di MARCO ASSENNATO. «In occasione del cinquantenario del Maggio 68», Alain Badiou prende la parola per rompere la doppia morsa della celebrazione ebete e della condanna all’oblio. In questione sono tanto «l’idea vaga che troneggia in testa agli articoli-anniversari» – il 68 come ribellione di costume, «ultima utopia», «danza della storia a suono di rock» – quanto l’immagine del 68 come premessa dell’individualismo neoliberale contemporaneo.
«L’attualità del Maggio 68» si disegna invece come «riserva di coraggio» da scagliare contro due dispositivi di accecamento contemporanei: la morale del capitale umano, del merito e del successo atomizzante, da una parte; e dall’altra le prediche apocalittiche e reazionarie secondo cui «è più semplice ormai immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo».

La pubblicazione di questo piccolo pamphletRibellarsi è giusto! L’attualità del Maggio 68 (pp. 112, € 14) per le Edizioni Orthotes è quindi opportuna e coraggiosa: è una bella immagine questa del filosofo che rivendica una carica di speranza contro tanti corvacci stanchi.
Si tratta insomma di tornare ad interrogare l’evento, innanzitutto per restituirgli la sua intrinseca complessità. Il 68 non è stato un fenomeno unitario, piuttosto una molteplicità eterogenea. «Ci sono stati tre maggio 68», scrive Badiou, a volte in polemica tra loro, spesso effimeri, e tuttavia certamente potenti: il maggio studentesco – che ha segnato una forma radicale di critica alla democrazia rappresentativa; quello operaio – scosso da «scioperi selvaggi» e «insubordinazione» alle istituzioni tradizionali della sinistra storica, tanto socialista quanto comunista; e quello libertario, deposito prezioso di un profondo rinnovamento delle pratiche teoriche, artistiche e culturali. Ma, aggiunge Badiou, fornendo così una torsione decisiva al suo pensiero, in «questa effervescenza contraddittoria» la componente «essenziale» è costituita da «un quarto Maggio 68, che prescrive il nostro avvenire».

C’è un’aria di rinnovamento che percorre queste pagine badiousiane, come se il filosofo tendesse a fare i conti con il reale. Se fino alla sua celebre riscrittura della Repubblica di Platone, Badiou aveva tolto di mezzo ogni possibilità di concretare il kairòs in qualsivoglia cristallizzazione storica osservabile, questo suo 68 si vuole invece come evento esemplificato. Di più: esso si inscrive in una genealogia – le lotte operaie che attraversano la Normandia e le periferie francesi lungo il 1967 – e si stende nei due decenni successivi. «L’evento – nota correttamente Alberto Destasio nella postfazione del volume – non è sciolto dal plesso con la storia, non è incondizionato. Ogni evento è storico». Più che esaltarne l’emergenza, si tratta insomma di misurarlo con «la tenacia delle sue conseguenze». Il quarto Maggio è quello che decreta la fine delle vecchie forme della politica e interroga le sue nuove e necessarie dimensioni: «che cosa è la politica» oggi? Quale forma organizzativa dobbiamo inventare, dentro la crisi della democrazia, per «farla finita con le leggi del profitto»? Ecco l’eredità viva del Maggio francese.
Tuttavia, giunti al punto massimo di tensione, il platonismo di Badiou torna pesantemente e precipita indietro il percorso svolto. Di nuovo, manca radicalmente ogni idea della produzione, tanto dei beni quanto dei soggetti. Anzi: è proprio a partire dalla completa obliterazione di ogni «agente soggettivo» che si manifesta la «distensione nichilista» di Alain Badiou. La politica comunista è una «Pura Idea», necessaria alla vita.
Dopo un elogio sperticato, e un poco ridicolo, del maoismo francese, il quarto Maggio vola nell’Iperuranio: urge «la ricerca di un’altra politica, illuminata dalla presenza immanente degli intellettuali», che – come insegna il comandante della lunga marcia – restituiscano alle masse «in modo preciso» ciò che esse consegnano «in maniera confusa». Nessuna inchiesta sulle singolarità antagoniste, anzi. Il filosofo non insegue le pratiche di lotta, né la sua conoscenza deriva da esse, piuttosto le chiarisce esattamente in forza della propria separatezza. Torna così l’ipotesi del comunismo come ideologia, utopia metafisica, radicalmente esterna all’agire collettivo, che già conosciamo. Dalla cattedra, tuttavia, non è possibile alcuna virtù, tantomeno quel «coraggio di ribellarsi» che attraversa tutto il libro.

Come replicare a Badiou? C’è un celebre testo, scritto da Gilles Deleuze – cui Badiou rende un fuggitivo omaggio – e Felix Guattari, nel 1984, che varrebbe la pena accostare a questo libretto, per sbloccarne l’impasse. Anche lì era questione di evento. Notavano allora Deleuze e Guattari: il 68 non nasce da una crisi, è piuttosto la – lunghissima – crisi attuale che nasce dall’incapacità della società europea di operare una riconversione soggettiva di quanto accaduto cinquant’anni fa. Gli autori di Mille Plateaux ci hanno insegnato a rileggere il desiderio comunista come qualcosa che si costruisce dentro all’ammodernamento delle forme produttive, come fame di ricchezza e gioia della riappropriazione. «L’evento – scrivevano Deleuze e Guattari – crea una nuova esistenza, produce una nuova soggettività». Oppure non si genera. Perché non si dà critica fuori dalla densità di un agente storico e forse, ormai, non si dà neppure filosofia.

questo articolo è stato pubblicato sul manifesto del 1 maggio 2018

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