Di ANDREA FUMAGALLI e CARLO VERCELLONE

La crisi sanitaria che sconvolge l’Europa e l’economia mondiale non è, malgrado il suo carattere apparentemente accidentale, uno choc esogeno, ma il segno di una crisi sistemica della logica produttivista del capitalismo contemporaneo e della sua regolazione neoliberale fondata sul trittico: commodification, privatisation, corporatisation. Essa mostra l’incompatibilità strutturale di questo modo d’accumulazione con le condizioni stesse della riproduzione della società, che si tratti degli equilibri ecologici del pianeta o della devastazione delle produzioni dell’umano attraverso l’umano (sistema sanitario, lavoro di cura, educazione, ricerca) che costituiscono le basi materiali di un’economia fondata sulla conoscenza. Nella sua drammaticità, la crisi attuale rivela tutta la miseria del presente, ma anche la ricchezza della possibilità insite nella biforcazione storica cui siamo confrontati. Essa ci impone di pensare non solo a politiche a breve termine per contrastare, nell’urgenza, la spirale che condurrebbe dal crollo della produzione e dei redditi a quello del sistema finanziario, ma anche a riforme strutturali suscettibili d’aprire la strada ad un altro modello d’organizzazione dell’economia e della società. Le stesse questioni fondatrici dell’economia politica sono così rimesse sul tappeto della deliberazione democratica: cosa e come produrre? Per soddisfare quali bisogni? Sulla base di quali regole della distribuzione del reddito tra gli individui e le classi sociali?

È in questo contesto che si iscrive e riprende forza il dibatto sulla proposta di un Reddito sociale di base incondizionato (Rsbi) pensato come uno strumento della transizione verso un modello alternativo e non come un fine a e stesso (spesso si fa confusione al riguardo). Lo scopo di questo articolo è di presentare i pilastri di una proposta emancipatrice del Rsbi, inteso come un reddito primario e un’istituzione del Comune[1], secondo una logica che lo differenzia radicalmente da altre concezioni volte a una logica di semplice razionalizzazione delle politiche di ridistribuzione e di riduzione della povertà.

1. Il Rsbi come strumento d’estensione delle istituzioni collettive del Welfare State e del passaggio da un modello di precarietà subito a un modello di mobilità scelta

Il primo pilastro consiste nell’ integrare il Rsbi in una prospettiva di rafforzamento del processo di risocializzazione dell’economia iniziato nel dopoguerra e proseguito durante la grande ondata di trasformazione sociale degli anni ’70, con le conquiste legate alla riforma Basaglia, al Sistema Sanitario Nazionale[2], a un sistema pensionistico avanzato, al diritto del lavoro, ecc. Che sia ben chiaro: nel nostro approccio, il Rsbi non è in alcun modo destinato a sostituirsi alle istituzioni cardine del Welfare State (pensioni, sistema sanitario, sistema di istruzione, indennità di disoccupazione), tra l’altro già profondamente destrutturate dalla controffensiva neoliberale e dalle politiche d’austerità. Si propone invece di rivitalizzarle e d’adattarle alle nuove forme di lavoro dipendente (diretto e eterodiretto) e autonomo, che oggi ne sono escluse (la maggior parte dei precari non riesce ad accedere a nessun ammortizzatore sociale in vigore). Per far questo, le completerebbe con un dispositivo che si attacchi allo statuto stesso che sta alla base della precarietà della forza lavoro in un’economia capitalistica: lo statuto sociale che, per la maggioranza della popolazione, fa del lavoro salariato la condizione esclusiva d’accesso a un reddito monetario dipendente dalle anticipazioni dei capitalisti concernenti il volume della produzione e quindi del lavoro impiegabile con profitto. La riforma del Rsbi attenuerebbe così l’asimmetria fondamentale che, nell’economia capitalistica di mercato, istituisce la divisione tra capitale e lavoro, cioè tra coloro che non hanno accesso alla moneta che attraverso la vendita della loro forza lavoro e coloro che possono invece accedervi in virtù della proprietà dei mezzi di produzione e del controllo delle istituzioni che detengono il potere di creazione monetaria. Il Rsbi, generalizzando all’insieme della popolazione la possibilità di un reddito dissociato dal lavoro, costituirebbe un primo passo verso la socializzazione della moneta come un bene comune della collettività. Si trova d’altronde qui, malgrado l’inefficacia palese delle politiche di quantitative easing della BCE, la ragione principale e essenzialmente ideologica dell’opposizione alla proposta di una “moneta elicottero” distribuita direttamente all’insieme della popolazione. Il finanziamento per via monetaria, congiuntamente ad altri dispositivi capaci d’incidere sulla distribuzione primaria del reddito a discapito delle rendite e dei profitti, sarebbe infatti un primo passo per instaurare un Rsbi di un livello sostanziale e indipendente dall’impiego. In questa prospettiva, il ruolo del Rsbi consisterebbe nel rinforzare la libertà effettiva di scelta della forza lavoro incidendo sulle condizioni in virtù delle quali, come sottolineava ironicamente Marx nel libro I del capitale[3], il suo proprietario è non solo libero di venderla, ma si trova anche e soprattutto nell’obbligo di farlo. Inoltre, il carattere incondizionato e individuale del Rsbi aumenterebbe il grado di autonomia degli individui rispetto ai dispositivi tradizionali di protezione sociale ancora incentrati sulla famiglia patriarcale e su una figura del lavoro stabile che oggi ha perso la sua centralità storica. Infine, aspetto, di non poco conto, consentirebbe di esercitare uno dei diritti fondamentali di natura economica: il diritto non al lavoro ma alla scelta del lavoro.

