di SANDRO CHIGNOLA.

Ho molti amici immigrati. Con alcune e con alcuni di loro ho condiviso pratiche di ricerca e lotte politiche. Qualcuno di loro è finito in galera o è stato espulso. Altri sono rimasti e contribuiscono attivamente a cambiare l’idea di cittadinanza e il diritto del lavoro in questo paese. È perciò con un certo fastidio che ho letto il libro di Paul Collier (Exodus. I tabù dell’immigrazione, Laterza, pp. 287, € 24). Come è mio costume, l’ho letto per intero. Un libro «imprescindibile per chiunque voglia approfondire» lo spinoso tema delle migrazioni, strilla la copertina. E forse è davvero così. Certo, non per le ragioni che esso direttamente esprime. Altri recensori dell’edizione inglese – su tutti gli economisti Michael Clemens e Justin Sandefur per “Foreign Affairs” (Let the people go, qui) – ne hanno decostruito le pretese di scientificità, i circoli logici, l’uso selettivo e tendenzioso, per quanto ammantato di asettica scientificità, delle statistiche e della letteratura. Il libro di Sir Paul Collier, professore di Economia e politiche pubbliche ad Oxford, esperto delle economie africane e consulente del governo inglese, può essere letto come un sintomo dello strabismo dell’economia e dell’ideologismo che orienta il definirsi dell’agenda delle politiche migratorie, piuttosto.

Un modello prêt-à-porter

Collier posiziona il suo libro nell’alveo del razionalismo critico e del realismo. Con le «analisi accessibili e spassionate» in esso condotte, egli intenderebbe «scuotere le posizioni polarizzate» che sclerotizzano il dibattito opponendo da un lato l’ostilità ai migranti di xenofobi e razzisti e dall’altro gli interessi delle «élite imprenditoriali e liberali» (ovvio che sia così: da un lato il «comune cittadino» che subisce la pressione delle diaspore, dall’altro il liberale stilizzato come uno snob) per le quali la «politica delle porte aperte è un imperativo etico» in grado di continuare a garantire grandi benefici. Il suo problema, dopo un’analisi svolta per molte pagine in cui a quella che egli chiama, modellizzandola, l’«economia politica del panico» oppone una politica delle quote in grado di filtrare i flussi migratori selezionando i migranti in base a criteri di integrabilità e di skills, è di definire un «pacchetto» di misure concretamente spendibile per governarli massimizzandone l’utilità tanto per i paesi di accoglienza, quanto per quelli di provenienza, evitando così su di un lato il collasso della cittadinanza multiculturale (cui egli riconosce, bontà sua, di aver reso più «varie» e «vivaci» le culture dei paesi nei quali essa ha trovato realizzazione) e sull’altro l’intensificarsi di processi di spopolamento e di sottosviluppo.
scusateLe migrazioni internazionali di massa sono una reazione all’estrema disuguaglianza mondiale, ci dice Collier. E questa disuguaglianza, che è aumentata nel corso degli ultimi due secoli, finirà nel prossimo, in nome di una teodicea del capitale, per il «globalizzarsi» della ricchezza e per il progressivo aggancio che i paesi poveri realizzeranno nei confronti dei paesi ad alto reddito (pp. 269-270). Si tratterebbe perciò di governare una fase transitoria, con il disincantato realismo di chi affronta l’immigrazione negli stessi termini del «riscaldamento globale» (l’analogia ricorre più volte nelle pagine finali del libro) e con il solare ottimismo di chi crede fermamente nei benefici del mercato. Una politica che restringa l’accesso dei migranti ai paesi ricchi – è piuttosto evidente che Collier solo questo problema veda – svolgerà la doppia funzione di garantire «l’interesse bene inteso» dei migranti e di rappresentare, questa la sua tesi fondamentale, un «atto compassionevole» nei confronti dei paesi e delle economie dalle quali essi provengono, permettendo altresì di mettere fuori corso tensioni e derive reazionarie nei paesi di accoglienza. Niente di meno.
Che la preoccupazione fondamentale del professore di Oxford sia la tenuta interna dei paesi ricchi ben più di quanto non lo sia lo sviluppo delle economie dell’«ultimo miliardo» oggetto più proprio dei suoi studi, lo dimostra la rappresentazione alquanto caricaturale del migrante che talvolta gli sfugge di sotto alla mole di dati selettivamente raccolti dalla più recente letteratura sulla sociologia delle migrazioni. Il migrante non soltanto è latore di una «cultura» cui resta rigorosamente identificato – quella stessa cultura che il «liberale benpensante» vorrebbe invece venisse riconosciuta e difesa — ma povertà e sottosviluppo del suo paese dipenderebbero per buona parte da essa. Sono le «culture – o le norme e le narrazioni – delle società povere, così come le loro istituzioni e organizzazioni», nel giudizio di Collier, «ad essere la principale causa della loro povertà» (p. 28). Il migrante tende a riprodurre la propria cultura — il nigeriano tenderà a comportarsi nel paese di accoglienza «in maniera diffidente e opportunistica» riproducendo il «codice morale» della propria società di partenza (p. 61) –, anche se nella sua scelta implicitamente si esprime un giudizio definitivo su di esso, poiché andandosene, «vota a favore del modello sociale dei paesi ad alto reddito». Ed è questo che conta: per Collier, «le migrazioni odierne non sono un viaggio alla ricerca di terre da coltivare, ma un viaggio alla ricerca di efficienza» (p. 44).

