di SANDRO MEZZADRA.
1. “Siamo dinanzi”, tanto in Italia quanto in Europa, “a un trentennio di trasformazioni istituzionali”: si apre con questa constatazione il libro curato da Giuseppe Allegri e Giuseppe Bronzini, Il tempo delle Costituzioni. Dall’Italia all’Europa (Manifestolibri 2014, pp. 191, 19 €). La prima commissione bicamerale per le riforme costituzionali, la cosiddetta “Commissione Bozzi” che cominciò i propri lavori nell’autunno del 1983, e l’approvazione del “Progetto Spinelli” da parte del Parlamento europeo nel febbraio dell’anno successivo segnano l’avvio di una “transizione” che, tanto in Italia quanto in Europa, appare ben lungi dall’essersi conclusa. Pur evidentemente intrecciati, i due processi hanno tempi e caratteri peculiari, da non dimenticare. Considerarli insieme, o quantomeno metterli in risonanza, aiuta tuttavia a illuminare il campo di tensioni e di forze al cui interno si sono prodotte trasformazioni che hanno investito lo stesso concetto di costituzione. È in fondo questo il problema al centro del volume, su cui sono chiamati a confrontarsi, tra gli altri, costituzionalisti del calibro di Gaetano Azzariti, Luigi Ferrajoli e Stefano Rodotà, giuristi impegnati nelle lotte per i beni comuni (Maria Rosaria Marella) e protagonisti del dibattito critico sulla politica in Europa, come ad esempio Étienne Balibar, Giacomo Marramao e Toni Negri.
Non è un problema astratto, quello del significato che assume oggi la costituzione. A seconda del modo in cui la si intende, si pongono in modo diverso questioni politiche fondamentali e del tutto concrete: non solo l’atteggiamento da tenere di fronte al “patto del Nazareno” o allo stesso attacco all’articolo 18 e a quello statuto dei lavoratori di cui è stato spesso evidenziato il portato appunto “costituzionale”, ma anche la possibilità di assumere il piano nazionale come riferimento privilegiato per la riqualificazione della democrazia o la necessità di spostare sul terreno europeo il baricentro dell’azione politica. E ancora: su quest’ultimo terreno, quello della UE, occorre forzare un “salto federale” (Bronzini), in sostanziale continuità con la moderna storia costituzionale del federalismo, oppure conviene battere strade nuove, come ad esempio quella dell’“integrazione attraverso la soluzione dei conflitti” qui proposta da Stefano Giubboni e Christian Joerges?
2. Le posizioni su questi temi presenti nel libro curato da Allegri e Bronzini sono assai variegate. Quel che colpisce, tuttavia, è la sostanziale convergenza sulla diagnosi, documentata da un uso trasversale, per così dire, di un termine forse non elegantissimo ma certo efficace nel cogliere alcuni caratteri essenziali dello scenario che abbiamo di fronte: decostituzionalizzazione. Che cosa si intende con questo termine? La costituzione, come mostra in modo efficace Giso Amendola nel suo saggio, ha avuto storicamente due funzioni essenziali: quella di porsi come “limite e vincolo all’esercizio del potere”, attraverso un sistema di garanzie e diritti, e quella di fondare l’unità politica dello Stato, articolandone l’organizzazione e i rapporti con i soggetti. Parlare di “decostituzionalizzazione”, come si fa ormai ampiamente nei dibattiti giuridici internazionali, significa richiamare l’attenzione sull’indebolimento di entrambi questi lati della costituzione. E significa in particolare sottolineare le tendenze a una moltiplicazione di livelli e attori di potere che sfuggono alla regolazione costituzionale pur intervenendo, spesso in modo estremamente incisivo, su terreni tradizionalmente definiti di “rilevanza costituzionale”.