Da questa concezione derivano due corollari essenziali per definire la trasformazione socioeconomica di cui il Rsbi potrebbe essere il vettore in rottura con la precarietà e l’iper-produttivismo insiti alla logica neoliberale.

In primo luogo, favorirebbe il passaggio a un modello di mobilità scelta a discapito dell’attuale modello di mobilità subìta sotto la forma di precarietà. Per realizzare questo obiettivo, l’importo monetario del RBI dovrebbe essere sufficientemente elevato per permettere di rifiutare condizioni di lavoro giudicate economicamente e eticamente inaccettabili (idealmente la metà del salario mediano).

In secondo luogo, il Rsbi permetterebbe un’effettiva diminuzione del tempo di lavoro. La garanzia di continuità del reddito permetterebbe infatti a ognuno di gestire i passaggi tra diverse forme di lavoro e di attività riducendo il tempo di lavoro sull’insieme del tempo di vita in modo più efficace che attraverso una riduzione uniforme del tempo di lavoro sulla settimana lavorativa. Le forme di riduzione classiche del tempo di lavoro, come mostra anche l’esempio del passaggio alle 35 ore in Francia, sono infatti sempre meno efficaci in un contesto in cui, per una parte crescente della forza-lavoro, l’orario settimanale non è più oggi un criterio di misura affidabile, e questo nel mentre le frontiere tradizionali tra tempo di lavoro e tempo libero, produzione e consumo, divengono sempre più labili.

2. Mutazioni del lavoro e Rsbi come reddito primario

Il secondo pilastro della nostra concezione consiste ad affermare che il Rsbi non deve essere pensato come una forma assistenziale (come l’attuale reddito di cittadinanza, in Italia o il RSA in Francia) o, comunque, legata alla ridistribuzione del reddito. Il Rsbi deve invece essere pensato e instaurato come un reddito primario, vale a dire legato ad una contribuzione sociale produttiva oggi non remunerata e non riconosciuta. Contrariamente agli approcci dell’automazione algoritmica che profetizzano l’ennesima fine del lavoro, la crisi della norma fordista dell’impiego è lungi dal significare una crisi del lavoro come fonte della produzione di valore o di ricchezza (non mercantile). Al contrario. Il capitalismo bio-cognitivo[4] non è solo un’economia intensiva nell’uso del sapere e delle relazioni sociali, ma costituisce al tempo stesso e forse ancor più del capitalismo industriale, un’economia intensiva in lavoro. Nel capitalismo contemporaneo, la forza produttiva del lavoro ha una dimensione sempre più collettiva e sfugge spesso ai criteri di misura ufficiali, sia per quanto riguarda il tempo effettivo di lavoro che la moltiplicazione di tipologia di attività non assimilabili alle forme canoniche del lavoro salariato. Ne risulta una crisi della rappresentazione convenzionale del lavoro e del “regime temporale” che all’epoca fordista opponeva rigidamente il tempo di lavoro diretto, effettuato durante l’orario ufficiale di lavoro, e considerato come il solo tempo produttivo, e gli altri tempi sociali dedicati alla riproduzione della forza lavoro, considerati come improduttivi[5].

Tre evoluzioni principali mostrano la portata e la posta in gioco di questa trasformazione.

2.1. La centralità del cosiddetto capitale umano e …dei sevizi collettivi del Welfare State

Secondo una tendenza spesso evocata dai teorici della nuova economia fondata sulla conoscenza, quest’ultima avrebbe trovato la sua origine nella dinamica storica che ha visto la parte del capitale chiamato intangibile (educazione, formazione, salute, R&S) superare la parte del capitale materiale e rappresentare ormai il fattore principale della crescita e dell’innovazione. Ora, questo fatto stilizzato ha almeno due significati maggiori indispensabili sia per comprendere la giustificazione teorica del Rsbi sia l’origine della crisi attuale.

Il primo è che la parte più consistente di tale capitale intangibile è in realtà incorporato essenzialmente negli uomini (il cosiddetto capitale umano) vale a dire in un’intellettualità diffusa o in un’intelligenza collettiva. Questo significa che le condizioni della riproduzione e della formazione della forza lavoro sono diventate direttamente produttive e che la fonte della ricchezza delle nazioni si situa nei fattori collettivi della produttività e dell’innovazione collocati a monte del sistema delle imprese: livello generale della formazione della forza lavoro, densità delle sue interazioni su un territorio, qualità dei servizi del Welfare e delle infrastrutture informazionali e di ricerca. Troviamo qui, a questo livello macroeconomico, una prima giustificazione del Rsbi come reddito primario legato a una produttività sociale che rende caduco qualsiasi tentativo di stabilire una corrispondenza tra remunerazione e misura del contributo individuale alla produzione, tra diritto al reddito e lavoro.

