Di FRANCESCO FESTA.
Chissà se Marshall McLuhan avesse previsto l’analfabetismo funzionale quando sosteneva che la privatizzazione di medium tecnologici avrebbe creato una popolazione sempre meno istruita e più manipolabile. Chissà se gli studiosi della Scuola di Francoforte avessero presagito il fenomeno delle fake news quando ammonivano a guardarsi dai prodotti «di massa» dell’industria culturale che, in realtà, sono portatori di ideologia che alimenta omologazione in forme pervasive. Forse Luis Borges ne aveva intravisto qualche effetto quando scrisse che si accetta facilmente la realtà, poiché s’intuisce che niente è reale sottoposti a forme di propaganda, censura e indottrinamento che non concedono spazio al pensiero. Queste forme sono in realtà il volto mediatico della distopia, che altro non è che il contrario dell’utopia.
IL CORPOSO VOLUME di Elisabetta Di Minico, Il futuro in bilico. Il mondo contemporaneo tra controllo, utopia e distopia (Meltemi, pp. 418, euro 28) è un prezioso studio delle correlazioni fra le distopie, le narrazioni fantastiche e la storia contemporanea. Corredato da sketch a tema, realizzati da fumettisti internazionali, affronta sans phrase la distopia nella sua corrente più avvincente e realistica: il sotto-genere politico. «Se la storia avvicina alla realtà – scrive l’autrice – la finzione può spiegare le verità che ci sono dietro ogni realtà». Lo studio di romanzi, film e fumetti è una lente dei processi socio-politici quotidiani, anticipando, senza filtri, quale potrebbe essere il futuro che ci attende, il «luogo cattivo» cui andiamo incontro.
L’AUTRICE SI FOCALIZZA principalmente sulle «distopie dispotiche»: sulla formazione dei regimi per manipolazione del consesso sociale, tramite uno studio ampio e articolato di opere fondamentali come 1984, Il mondo nuovo, Fahrenheit 451, La notte della svastica, V per Vendetta, e altre ancora pubblicate nel XX secolo.
Perché il «fantastico nero» suscita un crescente interesse è una delle domande che stimola la lettura de Il futuro in bilico. Le ragioni sono da ritrovare anche nella sua genesi, assai simili alla realtà coeva. Il suo statu nascenti è coinciso col tramonto del «Secolo delle rivoluzioni borghesi», come Hobsbawn ha definito l’Ottocento, quando l’alienazione prodotta dall’industrializzazione ha offuscato qualsiasi palingenetica visione del progresso umano e collettivo.
MATERIA per lo sviluppo del genere distopico sono stati invece i regimi nazi-fascisti negli anni Trenta e la crisi dell’utopia socialista con lo stalinismo, ossia con la fine dell’idea di felicità collettiva. Anni in cui le popolazioni europee soggette a una crisi epocale hanno ceduto il proprio futuro, dismettendo l’immaginazione di un «buon luogo», ai poteri dominanti e autoritari. Del resto, l’interesse verso il distopico funge da metro del rapporto fra realtà e percezione della stessa, fra capacità di intervenirvi e rassegnazione allo stato di cose.
Chiunque utilizzi il distopico intende, infatti, lanciare degli avvertimenti: vale a dire di abbandonare i sogni utopici, esasperando le caratteristiche negative del tempo presente, e al contempo di indicarne le possibili vie di fuga.
Il ritorno del genere è il sintomo di società sussunte alle passioni tristi, effetto di un ritorno del fascismo quale parte di un fenomeno di dimensioni globali. Nel volume l’autrice, dopo l’analisi del rapporto fra letteratura distopica e poteri autoritari, si dedica allo studio dei «poteri suadenti», alla distopia nei sistemi democratici.
LA RIAPERTURA dell’attuale ciclo reazionario e autoritario è dentro un ordine del discorso democratico le cui tappe sono ormai note: prima, il riallineamento autoritario delle istituzioni neoliberali; poi, la castrazione del desiderio collettivo e l’impasse creativa dei movimenti sociali; infine, la balcanizzazione molecolare dei rapporti sociali e lavorativi sulle linee della razza e del genere.
Il futuro in bilico mostra come il distopico «non è semplice intrattenimento», ma è concezione del mondo e della vita, suggerendo gli strumenti per arginare la distopia politica nelle realtà democratiche, ossia l’istruzione e la conoscenza per contenere la manipolazione, dischiudendo strade alla cooperazione per realizzare una società più giusta, per costruire un altro mondo possibile. A differenza del passato, però, questa conoscenza è sotto il regime di un nuovo panopticon. La distopia è irreggimentata dalla comunicazione mediata dai social network che pervade le relazioni sociali, le snatura e vi fonda il consenso.
A PARTIRE da sentimenti facili da instillare quella conoscenza si nutre di odio e paura, e per mezzo di tweet moltiplica il consenso al Goebbels di turno. Forse è insufficiente la conoscenza: occorre appropriarsi di medium per combattere una battaglia che appare oggi impari; per dirla con un famoso slogan di Indymedia: Don’t Hate the Media, become the Media.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 9 aprile 2019.