ti rendo di nuovo/La tua libertà /Ti libero il cuore /Così volerai /E io farò a meno /Del poco che dai, cantava Laura Luca senza neanche aver letto Cacciari).
Si trattava di un nuovo patto sociale, tra i partiti della resistenza teso all’industrializzazione forzata eliminando qualsivoglia parvenza di partecipazione operaia nella tanto affermata ma inesistente ricostruzione.
«L’America puntando sulla DC, non si accorse che se la punta dell’iceberg democristiano tutelava i cosiddetti valori occidentali, la sua base -assai più vasta e ramificata – aveva ben altra prassi e interessi, sicché la vittoria della DC fu anche la vittoria delle forze che avevano partorito il fascismo, della burocrazia di regime e della mafia che presa quale socio in Sicilia, arricchendosi con il racket, la compravendita dei terreni, le speculazioni edilizie e il traffico di stupefacenti e collaborando al tempo stesso con la polizia e i partiti» (Cesare Bermani, Il nemico interno, 1997).
Se la Resistenza era stata nuovo Risorgimento (nella vulgata miserabile che ci propinarono, perlomeno), il parto aveva dato alla luce un mostro pervaso di bieco cattolicesimo, oscurantista, che vedeva nella popolazione solo apprendisti e cottimisti, silenti e gementi nel ricordo del vecchio scarpone.
Ecco, a me la lordura che fuoriusciva dagli schermi ha fatto ricordare un bel libro di Cesare Bermani: Il nemico interno.
Più che terre di mezzo, vivi dei piani alti (che sa tanto di High Society senza neppure un Bing Crosby a giustificarne l’esistenza) e morti in cantina (magari per alluvione o asfissia), gli scioperanti sociali mi hanno portato a intravedere il nuovo, necessario e prorompente “nemico interno”: nemico dell’impresa-stato (impresa tra imprese, dove pubblico e privato si dissolvono nella finanziarizzazione delle esistenze) renziana.
Scrive Guido Gentili su Il Sole 24 ore del 4 us., che «il mondo di mezzo di Mafia Capitale scolpito dal capobanda Massimo Carminati rende bene l’idea. Quella di una terra sottratta insieme alle leggi del mercato (ma quali? quelle di Riva? la lex mercatoria? il SIFAR?) e a quelle dello stato (ma quali? la legge Reale? il Concordato?), dove l’affarismo criminale (che non è, quindi, attumorare i lavoratori o il sistema bancario) abbraccia la politica locale e le sue diramazioni amministrative ed economiche. […] Qui non esistono la concorrenza e la libera impresa, lo stato e le sue leggi. Ma ci sono grandi affari facili che assicurano guadagni agevoli e rendite politiche garantite. Niente ostacoli burocratici, niente costi amministrativi, niente rischi d’impresa, niente controlli (ma non è il sogno ultracentenario della borghesia?)». E conclude: «tagliare tagliare tagliare, solo così se ne andrà il marciume».
Ancora più chiarificatore è il titolo di altro articolo nella stessa pagina: Il veicolo coop nella corsa agli appalti.
Restiamo nell’ambito della nostalgia canaglia (citare Al Bano mi pare doveroso omaggio ai cialtroni che popolano le cronache così riportate): tutto preso da sconforto per il dolore che il ricordo della repressione degli anni ’50 (pre-tambroni style) suscita in chi li ha vissuti, anche per interposta persona ovvero attraverso i sussidiari degli anni ’60 pre-centrosinistra, ho preso in mano altro libricino intriso di leninismo polceverasco, La sega di Hitler di Manlio Calegari (Selene editore, 2004) e in preda a deliri da resistenza tradita: «a Bolzaneto tutti sapevano che di Ilva si moriva. Non si diceva apertamente, ma si sapeva. Anche sua madre, passato il primo entusiasmo per la paga non era più tanto contenta: quel cottimo era una gara con la morte».
Ecco, abbiamo chiuso il cerchio. La storia è conclusa come al Monopoli, si torna al punto di partenza: il lavoro come morte, la negazione del lavoro come unica sopravvivenza. Essere nemico (interno, dentro e contro) di ogni forza di produzione estratta dalla vita con la violenza e il ricatto.
Il pasciuto operaio della vulgata renziana, in verità lacero moribondo che continua a perpetuare una vita di merda per consentire a preti-fascisti-assessori-riformisti di perpetuare sé stessi e il capitale.

– V –

Da tutte le paludi
da tutte le galere
lasciando le famiglie
lasciando le bandiere
che vogliono bendare
questi corpi straziati
noi non li nascondiamo
questi corpi spezzati
(Gianfranco Manfredi, loc. op. cit.)

Verrebbe, però da chiedersi dove porti tutto questo minestrone che procede dalla segregazione operaia nelle fabbriche per arrivare alle cozzate a Landini e agli sgomberi.

1. Anzitutto, emerge l’ombra sinistra della sinistra.
L’industrializzazione fu gestita in prima persona dal “domani” togliattiano, dalla determinazione tutta staliniana (non lo Stalin dei sogni partigiani che si scaldavano alle notizie di Stalingrado) che si potesse fare a gara con il capitale e bastasse solo sacrificarsi per Hot_Ratsvincere. Come nello Zappa di Hot Rats la velocità nell’esecuzione, la tecnica sopraffina, portarono alla realizzazione del socialismo futuro, che asservitosi al capitale industriale evidenziò la natura becera dei 1000 Willie the Pimp che hanno traghettato tra sigle improbabili e leader impresentabili il più grande partito comunista dell’Occidente.
Renzi è il Togliatti del capitalismo finanziario. Adegua la richiesta di sacrifici alle mutate esigenze. Chi non lavora aggratis (e in suo soccorso è accorso proprio ieri il vescovo di Roma, spiegandoci che contro la corruzione non c’è nulla di più potente del lavoro gratuito, cosicché all’Expo, cosiccome nei campi del sud a raccogliere pomodori, si respira un’aria di santità che neanche in casa di Madre Teresa) è sempre respinto, combattuto, picchiato.
Non si è più deviazionisti, infantili, nemici della patria ma gufi; e comunque soggetti contrari all’economia nazionale, al progresso, al benessere di DOMANI.