Il secondo significato – sistematicamente omesso dagli economisti mainstream – ha anche un’implicazione importante per comprendere le origini e le poste in gioco della crisi attuale. Una parte essenziale della produzione del cosiddetto capitale umano e intangibile dipende infatti dai servizi collettivi assicurati storicamente dal Welfare State. Sono dunque questi i settori motori dell’economia fondata sulla conoscenza di cui si nutre il nuovo capitalismo, e questo tanto dal punto di vista della produzione che della domanda sociale. Tutti questi fattori, e gli interessi molto materiali che essi suscitano, permettono di spiegare la pressione straordinaria esercitata dal capitale per privatizzare o in ogni caso sottomettere alla sua razionalità i servizi collettivi del Welfare State introducendovi, per esempio, nello spirito del New Public Management, la logica della concorrenza, della lean production e del risultato quantificato, preludio all’affermazione pura e semplice della logica del valore e del profitto[6]. La cosiddetta crisi del debito sovrano è stata il pretesto per accelerare queste tendenze. Abbiamo probabilmente qui una delle spiegazioni più logiche dell’irrazionalità macroeconomica e sociale delle politiche d’austerità richieste dai mercati finanziari e dalla UE, politiche che hanno condotto al degrado progressivo dei sistemi pubblici sanitari, d’insegnamento e di ricerca creando una scarsità artificiale di risorse in gran parte responsabile della gravità della crisi sanitaria del coronavirus.

Questa constatazione mostra l’inconciliabilità tra la logica del capitalismo bio-cognitivo e neoliberale e quella di un’economia fondata sulla conoscenza e le produzioni dell’umano attraverso l’umano. Essa ci indica tuttavia anche la via di sviluppo di un modello alternativo che ne farebbe beni comuni inalienabili, forniti al di fuori di una logica di mercato e gestiti secondo principi democratici dalla comunità dei lavoratori e degli utenti.

2.2. Lo sgretolamento dei confini tra lavoro e tempo libero e l’espansione di nuove forme di lavoro produttivo di plusvalore

La seconda evoluzione rinvia al modo in cui lo sviluppo congiunto della rivoluzione digitale e della dimensione cognitiva del lavoro ha profondamente destabilizzato l’unità di tempo e di luogo della prestazione lavorativa propria al rapporto salariale fordista. In questo contesto, il tempo di lavoro dedicato direttamente a un’attività produttiva durante l’orario di lavoro ufficiale, non è più spesso che una frazione del tempo sociale della produzione. Allo stesso tempo, le attività che creano valore e ricchezza assumono forme inedite che i tradizionali standard di rappresentazione del lavoro non riescono a identificare e misurare (privandole spesso di ogni forma di riconoscimento e convalida economica e sociale).

Diversi elementi permettono d’illustrare questi cambiamenti e le contraddizioni che ne scaturiscono.

In primo luogo, per la sua stessa natura, il lavoro cognitivo si presenta come la combinazione complessa di un’attività di riflessione, di comunicazione, di scambio relazionale di conoscenza che si svolge tanto all’interno quanto al di fuori delle imprese e dell’orario contrattuale di lavoro. Di conseguenza, i confini tradizionali tra lavoro e non lavoro si attenuano, e ciò avviene attraverso una dinamica contraddittoria. Da un lato, il tempo libero non si riduce più alla sola funzione catartica di riproduzione del potenziale energetico della forza lavoro. La riproduzione della forza lavoro oggi non avviene più solo all’interno della famiglia, ma assume sempre più connotati sociali. Con riferimento al ruolo femminile, la riproduzione sociale svolge le funzioni di “casalinga del capitale”, come ci ricorda Cristina Morini[7]. Essa, infatti, si articola sempre più su attività di formazione, di auto valorizzazione, di lavoro volontario nelle reti dell’economia sociale e delle comunità di scambio dei saperi che attraversano le differenti attività umane. Queste sono attività nelle quali ogni individuo trasporta il suo sapere da un tempo sociale all’altro, accrescendo il valore d’uso individuale e collettivo della forza lavoro, che – sic rebus stantibus – il capitale è in grado di tradurre poi in valore di scambio e/o valore finanziario. La tendenza intrinseca del lavoro cognitivo a rendere porose le frontiere tra lavoro e non lavoro è inoltre moltiplicata dalla rivoluzione informatica. Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione indeboliscono notevolmente i vincoli spaziali, temporali e tecnici propri allo svolgimento dell’attività lavorativa e all’uso dei mezzi di produzione nell’era fordista. Questa dinamica ha una natura profondamente ambivalente. Favorisce sia lo sviluppo di nuove forme di messa al lavoro e di cattura del valore da parte delle imprese sia lo sviluppo di forme di cooperazione produttiva e di scambio al di fuori della logica di mercato, come nell’esempio dei commons del software libero e della conoscenza. Ne risulta una tensione crescente tra la tendenza all’autonomia del lavoro e il tentativo del capitale di assoggettare l’insieme dei tempi sociali alla logica eteronoma della valorizzazione del capitale.