Moralismo compassionevole

Di qui la serie di conclusioni che affollano i capitoli del libro. Il migrante è un soggetto che imprenditorialmente investe su di sé e che cerca di massimizzare il suo self interest. Credendo di farlo, tuttavia, finisce talvolta con il fraintenderlo. Accade ad esempio quando la vita da migrante si fa pesante, lasciando trasparire un costo marginale negativo nel saldo tra un salario più alto e i «costi psicologici» della migrazione. Quello che appare al migrante un investimento può rivelarsi invece un errore. Altri hanno avuto modo di sottolineare come seguendo questa illuminata logica economica, lo stress delle donne che lavorano avrebbe dovuto consigliare loro (e a tutte le altre) di restare a casa e di preferire per la loro vita una comoda logica patriarcale del focolare e degli affetti. È il moralismo compassionevole con cui Collier guarda ai migranti e ai loro paesi di provenienza ciò che ancor più da fastidio. Almeno a me; non certo a chi ha ritenuto di tradurre e di far circolare in Italia, all’epoca del governo Renzi, un libro come questo, con il suo stile tecnocratico, progressista, centrista, anche se trasudante rappresentazioni arcaiche della migrazione e dei suoi soggetti: metafore climatiche, problemi sociali trattati in termini di pressioni e di tensioni demografiche (sui paesi ricchi, perché le migrazioni minano le coesioni «nazionali»; sui paesi poveri, portati a spopolarsi e a diventare «deserti»: «se l’Angola diventasse una propaggine della Cina o l’Inghilterra una propaggine del Bangladesh» — suppongo sia quest’ultima la preoccupazione principale del professore oxoniense — «si tratterebbe di una terribile perdita culturale per il mondo intero» (p. 245), egli ha modo di scrivere), «nazioni» pensate come oggetto di «identificazione emotiva» e dunque come «potentissimi fattori di equità».
«Le politiche pubbliche sono tenute a tener conto degli effetti che i migranti trascurano» (p. 248). È questo il punto di partenza e di arrivo. La scelta di migrare è un «atto privato» solitamente compiuto dal migrante stesso, talvolta con il contributo della famiglia.

