Di CHRISTIAN MARAZZI

Stimolare la spesa pubblica per uscire dalla stagnazione secolare e dal buco nero monetario, è quanto sentiamo ripetere in queste settimane, in modo più o meno esplicito, ai più alti livelli istituzionali, dal Fmi alla Bce alla stessa Federal Reserve. Sin dalla crisi del 2008, le politiche austeritarie di contenimento della spesa pubblica, coniugate con la compressione del costo del lavoro, hanno cronicizzato l’insufficienza della domanda, dando vita a politiche monetarie espansive senza precedenti per evitare la spirale deflazionistica e sostenere la crescita. Riduzioni sistematiche dei tassi di interesse e acquisti massicci di titoli di debito pubblico da parte delle principali banche centrali non sono comunque riuscite nel loro intento di rilanciare la crescita e l’inflazione, se non sui mercati finanziari, dove è affluita buona parte della liquidità creata dalle autorità bancarie, aumentando a dismisura la rendita finanziaria e le disuguaglianze.

LA STAGNAZIONE della domanda non solo si è rivelata, appunto, secolare, ma ha costretto le banche centrali a riprendere la via dell’espansione monetaria per evitare gli effetti recessivi della guerra commerciale tra gli Usa e la Cina. Con l’aggravante, visti i tassi d’interesse reali negativi e i bilanci delle banche centrali stracolmi di obbligazioni pubbliche, dell’assenza di margini di manovra per far fronte alla recessione, se questa dovesse scoppiare in un prossimo futuro. Hic rhodus, hic salta.
È all’interno di questo rompicapo macroeconomico e monetario che va letto il libro-intervista di Jean-Paul Fitoussi, (a cura di Francesca Pierantozzi), La neolingua dell’economia. Ovvero come dire a un malato che è in buona salute (Einaudi, pp. 174, euro 17).

L’ASPETTO CENTRALE della riflessione critica di Fitoussi è il ruolo giocato dal linguaggio nella deriva economica, politica e sociale che ha caratterizzato le politiche economiche e monetarie di questi ultimi decenni. «In questo libro ho cercato di dimostrare quanto l’evoluzione (o involuzione) della lingua abbia contribuito a impoverire la nostra percezione della realtà e a limitare le azioni che potevamo intraprendere». La neolingua orwelliana di cui parla l’economista francese è quella della nuova economia classica che si è imposta a partire dalla svolta neoliberale degli anni Ottanta, una lingua che «esiste per impedire che le cose siano dette», un’ideologia priva di solide basi teoriche che ha ridotto il dibattito entro i rigidi confini del pensiero unico liberista. Secondo Fitoussi è a partire dalla crisi greca che si è deciso definitivamente di bandire dal vocabolario una serie di termini keynesiani diventati ormai tabú: al posto di «politica della domanda» si parlerà d’ora in poi di «condivisione dei rischi», invece di «finanziamento monetario della spesa pubblica» si dovrà parlare di «quantitative easing» o «politiche non convenzionali». Insomma, parafrasando Joseph Goebbels, non si tratta di convincere le persone a condividere le idee liberiste, ma di ridurre il vocabolario in modo tale che non possano che esprimere idee… liberiste.

ALLA NEOLINGUA liberista, Fitoussi contrappone efficacemente una serie di contenuti di buon senso keynesiano, molti dei quali condivisibili. Dall’analisi del lavoro, che non fa difetto ma è sempre più precario, alle politiche monetarie basate sul principio di sovranità e del ruolo di prestatore in ultima istanza della Banca centrale, dalla necessità di rilanciare la domanda per uscire dalla stagnazione secolare, all’idea di un’Europa federalista per sconfiggere i sovranismi che la minano alla radice a causa dell’assenza di vere politiche fiscali comuni. Tutti modi alternativi o eterodossi di orientare le politiche economiche e sociali che ormai hanno perso qualsivoglia cittadinanza in questo mondo dominato dalla neolingua liberista. «Sono di sinistra, senza se, senza ma e senza esitazione. Ciò che distingue le diverse teorie dell’economia è a mio avviso il peso che si attribuisce all’intervento dello Stato». Di uno Stato che in questa particolare congiuntura dovrebbe, keynesianamente, riattivarsi con politiche di espansione della spesa pubblica, invece di affidarsi a politiche monetarie sempre meno efficaci e sempre più inegualitarie. Ma se questa è la posta in palio, basta ridurre il tutto a un problema di linguaggio?

LA CENTRALITÀ del linguaggio nei processi economici e nelle politiche monetarie è un tema sempre più studiato. A sostegno della tesi di Fitoussi, basti citare il libro di Douglas Holmes, Economy of Words (2013) o l’ultimo di Robert Shiller, Narrative Economics (2019) o ancora quello di Alberto Orioli, Gli oracoli della moneta (2016). Si tratta prevalentemente di studi sul ruolo della narrazione (o delle «storie») nella determinazione dei comportamenti economici di investitori, risparmiatori, consumatori, così come nella spiegazione dei cicli di espansione e contrazione economica dal punto di vista della circolazione di storie, vere o false che siano.
Ma la tesi di Fitoussi, secondo cui saremmo prigionieri di un linguaggio a senso unico che «più diventa volgare, più è credibile», ci costringe ad andare oltre l’analisi comportamentale del linguaggio-come-narrazione, oltre cioè la sfera della circolazione linguistica, per addentrarci nell’analisi marxiana del linguaggio come strumento del fare, come insieme di enunciati linguistici performativi in cui dire una cosa significa farla, produrla. Sul divenire performativo del linguaggio, del linguaggio che è pienamente dentro la sfera della produzione di merci, Paolo Virno ha scritto testi teorici molto preziosi e decisamente attuali. È la produzione di merci a mezzo di linguaggio che rende quest’ultimo volgare e privo di aura. La neolingua è tale perché siamo prigionieri del capitale, perché il capitale, mercificando le parole, ci racchiude in uno spazio-tempo in cui vita e lavoro si sovrappongono. L’uscita dalle politiche monetarie-austeritarie con il rilancio delle politiche fiscali keynesiane, per quanto auspicato da un numero crescente di politici e economisti, non è affatto scontato. In parte questo è dovuto alla resistenza ideologica esercitata dalla neolingua. Si pensi alla Germania che, ormai in recessione, avrebbe logicamente bisogno di uscire dalla parità di bilancio avviando una politica di investimenti pubblici per aumentare la domanda. Ma le resistenze sembrano tuttora dure a morire.

LA FACCENDA però si complica ulteriormente quando, analizzando il ruolo del linguaggio nella produzione di merci, constatiamo come i processi di accumulazione capitalistica siano profondamente mutati in questi ultimi decenni. L’espansione della gratuità del lavoro indotta dallo sviluppo delle tecnologie e delle piattaforme informatiche, per fare solo un esempio, costringe a riqualificare la natura stessa degli investimenti pubblici. Il rilancio della domanda tanto auspicato non passa più dagli investimenti infrastrutturali fisici, bensì da quelli immateriali-relazionali, antropogenetici. Solo investendo nei settori della socialità, della cura, della cultura, della ricerca e dell’ambiente possiamo ridefinire «linguisticamente» la politica fiscale, evitando così di passare da una neolingua all’altra.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto l’1 novembre 2019

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