Questa tensione contribuisce a spiegare la stessa destabilizzazione dei termini tradizionali dello scambio capitale-lavoro salariato. Nel capitalismo industriale, il salario era la contropartita dell’acquisto da parte del capitale di una frazione di tempo umano ben determinata messa a disposizione dell’impresa. Il capitalista, doveva allora occuparsi, in questo quadro, delle modalità più efficaci dell’utilizzo di questa frazione di tempo pagato al fine di estrarre dal valore d’uso della forza lavoro la massima quantità di plusvalore. Nella fabbrica fordista, grazie alla rigida prescrizione dei tempi e delle mansioni, il capitale sembrava aver stabilito una chiara separazione tra tempo di lavoro e tempo libero. Ma tutto cambia allorché il lavoro, diventando sempre più cognitivo e relazionale, non può più essere prescritto e ridotto a un semplice dispendio di energia effettuato in un tempo determinato. Il capitale non solo dipende di nuovo dalla conoscenza dei lavoratori, ma deve ottenere una mobilitazione attiva della soggettività e dell’insieme dei tempi di vita dei lavoratori. Come per la creazione del valore, anche i dispositivi manageriali di controllo del lavoro si spostano sempre più a monte e a valle dell’atto produttivo diretto. La prescrizione taylorista del lavoro cede il posto alla prescrizione della soggettività e all’obbligo del risultato. In questo contesto, è ormai il lavoro che deve spesso assumere il compito di trovare i mezzi per raggiungere gli obiettivi fissati dalla direzione dell’impresa, spesso in modo volutamente irrealistico. L’obiettivo è quindi quello di incoraggiare i lavoratori ad adattarsi pienamente agli obiettivi dell’azienda e, allo stesso tempo, d’interiorizzare come una colpa l’incapacità di raggiungerli pienamente. Sotto la pressione congiunta del management attraverso lo stress e la precarietà, assistiamo così ad un’amplificazione del dominio della sfera del lavoro sulla vita degli individui che ormai invade aree cruciali per il loro equilibrio psico-fisico generando nuove forme di “sofferenza sul lavoro”. Il corollario di questa evoluzione è ovviamente un notevole aumento del numero di ore straordinarie, che spesso non vengono riconosciute, contabilizzate e remunerate, secondo una logica che ricorda quanto Marx chiamava i meccanismi d’estorsione del plusvalore assoluto[8].

Un altro elemento che contrassegna questa dislocazione dei confini tra tempo libero e tempo di lavoro riguarda il modo in cui i confini delle imprese tendono sempre più a integrare il lavoro gratuito dei consumatori e degli utenti. Si tratta di quanto nella letteratura economica e sociologica viene analizzato attraverso i concetti di Free Digital Labour e quello, più ampio, di lavoro del consumatore (o del prosumer). Con il concetto di Free Digital Labour, forgiato per la prima volta da Tiziana Terranova in un articolo del 2000[9], intendiamo il lavoro gratuito e apparentemente libero che una moltitudine di individui svolge attraverso e su Internet, spesso inconsapevolmente, a beneficio dei grandi oligopoli di Internet et delle data industries. Nel modello delle piattaforme dei motori di ricerca e dei social network del tipo Google e Facebook, ad esempio, tutto sembra accadere come se l’impresa fosse riuscita a far sottoscrivere agli utenti una sorta di contratto, iscritto implicitamente nelle condizioni d’uso, che può essere riassunto come segue, estendendo un adagio usato per il pubblico televisivo: “se è gratuito, è perché in realtà siete voi non solo il prodotto, ma anche i lavoratori che, grazie alla vostra attività collettiva, in apparenza libera e giocosa, mi permettete di produrvi e vendervi come una merce (fornendomi i dati, i contenuti e, attraverso le economie di rete, le dimensioni del mercato necessarie per attirare gli inserzionisti)[10]. Conclusione: nella misura in cui questo valore non è “ridistribuito” agli utenti di Internet[11], possiamo considerare che si tratta di lavoro sfruttato, sia nel senso della teoria marxiana del valore-lavoro[12], sia della teoria neoclassica della distribuzione, poiché la retribuzione di un lavoro gratuito è per definizione inferiore alla sua produttività marginale. Si trova qui la soluzione del mistero, inconcepibile ai tempi del fordismo, che spiega perché imprese come Google e FaceBook possano oggi occupare i primi posti nel capitalismo mondiale in termini di capitalizzazione borsistica e di redditività, pur mobilitando una massa quasi insignificante di lavoratori dipendenti.

Inoltre, come dimostrato da numerose ricerche[13], il lavoro gratuito dei consumatori non si limita al solo Digital Labor, ma comprende uno spettro di attività molto più ampio. L’esternalizzazione ai clienti di intere fasi del ciclo produttivo precedentemente svolte all’interno dell’azienda è infatti una pratica comune alla maggior parte delle grandi aziende sia nella vecchia che nella nuova economia. Si tratta di una logica di messa al lavoro dei prosumer che può spaziare da mansioni semplici e/o ripetitive (acquisto di un biglietto online, registratori di cassa “self-service”, montaggio di un mobile), ad attività più complesse di progettazione e concezione del prodotto. Comunque sia, il ruolo crescente del lavoro produttivo del consumatore nella catena di creazione del valore porta un attento osservatore di questi fenomeni, come Guillaume Tiffon[14], a farne la base stessa di una nuova teoria della creazione di valore e dello sfruttamento.

