di SANDRO MEZZADRA.
È giugno a Parigi, corre l’anno 1848. La famiglia Tocqueville è a tavola, in una casa signorile della rive gauche. Tuona il cannone sull’altra riva della Senna, la canaglia operaia sarà infine sconfitta e massacrata. Ma il terrore serpeggia in casa Tocqueville, tanto forte è l’impressione destata dall’insurrezione armata proletaria. A una giovane cameriera, che arriva proprio dal Faubourg Saint-Antoine, uno degli epicentri della rivolta, sfugge un sorriso. Sarà licenziata immediatamente, ma quel sorriso – lo ha ricordato anni fa Toni Negri, discutendo Spettri di Marx di Jacques Derrida – rimane una splendida incarnazione dello spettro del comunismo che avrebbe a lungo turbato i sonni della borghesia.
È bello immaginare che ci sia stato un antefatto di questa scena, molti secoli prima. È ancora estate, sta finendo il mese di agosto. Siamo a Firenze, e l’anno è il 1378. La casa, altrettanto signorile, è quella di Vieri di Cambio de’ Medici, il banchiere e finanziere con cui cominciò realmente «l’inversione di tendenza della fortuna della famiglia Medici», da qualche tempo declinante. Vieri di Cambio parla con il suo giovane e lontano cugino, Giovanni di Bicci de’ Medici, che ha individuato come suo erede e continuatore. Gli spiega che «grazie alla nostra invenzione dei contratti di cambio, il denaro ora circola invisibilmente». Ha di fronte una mappa del mondo conosciuto allora, la fissa regolarmente: di lì a non molto i Medici e i banchieri fiorentini domineranno quel mondo, con il potere «invisibile» del loro denaro.
Il sorriso dell’oppressa
Ma la città è in subbuglio, da mesi i Ciompi, cardatori, pettinatori e tessitori della lana, reclamano potere, lo affermano e lo praticano nelle strade di Firenze. Giovanni capisce in fretta le ambizioni del cugino, ma gli fa presente la minaccia immediata dell’insurrezione (che esploderà il giorno dopo, e sarà repressa nel sangue). Vieri appare preoccupato, i Ciompi, dice, «rappresentano una severa minaccia e dobbiamo prendere quella minaccia molto, molto seriamente». L’espressione del volto di Vieri esprime paura «al prospetto di una vittoria dei Ciompi». Nella stanza c’è anche Stanka, una giovane serva/schiava slava comprata recentemente («una pratica che risale al 1320»). Se l’avesse guardata, Vieri «avrebbe notato la vaga ombra di un sorriso sulla sua faccia, alla vista del padrone così spaventato dai lavoratori oppressi».
La scena è tratta da un libro, davvero bello e prezioso, di Jeremy Lester, storico inglese che vive tra Bologna e Parigi, autore di molti studi in particolare su Russia e America Latina. Si intitola Spogliateci tutti ignudi. I quaranta giorni che sconvolsero Firenze, e perciò il mondo, nel 1378 (Pendragon, pp. 171, € 14). È una pièce teatrale, e dunque diciamo subito che il sorriso di Stanka è frutto della fantasia di Lester: ma non è meno potente l’immagine, esemplare della fitta tela di rimandi alla storia successiva che l’autore intesse con maestria. Arrivando fino al nostro presente, se è vero che la repressione della rivolta dei Ciompi è un momento chiave nell’avvio di un potente processo di finanziarizzazione alle origini del capitalismo moderno. Che può essere fatto risuonare con quanto avviene oggi, soprattutto in un’opera di finzione, in un «dramma storico» («il capitale finanziario ha la capacità di essere avventuroso. Vuole incessantemente esplorare nuove opportunità, nuove imprese», dice Vieri: «in verità si può perfino coniare un nuovo termine – capitale avventuroso o magari venturoso»).
Le storie di Machiavelli
Spogliateci tutti ignudi: non vi sbigottisca «quell’antichità del sangue» che i nobili ci rimproverano, perché «tutti gli uomini avendo avuto un medesimo principio sono ugualmente antichi, e dalla natura sono stati fatti a un modo». Spogliateci tutti ignudi, dunque: e «voi ci vedrete simili, … perché solo la povertà e le ricchezze ci disagguagliano». E ancora: «e della coscienza noi non dobbiamo tenere conto, perché dove è, come è in noi, la paura della fame e del carcere, non può né debbe quella dello inferno capere». A dare il titolo al libro è il famoso discorso del Ciompo tratto dalle Istorie fiorentine di Machiavelli, formidabile manifesto della lotta di classe proletaria agli albori del capitalismo, pur inserito all’interno di una ricostruzione della rivolta che celebra piuttosto colui che infine la represse, Michele di Lando.