L’Unione Europea è spesso assunta come campo privilegiato di analisi di queste tendenze, ma è più in generale l’ampia letteratura su diritto e globalizzazione ad averne messo a fuoco alcuni profili decisivi. E l’attenzione si è spesso concentrata, ovviamente, sul mutato rapporto tra economia e politica nel tempo del “neoliberalismo”. È un tema centrale anche in molti capitoli di Il tempo delle Costituzioni. Luigi Ferrajoli, ad esempio, descrive in modo molto preciso il doppio processo di decostituzionalizzazione che si è dispiegato tanto a livello nazionale quanto a livello europeo, rinvenendone il significato di fondo in un “mutamento in senso liberista della costituzione economica delle nostre democrazie”: ovvero nella crisi di quel modello costituzionale, prevalente nell’Europa occidentale della seconda metà del Novecento, “basato sull’ovvia sovra-ordinazione della sfera pubblica alle sfere economiche private”. In un altro bel contributo al volume, Giubboni e Joerges ricorrono all’opera di Karl Polanyi per analizzare criticamente il movimento attraverso cui i mercati hanno tentato negli ultimi anni di svincolarsi da ogni forma di regolazione sociale e politica, nel quadro di un ulteriore approfondimento della mercificazione di lavoro, terra e denaro, ovvero di quelle che l’economista austro-ungherese definiva “merci fittizie”.
Si tratta di analisi utili e rigorose. Di tanto in tanto, tuttavia, l’impressione è che l’“economia” e i “mercati” vengano considerati in modo eccessivamente astratto, senza fare i conti fino in fondo con la materialità delle trasformazioni e dei processi che costituiscono i caratteri specifici del capitalismo contemporaneo. Non si vuole qui proporre un’analisi riduzionistica delle costituzioni, considerate mera “sovrastruttura” del rapporto sociale di capitale. Dovrebbe tuttavia essere evidente che la regolazione costituzionale di questo rapporto si trova di fronte problemi diversi a seconda che il capitalismo sia organizzato su base industriale e nazionale o su base finanziaria e globale. Diverse sono le dinamiche da regolare, diversi sono soprattutto i soggetti in campo (per accennare a un tema essenziale, affrontato in particolare da Amendola, Marella, Bonacchi e Giorgi nei loro contributi). Si pone qui la questione della “costituzione finanziaria”, per riprendere i termini utilizzati da Rodotà, ovvero, seguendo l’analisi di Toni Negri, di un capitalismo che proprio per via dei processi di finanziarizzazione, assume sempre più una natura “estrattiva”, azzerando tendenzialmente quel terreno di mediazione dialettica tra capitale e lavoro su cui si erano impiantate le costituzioni post-belliche.
3. Il management europeo della crisi, ovvero quel “diritto europeo dell’emergenza” la cui costruzione è stata avviata almeno a partire dal 2010, è una peculiare espressione (non l’unica possibile, e non necessariamente la più adeguata) delle profonde trasformazioni intervenute nella natura stessa del capitalismo. Tanto Bronzini quanto Giubboni e Joerges analizzano in modo molto efficace questo regime di gestione della crisi, che ha avuto la propria consacrazione nel Fiscal compact e nell’istituzione del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità). E mostrano bene come esso abbia determinato una cesura nella stessa continuità del processo di integrazione europea, spesso interpretato attraverso la formula “integrazione attraverso il diritto” e il connesso riferimento al “metodo comunitario”. La nuova posizione (costituzionale, si potrebbe aggiungere) della Banca Centrale Europea e l’organizzazione di un nuovo complesso di norme e poteri a salvaguardia dell’euro e della disciplina fiscale, sostanzialmente al riparo da ogni “logica di rappresentanza politica e istituzionale” (Bronzini), hanno portato un osservatore attento come Giandomenico Majone a parlare del rischio di un passaggio dal “deficit democratico” (di cui si parla da molto tempo a proposito della UE) a un vero e proprio “default democratico”. Non che manchino conflitti e contraddizioni all’interno di questo assetto di potere (ad esempio tra la Banca Centrale Europea e la Bundesbank): ma tanto i conflitti quanto le mediazioni si giocano all’interno della medesima “parte”, a conferma di quanto si diceva sulla natura del capitalismo finanziario.