2.3. Nuove forme di cooperazione del lavoro: forza e limiti del modello socio-economico fondato sui commons[15]

Lats but not least, un ultimo elemento, forse il più importante per una riconsiderazione del concetto di lavoro produttivo e per pensare la società del “dopo-crisi”, riguarda lo sviluppo dei commons e dei beni comuni. Esso trova le sue radici nella capacità del lavoro cognitivo di auto-organizzare la produzione dando luogo alla sperimentazione di molteplici forme alternative di cooperazione. Con il concetto di Comune intendiamo un modello produttivo organizzato secondo principi alternativi sia al pubblico sia al privato, sia alla gerarchia sia al mercato, come meccanismi di coordinamento della produzione e dello scambio. Questo modello non proprietario e non gerarchico produce beni comuni per la collettività e si rivela spesso più efficiente di quello delle grandi imprese, sia in termini di dinamismo dell’innovazione che di qualità dei beni e dei servizi prodotti. I casi emblematici del software libero, dei makers, delle piattaforme cooperative, di numerosi centri sociali all’immagine dei beni comuni autogestiti come l’Asilo Filangieri, non sono che la punta più visibile di un’economia del Comune che abbraccia tutti i settori produttivi, mobilitando il lavoro di una moltitudine di cittadini e lavoratori. Come ha evidenziato la crisi attuale, questo modello si rivela d’altronde spesso più reattivo del Pubblico e del Privato, per rispondere a bisogni sociali e sanitari urgenti, come la produzione di mascherine e di ventilatori, o ancora l’organizzazione di forme di sostegno alle persone senza domicilio. Esso permetterebbe inoltre di promuovere una risocializzazione territoriale della produzione fondata su circuiti corti e ecologicamente sostenibili.

Nonostante la sua efficienza economica e sociale, una delle principali debolezze che ostacola lo sviluppo del modello del Comune e ne mette a repentaglio l’autonomia è proprio la mancanza di risorse e di tempo di cui soffrono i suoi animatori. La natura non mercantile, non proprietaria e volontaria della loro attività obbliga infatti i commoners a ricercare un reddito nella sfera economica ufficiale del salariato e dell’economia di mercato. Di fronte al monopolio della logica burocratico-amministrativa dello Stato e a quello dell’economia capitalistica di mercato, non esiste infatti ancora un meccanismo istituzionale specifico all’economia del Comune in grado di garantire la convalida sociale e la sostenibilità economica di questo modello produttivo. L’istituzione di un reddito primario di base incondizionato distribuito su base forfettaria potrebbe essere un primo passo per compensare questa mancanza e riconoscere la natura produttiva del lavoro svolto nell’economia dei commons

Conclusione

In conclusione, una delle principali conseguenze dell’analisi delle mutazioni del lavoro nel capitalismo contemporaneo è di condurci a ripensare globalmente le regole della distribuzione del reddito e il concetto stesso di lavoro produttivo. In particolare, essa ci fornisce due principali insegnamenti che perorano per l’instaurazione di un Rsbi.

In primo luogo, dal momento che la cooperazione sociale produttiva si estende sull’insieme dei tempi sociali e supera il tempo di lavoro ufficiale remunerato, si può ipotizzare che il lavoro nel capitalismo cognitivo sia sempre, almeno in una certa misura, un lavoro sotterraneo, invisibile, parte di un’economia non retribuita. Va anche notato che questa conclusione costituisce già è di per sé una risposta alle critiche “etiche” del diritto a un Rsbi condotto in nome dell’ideologia del lavoro salariato: la presunta assenza di una contropartita lavorativa da parte del beneficiario. Infatti, nonostante il suo contributo produttivo, questo lavoro sociale non è retribuito perché non appartiene o sfugge ai criteri tradizionali di misura e di rappresentazione del lavoro e della ricchezza fondati sulla norma del rapporto salariale. Di conseguenza, la controparte in termini di lavoro esiste già. Quanto manca, è invece la sua controparte in termini di reddito[16].

In secondo luogo, la proposta di Rsbi, in quanto reddito primario, richiede un riesame del concetto di lavoro produttivo condotta da un duplice punto di vista.

Il primo rinvia alla nozione di lavoro produttivo pensata, secondo la tradizione dominante in seno alla teoria economica, come il lavoro che produce merci e profitti. In questo senso, il Rsbi corrisponderebbe al riconoscimento sociale e, almeno in parte, alla remunerazione collettiva di questa dimensione sempre più collettiva e “gratuita” di un’attività di produzione di valore aggiunto che si estende sull’insieme dei tempi di vita e si traduce in uno squilibrio distributivo a discapito del lavoro e a vantaggio delle rendite e dei profitti.

Il secondo aspetto trova il suo esempio emblematico nell’economia dei commons e si riferisce al concetto di lavoro produttivo pensato, nel suo senso antropologico, come il lavoro che crea valori d’uso e una ricchezza che sfugge alla logica della merce e del rapporto salariale subordinato al capitale. Contro un tabù dominante in seno alla teoria economica, si tratta insomma di riconoscere che il lavoro può essere improduttivo per il capitale, ma produttivo di forme di ricchezza sociale fuori mercato e quindi dare origine a un reddito che lo convalida socialmente attraverso una remunerazione collettiva e forfettaria. Spingendo questo ragionamento ancora più lontano, si potrebbe addirittura suggerire che, partendo da una base incomprimibile, l’evoluzione del montante monetario del Rsbi potrebbe essere periodicamente l’oggetto di una contrattazione collettiva che riunisca i rappresentati dell’insieme della forza lavoro e le cosiddette parti sociali. Il suo montante potrebbe essere inoltre riversato in una cassa comune del Rsbi gestita democraticamente dai lavoratori, ispirandosi del modello che aveva inizialmente caratterizzato la creazione della Sécurité sociale in Francia secondo una logica vicina a quella di un’istituzione del comune.