2. È che però il lavoro non basta più. La catena è dismessa per sempre. Fare girare l’economia non dipende più da quante schiene spezzate riuscirai, con la scusa che sei di sinistra, a far gorgogliare.
La natura immateriale del lavoro, meglio delle prestazioni che il capitale richiede a ciascuno, la totale immersione delle singolarità nella produzione reticolare richiede la compromissione di ogni libertà.
È qui che si inserisce lo statuto dell’impresa, che informa la vita di ogni lavoratore (e non solo attraverso l’imposizione di una partita iva o la sparizione di ogni apparente vincolo di subordinazione e coordinamento) inserito d’ufficio nel regime di una concorrenza soltanto apparente e tradita dalla condizione debitoria che inficia la stessa funzione “imprenditoriale”.
L’uomo impresa è soltanto un insieme di mezzi coordinati per l’esercizio di se stesso, ma distorti attraverso il ricatto della gratuità, della promessa e del debito in modo che tale gestione ne elida la “crescita” autonoma (e quindi antagonista) e spinga all’asservimento della creazione.
È qui che si inserisce lo statuto dell’impresa, che informa la vita di ogni ente pubblico inserito d’ufficio nel regime di una concorrenza soltanto apparente e tradita dalla condizione debitoria che inficia la stessa funzione “imprenditoriale”.
Lo stato impresa è soltanto un insieme di mezzi (s)coordinati per la finzione di una sovranità inesistente, distorta nella già inumana inutilità per consentire all’impresa (quella vera, quella dei convegni con Squinzi e Marcegaglia, delle stecche lasciate al sistema bancario) di apparire nei telegiornali e illudere i “lavoratori” che stanno facendo qualcosa (e il plauso inFIOMMATO alla pronosticata nazionalizzazione dell’Ilva ne è la riprova).

3. Non lo accetteremo, non lo accetteremo,
non lo accetteremo, non lo accetteremo,
non lo accetteremo, non lo abbiamo fatto e non lo
faremo.
Non vogliamo nessuna religione, e per quanto possiamo
dire
non ti accetteremo, non l’abbiamo fatto e non lo
faremo mai.
Non ti accetteremo, ti abbandoneremo, ti picchieremo,
meglio ancora ti dimenticheremo, ti abbandoneremo, ti
picchieremo,
meglio ancora ti dimenticheremo.
(The Who, Tommy, We’re not gonna take it)

L’impresa è per il capitale, quello che furono le Armi segrete per Hitler. Nel deserto di produzione e di innovazione (che non siano le APP per imbecilli che modulano il digitare sui cellulari onde assicurare la convinzione di avere una qualche attività vitale oltre al, sempre più affannoso, respiro), nel sistema estrattivo di vita da mettere al lavoro, occorre un altare cui genuflettersi, una scusa per poterti manganellare.
Il capitale deve soggiogare l’intera persona sia demolendo il concetto di prestazione lavorativa quale scambio retribuito sia innalzando enfatiche rincorse alla vita da spezzare più o meno a mezza corsa per assorbire quanto si è realizzato.
Il capitale deve soggiogare lo stato, appunto inventandosi una terra di mezzo (ma di merda per chi ci vive) laddove il paradigma sia niente ostacoli burocratici, niente costi amministrativi, niente rischi d’impresa, niente controlli.
La cosa più straniante è proprio la conquista del capitale post crisi finanziaria della completa liberazione da qualsiasi responsabilità: l’esclusione del rischio d’impresa.
La rinnovata intraprendenza dello stato nell’economia, la sentenza Eternit conclamano il dato (tanto casino per la prescrizione, ma perché ci sono voluti tanti anni per arrivare a decisione? qualcuno se lo è chiesto).
Il capitale non solo ha esteso il proprio statuto al mondo è riuscito a erodere l’unica ragione che lo giustificava, giustificando, attraverso la fuffa del rischio d’impresa, il proprio dominio.
L’esercizio dell’impresa è ormai legibus solutus.
Basta la parola: impresa, e il denaro comincia a fluire. Sussidi, riduzione della tassazione, investimenti, incentivi, prestiti alle banche perché sovvenzionino imprese tanto decotte quanto presuntuose.
Ma dov’è il denaro? Il denaro siamo noi.
Il vero Sacco di Roma non lo ha fatto Alarico, è nel consumarsi della produttività vitale delle singolarità secondo un copione d’impresa che ci vuole vivi quel tanto che basta per assumerci e succhiarci.
Dov’è il denaro? Il denaro siamo noi.

In fondo, lo diceva anche la pubblicità: la coop sei tu.

ian_mclaganI’m a little tin soldier
That wants to jump into your fire
You are a look in your eye
A dream passing by in the sky
I don’t understand
All I need is treat me like a man
‘cause I ain’t no child
(The Small Faces, Tin Soldier)

Magari non c’entra una cippa, ma pochissimi giorni fa è morto Ian Mclagan… c’è voglia di fordismo?

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