Se le cose stanno così come schematicamente le si sono riassunte, come costruire un’alternativa in cui possa riconoscersi l’altra “parte”, ovvero la nostra? La dimensione nazionale, almeno in Europa, appare del tutto spiazzata dai processi che si sono indicati parlando di decostituzionalizzazione e di finanziarizzazione del capitalismo. Questo non significa che debba essere abbandonata, ma che la si può riqualificare soltanto attraverso un’azione che assuma come obiettivo e presupposto la conquista dello spazio europeo, strappato alle forze che oggi lo dominano e a quelle che pretendono di contenderglielo agitando le parole d’ordine reazionarie dei diritti dei popoli e delle nazioni. Diversi contributi raccolti nel volume cominciano a indicare gli elementi fondamentali di un programma politico all’altezza di questo compito, sul terreno di un nuovo welfare, di nuovi diritti, di una nuova politica del lavoro e della cooperazione. Si tratta, evidentemente di un compito che non può che essere definito costituente. Ma vale anche qui, a mio giudizio, l’indicazione di Amendola, l’invito ad “assumere una postura critica non nostalgica, o semplicemente difensiva”: una politica costituente in Europa non deve necessariamente essere immaginata sul modello classico dell’assemblea costituente (per cui oggi mancano del resto tutte le condizioni politiche); deve piuttosto farsi carico dell’eterogeneità costitutiva tanto dello spazio europeo quanto dei regimi di regolazione che lo investono. Deve inventare il proprio spazio a partire dalle lotte dei suoi soggetti: qui l’esempio della Prima Internazionale, “dove da una varietà di tendenze, gruppi e movimenti si era giunti a una sintesi che ha cambiato in modo radicale i ritmi e le forme della storia universale” (Marramao), è davvero suggestivo.
Un ulteriore parallelo storico, per concludere, è offerto da Gabriella Bonacchi e Chiara Giorgi, sulla traccia di una discussione del pensiero di Lelio Basso. Quest’ultimo, in un articolo del 1976, ricordava le parole rivolte da Ferdinand Lassalle agli operai tedeschi più o meno nella stessa epoca in cui fu fondata la prima Internazionale: la costituzione “siete anche voi perché siete una forza, e la costituzione è, in ultima istanza, un rapporto di forze”. Certo, Lassalle si riferiva alla costituzione in senso materiale, e il suo progetto politico – duramente criticato da Marx – puntava a un’integrazione dei lavoratori nello Stato nazionale in formazione. Ma il riferimento alle forze e al loro rapporto rimane fondamentale. E il rapporto di forze appare oggi in Europa decisamente sfavorevole per i pronipoti degli operai tedeschi di Lassalle (interpretando il riferimento in senso metaforico e non letterale). L’azione dei movimenti sociali sullo stesso terreno costituzionale, come ricorda Allegri, ha tuttavia sedimentato un patrimonio di esperienze pratiche e teoriche, che negli ultimi anni è stato arricchito nelle lotte per i beni comuni. Queste ultime sono giunte a prefigurare, sia pure non certo linearmente, “modelli di istituzione del comune” (Marella). Le lotte dentro e contro la crisi, in particolare ma non solo in Europa meridionale, hanno fatto emergere nuove forme di “sindacalismo sociale” in cui la pratica dell’appropriazione diretta (ad esempio sul tema dell’abitare) si è coniugata con la sperimentazione di inedite modalità di negoziazione. Non si può certo trarre un “modello” costituzionale dall’insieme di queste esperienze (a cui altre potrebbero essere aggiunte): e tuttavia esse indicano e qualificano materialmente alcune direzioni in cui muoversi per affrontare lo scenario che ci è consegnato dai processi di decostituzionalizzazione e di finanziarizzazione del capitalismo. All’ordine del giorno, come si può conclusivamente affermare combinando le suggestioni dei due esempi storici ricordati, è oggi la costituzione di una forza capace di rendere stabile ed efficace l’azione politica lungo quelle direzioni.
Questo articolo è pubblicato anche in il manifesto del 28/10/2014