In definitiva, il Rsbi si presenterebbe al tempo stesso come un’istituzione del Comune e un primo livello della distribuzione primaria tra redditi da lavoro, profitto e rendite. La sua instaurazione favorirebbe, congiuntamente alla riappropriazione democratica dei servizi collettivi del Welfare, la transizione verso un modello di società ecologicamente sostenibile e fondato sul primato della produzione di beni comuni per la collettività e di forme di cooperazione alternative tanto al pubblico quanto al mercato nei loro principi di organizzazione.

Appendice: reddito e Covid-19 in Italia

In Italia, l’emergenza sanitaria, pur nella tragedia, ci dà una grande opportunità: poter iniziare ad avviare un percorso di riforma strutturale del sistema di welfare italiano in una direzione opposta a quella che oggi si sta percorrendo[17].

Il tema del reddito è diventato, in questa situazione di parziale lockdown, un tema centrale di politica economica. Nel 2018, in Italia, si stimavano oltre 1,8 milioni di famiglie in povertà assoluta (con un’incidenza pari al 7,0%), per un totale di 5 milioni di individui (incidenza pari all’8,4%). Le famiglie in condizioni di povertà relativa nel 2018 erano, invece, stimate pari a poco più di 3 milioni (11,8%), per un totale di individui di quasi 9 milioni (15,0%) (dati Istat[18]). Inoltre, l’Eurostat stimava nel 2016 che in Italia poco meno del 30% (28,7%) della popolazione era a rischio di povertà[19].

Nel gennaio 2019, il governo Conte I, a guida giallo-verde, ha approvato la legge che istituisce il reddito di cittadinanza, per contrastare tale situazione. A più di un anno di distanza, secondo i dati dell’Osservatorio Inps sul reddito e la pensione di cittadinanza: “da aprile 2019 ad oggi, relativamente agli 1.097.684 nuclei le cui domande sono state accolte, 56.222 nuclei sono decaduti dal diritto. I nuclei restanti (1.041.462) sono costituiti per 915.600 da percettori di Reddito di Cittadinanza, con 2.370.938 di persone coinvolte, e per 125.862 da percettori di Pensione di Cittadinanza, con 142.987 persone coinvolte.”[20]

È facile constatare che tale misura risulta insufficiente, visto che riesce a sostenere il reddito di meno della metà dei solo poveri assoluti. Questa situazione, già di per sé insufficiente, rischia di peggiorare ulteriormente.

Con i primi provvedimenti del governo (decreto di marzo 2020 “Cura Italia”), per una manovra pari a 25 miliardi, la cifra messa a disposizione per sostenere in modo diretto il reddito è pari a poco meno di 8 miliardi di euro (7,938 miliardi, pari al 31,9% del totale), di cui 1,33 miliardi di euro a sostegno del trattamento ordinario di integrazione salariale e assegno ordinario, 3,2 miliardi di euro per la cassa integrazione in deroga, 1,2 miliardi di euro per il congedo e indennità per i lavoratori dipendenti del settore privato, i lavoratori iscritti alla Gestione e i lavoratori autonomi, 2,2 miliardi di euro per le indennità ai lavoratori autonomi iscritti alle Gestioni speciali dell’Ago (commercianti e piccoli artigiani).

L’indennità ammonta per il solo mese di marzo a 600 euro esentasse. Occorre notare che secondo l’Istat la soglia media di reddito per la sopravvivenza ammonta a 750,10 euro mensili.

Si è scelto quindi di erogare il sostegno al reddito sulla base della tipologia contrattuale e della condizione professionale. Il ricorso allo strumento della cassa integrazione implica la già esistenza di un rapporto di lavoro stabile in essere (in totale 4,6 miliardi di euro, pari al 58,4% della somma stanziata a sostegno del reddito). Il reddito da Cassa Integrazione è pari all’80% dello stipendio. La Uil[21] ha calcolato che in media lo stipendio con la cassa integrazione è di poco superiore ai 940 euro netti, prendendo uno stipendio medio mensile di 1.316 euro netti.

Per chi non è dipendente con cassa, rimane l’indennità di 600 euro esentasse. Permane tuttavia il rischio che una serie di condizioni lavorative autonome e precarie non riescano ad accedere all’indennità, a meno che non siano iscritti a determinate casse previdenziali (come la gestione separata Inps o la gestione speciale dell’Ago, Assicurazione Generale Obbligatoria, sempre Inps).

Inoltre, bisogna tener conto degli effetti del blocco, seppur parziale, dell’attività economica e della libertà di movimento, sul mancato rinnovo dei contratti a tempo determinato in scadenza e degli effetti sul lavoro nero, che per molte persone rappresenta l’unica fonte di reddito.

Al momento attuale, più di 3,6 milioni di lavoratori autonomi, a partite Iva e parasubordinati hanno chiesto l’indennizzo, che, molto probabilmente verrà reiterato anche per i mesi seguenti e alzato a forse 800 euro[22]. Al 10 aprile l’Inps ha, invece, ricevuto 198mila domande di Cigo per 2,9 milioni di lavoratori e 100mila domande per il Fis (Fondo di incremento salariale) per 1,7 milioni di persone. Viene così ben rappresentata la composizione del lavoro per i redditi più bassi, dove la figura precaria, spesso non salariata, ha oramai lo stesso peso di quella salariata più stabile.