Un quadro fosco

Eppure questa scelta privata produce effetti tanto sulla società ospitante quanto su quella di origine, dei quali il migrante non tiene conto. Su quella ospitante, non già un abbassamento dei salari o una perdita di lavoro per gli autoctoni, ma benefici minimi sulle finanze pubbliche – nonostante la massa di ricerche che attestano come il lavoratore straniero, in genere giovane, versi molti contributi e fruisca poco, ad esempio, dei sistemi sanitari nazionali, permettendo invece che ne godano le popolazioni locali – ed effetti di indebolimento del legame nazionale; su quella di partenza, un peggioramento complessivo poiché a migrare sono per lo più i più istruiti e i più dotati, i soggetti più disposti ad investire (prima di tutto su di sé) e coloro per i quali gli investimenti sulla formazione – ricaduta positiva sulle società di partenza, egli ci dice, proprio per la prospettiva migratoria che porta i genitori a scegliere per i propri figli un’istruzione migliore e un accesso alle lingue straniere – si traducono in una perdita secca. Perché mai impedire la migrazione, oppure renderla più selettiva e difficile, dovrebbe far sì che i cittadini stranieri «più dotati» possano esprimere le loro capacità producendo effetti progressivi e di modernizzazione su società delle quali, con una costante e sorprendente oscillazione, Collier sottolinea insistentemente la corruzione e l’inefficienza, così come le straordinarie potenzialità, il libro non ce lo dice.
È l’accelerazione dei flussi migratori determinata dalla crescita e dalla stabilizzazione delle diaspore l’ossessione – più che non il dato di analisi – che attraversa il libro. La facilità dei ricongiungimenti familiari e la truffa sul diritto di asilo, nel parere di Collier, permettono di abbattere rischi e costi della migrazione. Di qui, l’innesco di reazioni potenzialmente pericolose e fondamentalmente razziste nelle società di accoglienza. Non solo per la «pressione» degli immigrati, ma per l’incistarsi di gruppi – le diaspore, appunto, trattate in termini pesantemente culturali – non facilmente disposte a sciogliersi nel tessuto sociale delle democrazie avanzate.
charlie_hebdo_lampedusaIl «pacchetto» proposto da Collier per governare il problema cerca di comporre esigenze economiche e «compassione» per i migranti contestando il paradigma per il quale i flussi di migranti agiscono sempre in direzione di un incremento della ricchezza complessiva. Nei paesi di arrivo per l’enorme bacino di manodopera da essi fornito e per il volume delle rimesse (la World Bank le ha quantificate in oltre 400 miliardi di dollari) che i lavoratori inviano a casa. Si tratta di filtrare e di rallentare, non di impedire, i flussi di ingresso grazie a un meccanismo di quote programmate e di adottare quattro «criteri» che permettano di selezionare gli happy few ammissibili al permesso di soggiorno in base a «istruzione, occupabilità, origini culturali e vulnerabilità» (p. 258). E cioè: di far accedere uno stock di migranti immediatamente fungibili al mercato del lavoro dei paesi ricchi selezionato in base a criteri culturalisti di integrabilità e di corrispondenza alle esigenze delle loro economie.

La feroce logica delle quote

Collier arriva a sostenere che «un ulteriore requisito di ingresso» possa essere direttamente affidato al giudizio di «conformità» delle aziende che intendono assumere i migranti (p. 260) e il suo liberalismo «compassionevole» arriva ad ammettere sì il diritto d’asilo, ma spingendo per la sua riforma in senso restrittivo dato il costante «abuso» che di esso verrebbe fatto. Sua ipotesi conclusiva: i benefici economici sono prodotti dalla migrazione professionale; i costi sociali dalla diaspora non integrata. Che il costo dell’integrazione sia la riproposizione, sotto accademiche spoglie, del modello del lavoratore ospite degli anni Cinquanta del secolo ventesimo aggiornato alle esigenze del capitale globale, non sembra un’idea tale da giustificare l’operazione editoriale di Laterza. Certo, il libro venderà e troverà ascolto tra i consiglieri del governo del Patto del Nazareno. E il professor Collier potrà continuare a prendere il the a Oxford senza che un eccessivo odore di cucina bengalese finisca con l’infastidirlo.

questo articolo è stato pubblicato sul manifesto del 12 marzo 2015 col titolo “Il nemico snob della diaspora”

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