Il libro di Lester non è solo bello e godibilissimo alla lettura. È anche davvero prezioso. Alla pièce teatrale, su cui subito tornerò, seguono scrupolosi e utilissimi apparati critici: una cronologia degli eventi (dall’inizio dei tumulti il 18 giugno alle condanne a morte, all’ergastolo e all’esilio comminate il 20 settembre: ma molti dei condannati a morte, ci informa Lester, «riusciranno a scappare nelle settimane successive»), una mappa dell’insurrezione di luglio, cenni biografici sui capi più importanti dei Ciompi, un albero genealogico della famiglia de’ Medici sapientemente commentato e un’antologia che documenta le diverse prospettive storiografiche sul «tumulto». Colpisce l’estratto di un breve articolo della giovane Simone Weil: nell’istituzione di un organo di autogoverno dei Ciompi, a Santa Maria Novella, Weil vede nel 1934 la realizzazione archetipica della forma del «soviet», l’istituzione da parte di un «proletariato appena formato» del dualismo di potere, «il fenomeno essenziale delle grandi insurrezioni operaie».
È il monologo di un giullare, prestato a Lester da Dario Fo, ad aprire l’azione teatrale. È festa nelle strade di Firenze, la rivolta, il potere finalmente esercitato dai Ciompi ha cambiato la città, ha cambiato la vita. Lasciamo al loro destino i vincitori, Vieri di Cambio e il cugino Giovanni. Questi sono i giorni di Lapo e Fiammetta, il Ciompo e la Ciompa. Nella loro casa, nel quartiere Camaldoli, si svolge la prima scena. L’ambiente domestico è umile, ma la vita è cambiata. Lapo ha ascoltato il giullare raccontare delle disgrazie che sono capitate a lui e alla moglie e di come «intendesse combattere l’ingiustizia sociale». E pensa agli ultimi anni a Firenze, «ancora carestie e fame, ancora pestilenze ed epidemie, insieme a povertà, sfruttamento, tagli ai salari e tasse più alte per pagare le guerre» dei Signori. Ma poi venne giugno, l’inizio dei tumulti, palazzi dei magnati della Repubblica in fiamme, l’odiato sceriffo ser Nuto («un torturatore e un macellaio», ma anche «un codardo») finalmente giustiziato, l’assalto alla prigione delle Stinche e la liberazione dei prigionieri.
E benedetto sia giugno: «questi sono stati i due mesi più felici della mia vita», dice dolcemente Fiammetta a Lapo.
Il divenire della mutazione
L’azione si snoda tra luglio e agosto, fino all’ultima resistenza del 31, sulle barricate in via Magalotti, dove cadono insieme Lapo e Fiammetta. Lo aveva detto, Fiammetta: «non avremo futuro, se perdiamo questa lotta». E aveva aggiunto: «sì, la paura c’è. Ma nello stesso tempo si raggiunge un punto oltre la paura». Lapo aveva chiosato: la rivolta, la stessa violenza finalmente esercitata dai poveri, la festa «ha cambiato me, ha cambiato noi. Semplicemente non c’è ritorno a ciò che eravamo prima che la rivolta incominciasse. Penso che preferirei morire piuttosto che tornare indietro». «Come sarebbe bello se potessimo abolire il tempo»: e vivere nel «tempo dei tumulti», nel formidabile presente in cui si svolgono le scene nella casa di Lapo e Fiammetta. Tempo dei tumulti, tempo della potenza, tempo di una mutazione antropologica che Lester mette in scena con sapienza, combinando echi dolciniani e anticipazioni comunarde, eresie religiose e frammenti di un comunismo a venire. Accettando il rischio dell’anacronismo (a partire dallo stesso personaggio di Fiammetta, come dice esplicitamente), ma giocando sullo scarto tra quanto è «storicamente accurato» e quanto è «puramente e solamente ‘simbolico’» (T. Griffiths), su quello scarto che apre in fondo il campo del «dramma storico».
I Ciompi, quel 31 agosto del 1378, «possono essere stati sconfitti ma non certamente vinti», come scrive José Saramago in un poscritto incluso da Lester nel libro. A notte, misteriosamente, suonano ancora a martello le campane della periferia fiorentina, che avevano chiamato all’insurrezione nelle settimane precedenti. Ed è di nuovo il panico tra i Signori. Non succederà nulla. Ma, dice ancora Saramago, «come tutti i suoni che riecheggiano, gli echi si estendevano in lungo e in largo». È bello pensare, con Saramago e con Lester, che quegli echi non abbiano smesso di risuonare. Lasciamo dunque un’ultima volta la parola a Fiammetta, la Ciompa: «forse falliremo, sono sicura che le cose per cui stiamo lottando accadranno a dispetto della nostra sconfitta. Altri porteranno avanti la lotta».
questo articolo è stato pubblicato sul manifesto il 24 dicembre 2015