di GIROLAMO DE MICHELE
Cosa si aspetta da #NextGenerationItalia Priorità alla scuola (Pas) è quasi banale: si aspetta che venga data priorità alla scuola. Una scuola in presenza e in sicurezza, dotata di presidi sanitari per portare la sanità laddove sono cittadine e cittadini; stabile e stabilizzata con l’assunzione dei precari storici, perché è nell’acqua alta, cioè nel vivo della didattica, che si impara a nuotare, non nei corsi di formazione; in cui ci siano spazi adeguati alla didattica, che le classi pollaio non sono; inserita in un territorio che, a partire dai trasporti, garantisca la sicurezza in condizioni di pandemia, e la dignità in condizioni normali, che non è tutelata in bus e treni locali stipati come carri bestiame.
Su questo, Pas ha elaborato, davanti al Piano nazionale ripresa e resilienza del governo Conte, un documento critico, che quantifica voce per voce le risorse necessarie per la riduzione delle classi, l’adeguamento e messa in sicurezza degli edifici, l’assunzione di personale necessario alla riduzione del sovraffollamento e al dimensionamento dei plessi, e l’adeguamento dei salari. Un investimento di circa 38,2 miliardi, che produrrebbe più di 206mila posti di lavoro, rispetto al quale il Piano di Conte proponeva solo 28,5 mld, dei quali la metà erano nei fatti finanziamenti alle imprese, a vario titolo.
Da Conte a Draghi cosa cambia? Ben poco, e quel che c’è di nuovo è peggiore rispetto al precedente Piano. Sul piano contabile, da Conte a Draghi il settore istruzione perde 1,51 miliardi; un taglio mascherato col volgare trucco dello spostamento dei 3,90 mld per la messa in sicurezza degli edifici scolastici nella voce “istruzione” (in precedenza era inserita in “rivoluzione verde e transizione ecologica”), dove però erano 6,37 mld: quindi 2,47 in meno. In totale, per la messa in sicurezza, la costruzione di nuovi spazi e l’adeguamento tecnologico ci sono circa 6 miliardi: meno di un terzo del necessario, stando ai conti di Pas. Scorrendo le voci, nulla che lasci pensare all’attuazione di presidi sanitari – infermerie scolastiche con personale medico-infermieristico – nel bilancio Istruzione, men che meno nella “missione” Salute (una delle sei previste nel Piano): dove la versione definitiva attesta un taglio di oltre 4 mld rispetto alla bozza presentata alle Camere a marzo.
Dal dettaglio al quadro generale, quale scuola è prefigurata dal Piano Draghi? Per comprenderlo bisogna partire dall’assenza di qualsivoglia critica dei reali processi che hanno determinato la crisi pre-Covid accresciuta dalla pandemia: le passate politiche scolastiche sono stigmatizzate solo per il taglio delle risorse, non per i loro disegni intenzionalmente regressivi di penalizzazione dell’istruzione pubblica. Così come la crisi occupazionale, in particolar modo dell’occupazione femminile, giovanile e meridionale: il Piano Draghi-Von der Leyen non prova neanche a sfiorare la natura classista e sessista della società e l’estrema precarizzazione del lavoro, in un perverso intreccio fra finanziarizzazione e patriarcato giustificato dalla “oggettività” degli algoritmi; così il sottosviluppo meridionale viene considerata una anomalia dello sviluppo capitalistico, e non una circostanza ad esso funzionale. Il capitale finanziario è concepito come la cura, invece che come malattia: da qui l’estensione dei criteri di mercato al settore scuola (come pure a sanità e pubblica amministrazione), secondo i dettami della Teoria del capitale umano (tanto cara al ministro Bianchi, come dimostra il suo libretto Nello specchio della scuola, edito da Il mulino) e del New public management. Emblematica è l’obbligatorietà dei test Invalsi e Ocse/Pisa, a dispetto delle voci critiche che, a livello internazionale, si levano da anni sull’attendibilità di queste rilevazioni, dai quali esiti numerici dovrebbero dipendere i provvedimenti in materia di istruzione.
Più in generale, si assiste alla ripresa di un luogo comune ampiamente discutibile e mai dimostrato, che vuole la disoccupazione essere causata dalla mancata acquisizione delle competenze di base (soft skills) nelle scuole: come se compito del sistema scolastico fosse la realizzazione di un apprendistato diffuso finanziato con denaro pubblico (un “vivaio di Confindustria”, per usare le giuste parole di Tullio De Mauro), e non la formazione di cittadine e cittadini capaci di pensare con la propria testa. È peraltro degno di nota che sul tormentone della mancanza di competenze come causa della disoccupazione (posta per accostamento di dati, senza fornire una qualche relazione di causa-effetto) era basato il rapporto di McKinsey – agenzia di cui si è ipotizzato un ruolo di consulenza nella stesura del Pnrr – Studio ergo lavoro del 2014, del quale si servì Renzi per la Buona scuola.
Questa concezione della scuola che non apre le menti, ma le indirizza nel collo di bottiglia di un mondo del lavoro accettato acriticamente per quel che è, con le sue ingiustizie e discriminazioni, richiede una profonda riforma del sistema scolastico, delle sue finalità e modalità di attuazione. Riforma che, prefigurata nel Rapporto finale della commissione di esperti presieduta da Patrizio Bianchi ed esposta dallo stesso Bianchi nel suo libro, è espressamente prevista: finalizzazione della scuola all’impresa, rapporti col territorio, superamento delle classi, digitalizzazione della didattica, revisione dei criteri di assunzione e carriera per merito e valutazione, aggiornamento permanente. Riduzione del numero di alunne e alunni e stabilizzazione del personale sono di fatto impediti da questa riforma, alla cui realizzazione in tempi rapidissimi (entro il 2021) è connesso il finanziamento del Pnrr: una sorta di spada di Damocle sulla testa di chi vorrà esprimersi in direzione ostinata e contraria all’aziendalizzazione dell’istruzione. Nel frattempo, non è dato attendersi altra scuola alla ripresa settembrina se non quella delle classi pollaio e della precarizzazione diffusa: senza alcuna garanzia di messa in sicurezza, e quindi della didattica in presenza, nell’ipotesi, tutt’altro che peregrina, di un’ulteriore ondata autunnale del virus.
Quasto articolo è stato pubblicato sul n. 17/2021 di “Left”