Le decisioni prese in materia di sostegno al reddito, oltre a confermare la centralità dell’impiego e della condizione professionale come dispensatore di reddito, continuano a perseguire quella filosofia di intervento in materia di politiche di sicurezza sociale che ha caratterizzano gli ultimi decenni: la filosofia della toppa al buco. Ogni volta che si presenta una nuova figura lavorativa precaria (ieri, la formazione professionale, poi i co.co.co, poi i voucher, poi gli interinali, oggi i rider, ecc.) si aggiunge, con molto ritardo, un ammortizzatore sociale ad hoc (dis-coll, Aspi, ora Naspi, ecc.). Questa stessa filosofia pervade oggi le politiche di sostegno al reddito per far fronte all’emergenza economica e sanitaria. Invece di un’unica misura di reddito di base, abbiamo il Reddito di Cittadinanza (insufficiente) per chi ha requisiti, il reddito di emergenza (che dovrebbe riguardare tutte le famiglie che non hanno accesso agli ammortizzatori fin qui previsti, che dovrebbe entrare in vigore con il decreto di aprile), poi si parla di reddito di quarantena[23], oggi di reddito di cura per le lavoratrici della riproduzione sociale[24]. Vi sono proposte di casse a sostegno del reddito degli agricoltori. Ancora una volta, le politiche di sostegno al reddito rimangono condizionate alla condizione lavorativa e all’attività professionale. Con l’effetto, che si crea burocrazia, distorsioni e iniquità.

Proprio sulla base del ragionamento svolto in questo articolo, crediamo necessario, invece, cominciare a riflettere su come, in modo concreto, implementare una misura strutturale di reddito incondizionato, a partire dai soggetti più deboli, poveri, inoccupati, migranti, precari, così da permettere di avere le risorse necessarie per fronteggiare inizialmente la situazione di emergenza ma poi diventare permanente una volta terminata l’emergenza. Riteniamo che la via migliore sia partire dall’attuale legge sul RdC (Legge n. 5/2019), aumentando la possibilità di accesso e eliminando qualsiasi forma di condizionalità e di obbligo comportamentale, utilizzando l’expertise maturato dall’Inps nell’erogazione. Ed è in questa direzione che si è mossa la petizione del Bin-Italia (Basic Income Network)[25]. Tale misura dovrebbe essere valida per tutti coloro, indistintamente, che non possono accedere ad altre forme di ammortizzatori sociali che prevedono un reddito superiore alla soglia di sopravvivenza mensile calcolata dall’Istat pari a 750 euro, cifra che dovrebbe rappresentare il livello minimo del reddito di base (e non l’una tantum di 600 euro, come ora).

L’obbiettivo è favorire un processo di convergenza verso un sostegno permanente al reddito basato, su due canali: ammortizzatore sociale modello Cassa Integrazione legato alla condizione lavorativa per chi ha i parametri per un assegno > 750 euro, e reddito di base incondizionato di 750 euro, per tutti gli altri, a prescindere dalla condizione professionale e allargata a tutti i residenti (migranti compresi).

Crediamo che solo muovendoci in questa direzione si possano creare le condizioni per ripensare un nuovo modello di welfare, quel modello che dovrebbe supportare l’economia dei commons (Commofare[26]), unico vero antidoto e vaccino alla crisi attuale.


[1] Con il concetto di Comune non s’intende qui evidentemente un livello dell’amministrazione pubblica locale, ma, nella scia delle ricerche iniziate dal premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom, la riscoperta della vitalità di un paradigma alternativo sia al pubblico sia al privato come principio d’organizzazione democratica della produzione e della società.

[2] Su questo punto cf. in particolare, la brillante analisi di Chiara Giorgi (2020) delle radici politiche del sistema sanitario nazionale. Giorgi Ch. (2020), “La Sanità da riscoprire. Le radici politiche del servizio sanitario nazionale”, Euronomade, https://www.euronomade.info/?p=13126.

[3] Marx, K., (1974), Il Capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma.

[4] Con il termine capitalismo bio-cognitivo intendiamo definire l’attuale sistema economico contemporaneo, imperniato in prevalenza su processi di accumulazione e valorizzazione che tendono a basarsi sullo sfruttamento delle economie di apprendimento e di relazione. In altre parole, delle facoltà cognitive e vitali degli individui (il bios).

[5] Soprattutto negli ultimi anni, ai tempi della rivoluzione tecnologica algoritmica, assistiamo ad un ruolo sempre più centrale nei processi di valorizzazione capitalistica delle attività di gestione del tempo libero, della riproduzione sociale e del welfare. Sono settori, questi, che presentano oggi il maggior valore aggiunto per addetto, anche perché la base produttiva è spesso costituita dalla vita stessa degli individui, che tende sempre più a essere messa direttamente a valore, senza passare per l’intermediazione del rapporto di lavoro e, soprattutto, non remunerata.

[6] Per approfondimenti, si veda Fumagalli A., Morini C., Una vita al lavoro: trasformazioni del Welfare e pratiche di Commonfare (Welfare del Comune), in Sociologia del lavoro, n. 155, pp. 156-175, 2019, e Vercellone C., Crisi e istituzioni del welfare. Nuove note sul capitalismo cognitivo, in Pasquinelli M., (a cura di), Gli algoritmi del capitale, 2014. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune, Ombrecorte, Verona, pp. 147-157.

[7] C. Morini, Lavorare la vita: attualità della riproduzione sociale, Intervento al seminario UniNomade di Napoli, 23-24 giugno 2012; www.uninomade.org/lavorare-la-vita-attualita-della-riproduzione-sociale/ .

[8] La stessa logica spiega perché il processo di dequalificazione della forza lavoro proprio al capitalismo industriale sembra aver ormai ceduto il passo a un massiccio fenomeno di declassamento, dove con questo concetto si designa una svalorizzazione delle condizioni di remunerazione e di impiego rispetto alle qualificazioni (certificate dal diploma) e alle competenze effettivamente messe in opera dal lavoratore nello svolgimento della propria attività lavorativa. Vedi C. Vercellone, Connaissance et rapport capital/travail dans la crise du capitalisme, in Les Possibles, Été 2015, n°07, pp. 1-7.

[9] T. Terranova, Free Labor. Producing Culture for the Digital Economy, in Social Text, 2000, Vol. 18, n. 2, pp. 33-58.

[10] C. Vercellone, Les plateformes de la gratuité marchande et la controverse autour du Free Digital Labor : une nouvelle forme d’exploitation? in Revue ouverte d’ingénierie des systèmes d’information, Vol 1 – Numéro 2, pp. 1-17, 2020, www.openscience.fr/Les-plateformes-de-la-gratuite-marchande-et-la-controverse-autour-du-Free 

[11] Se non in proporzioni estremamente ridotte, ad esempio per alcuni video pubblicati su YouTube o alcune pagine di FaceBook con un livello di audience e reputazione particolarmente elevati.

[12] C. Fuchs, Dallas Smythe today: The audience commodity, the digital labour debate, Marxist political economy and critical theory, 2012; TripleC: Communication, Capitalism & Critique 10(2): 692–740. www.triple-c.at/index.php/tripleC/article/view/443″.

[13] Al riguardo, per la Francia si veda Dujarier M.-A., Le travail du consommateur, Paris, La Découverte, 2008; Tiffon G., La mise au travail des clients, Paris, Economica, 2013; M. Simonet, Travail gratuit: la nouvelle exploitation, Textuel, Paris,2018. Per l’Italia, si veda R. Curcio, Il consumatore lavorato, Sensibile alle foglie, Roma, 2005; V. Codeluppi, Dalla produzione al consumo. Processi di cambiamento delle società contemporanee, Franco Angeli,2010, Milano.

[14] G. Tiffon, La mise au travail des clients, Paris, Economica, 2013.

[15] Sui concetti di comune, commons, beni comuni cf. A. Fumagalli, Economia politica del comune, Derive e Approdi, 2017, Milano; C. Vercellone, F. Brancaccio, A. Giuliani, P. Vattimo, Il comune come modo di produzione. Per una critica dell’economia política, Ombre Corte, Verona, 2017. Per una definizione più giuridica, cf. Mattei, U., Beni Comuni. Un manifesto, Laterza, Bari, 2011e Rodotà S., I beni comuni. L’inaspettata rinascita degli usi collettivi, La scuola di Pitagora editrice, 2018, Napoli.

[16] J.-M. Monnier, C. Vercellone, The Foundations and Funding of Basic Social Income as Primary Income. A Méthodological Approach, in Basic Income Studies, Vol. 9, n°2, pp. 59-77, Decembre. 2014.

[17] Vedi A. Fumagalli, La vendetta del welfare in Effimera, 16 marzo 2020: http://effimera.org/la-vendetta-del-welfare-di-andrea-fumagalli/

[18] https://www.istat.it/it/archivio/231263

[19] https://ec.europa.eu/eurostat/news/themes-in-the-spotlight/poverty-day-2016

[20] www.inps.it/nuovoportaleinps/default.aspx?itemdir=53327

[21] www.uil.it/documents/12RapportoUILCIG.pdf

[22] Al momento in cui scriviamo (20 aprile) il decreto di aprile non è stato ancora varato dal governo.

[23] Il reddito di quarantena nasce da una proposta fatta dall’Adl (Associazione difesa lavoratori) veneta come misura di ammortizzatore sociale temporaneo, comunque legata alla condizione lavorativa. Il concetto poi si estende sino a rappresentare una misura di reddito che prescinde dall’attività lavorativa, ma comunque caratterizzata da temporaneità (come dice il nome).

[24] S. Barca, “Dentro e oltre la pandemia: pretendiamo il reddito di cura e un Green New Deal femminista”, Eironomade, 4 aprile 2020: https://www.euronomade.info/?p=13211. Per un’analisi critica, si veda C. Morini, “Una esperienza vissuta e radicata nei corpi” in Il Manifesto, 11 aprile 2020: https://ilmanifesto.it/una-esperienza-vissuta-e-radicata-nei-corpi/

[25] https://secure.avaaz.org/it/community_petitions/al_governo_ed_al_parlamento_italiano_estendere_il_reddito_di_ cit-tadinanza_se_non_ora_quando_/ 

[26] Per approfondimenti si veda General Intellect, “Prolegomeni a un Manifesto per il Commonfare”, in A. Fumagalli, G. Giovannelli, C. Morini (a cura di), La rivolta della cooperazione. Sperimentazioni sociali e autonomia possibile, Mimesis, Milano, 2018, pp. 25-34.

[*] Andrea Fumagalli,  Professore d’economia all’Università di Pavia
Carlo Vercellone, Professore ordinario in scienze dell’informazione e della comunicazione all’Université de Paris 8 Vincennes-Saint-Denis

Questo articolo è stato pubblicato su Questione Giustizia il 28 aprile 2020.

Download this article as an e-book