di MARCO BASCETTA. Se dovessimo desumere lo stato dell’Unione dal discorso della presidente della Commissione Ursula von der Leyen istituzionalmente dedicato a illustrarlo, ne ricaveremmo il quadro di una battaglia vincente e da tutti condivisa in difesa della democrazia e dei suoi «valori» contro l’autocrazia, a cominciare dal virtuoso abbattimento della dipendenza energetica dalla Russia. La verità è che il vessillo ucraino mette in ombra lo stato disastroso in cui versa l’Unione europea e in particolare la sua salute democratica, sulla quale non è stata spesa una sola parola.
Le politiche comunitarie ci consegnano oggi, nonostante le tardive correzioni durante la stagione pandemica alla feroce difesa della rendita finanziaria imposta al tempo della crisi dei debiti sovrani, un’Europa nella quale proliferano e si affermano sempre più culture e formazioni politiche di stampo nazionalista e autoritario, mentre i falchi della speculazione e del rigore riprendono il volo nel cielo di Amsterdam e dalla torre francofortese della Bce. Da nord a sud, da est a ovest, la degenerazione reazionaria dei paesi europei è sotto gli occhi di tutti. Grazie anche allo sdoganamento e all’attivazione delle forze politiche postfasciste.
Al sud, la Grecia piegata a suo tempo dal Diktat della Troika (della cui sorveglianza si è appena liberata dopo dodici anni, ma non dalla crisi e dall’austerità) è stata riconsegnata a una destra oligarchica e arrogante che può ora intestarsi ogni debole segnale di ripresa, dopo i «tempi duri» associati alla sinistra di Syriza che ha dovuto attraversarli, pagandone i costi politici. In Spagna i franchisti di Vox, pienamente sdoganati e divenuti terzo partito del paese, governano già con il Ppe in Castilla y Leon, mentre la sinistra di Podemos nella sua lunga crisi va perdendo di peso nel condizionare il corso del governo socialista di Sanchez. In Italia, apripista ai tempi di Berlusconi dello sdoganamento dei postfascisti, incombe un probabile governo di centrodestra a guida Fratelli di Italia. Sebbene questi smottamenti verso destra si siano prodotti più o meno frontalmente in polemica con la Ue, quest’ultima, vuoi alimentandoli con il disagio prodotto dalle sue politiche restrittive, vuoi prevedendone la facile domesticazione finanziaria, vuoi apprezzandone l’effetto «d’ordine» ne ha di fatto favorito la diffusione.
Ad Est la «democrazia illiberale», ovvero un sistema autoritario e manipolatorio della società (per molti versi simile a quello putiniano) è da tempo di casa, a partire dalla Polonia e dall’Ungheria da un pezzo sotto procedimento per infrazione dello stato di diritto. Nei confronti di questi governi l’Unione ha sempre proceduto con una timidezza che sconfina in interessata tolleranza. La guerra in Ucraina ha poi fatto addirittura della Polonia un bastione di resistenza democratica e perfino il più putiniano di tutti, Victor Orban, viene lasciato prudentemente in pace nei suoi traffici con Mosca come nelle sue trovate liberticide.
Nella storia politica moderna possiamo riscontrare una legge che vede i livelli di democrazia svilupparsi in maniera inversamente proporzionale alle minacce, reali o immaginarie, contenute o enfatizzate, che incombono su un paese. Quanto più la minaccia viene percepita, tanto più si restringe lo spazio della democrazia. La ben nota logica dello stato di emergenza che oggi lavora a pieno ritmo nel Vecchio continente.
A cominciare dal Nord dove, poco dopo aver richiesto di aderire alla Nato, dopo due secoli di neutralità, e negoziato con Erdogan l’abbandono dei curdi al loro destino di perseguitati (stesso percorso della Finlandia), la socialdemocrazia svedese viene travolta da una coalizione di destra a trazione postfascista, xenofoba e razzista. I cosiddetti «Democratici svedesi» sono il secondo partito del paese e il primo della coalizione che andrà al governo. Fenomeni certamente ben più concreti di una immaginaria aggressione russa, del tutto fuori dal mondo visto l’andamento della guerra in Ucraina.
Dove l’estrema destra non sfonda, come in Danimarca o in Germania, (Afd resta fuori dai giochi), l’«effetto minaccia» agisce egualmente. Nel primo caso quello delle migrazioni verso le quali destra e socialdemocrazia danesi conducono la stessa politica. Nel caso della Bundesrepublik, rompendo con la fortissima tradizione pacifista e diplomatica del dopoguerra attraverso uno spropositato e costosissimo programma di riarmo e l’agghiacciante affermazione della ministra della difesa Christine Lambrecht, secondo la quale la Germania dovrebbe esprimere la sua potenza anche in campo militare. Forse dovremo rimpiangere oltre ad Angela Merkel anche la Brexit. E sono proprio i verdi, sulle orme del loro vicecancelliere d’un tempo (con Schroeder tra il 1998 e il 2005) Joschka Fischer che li trascinò, tra furibonde polemiche, ad appoggiare l’intervento tedesco in Kosovo, a sostenere un maggiore coinvolgimento tedesco nella guerra ucraina e ad accantonare, in nome dell’emergenza bellico-energetica, quella climatica in cambio di poco o nulla.
All’Ovest Marine Le Pen si è guadagnata il consolidato favore di un bel pezzo di società francese, mentre il presidente Macron si trastulla con una Comunità politica europea che dovrebbe includere, non si sa su quali valori o commerci, Gran Bretagna, Ucraina, Moldavia, Georgia, Svizzera, nonché l’impero ottomano di Erdogan. Vista la cronica indigenza in cui versa l’Europa politica, un simile esercizio di propaganda non dispone di alcuna credibilità.
Questo è dunque il vero stato dell’Unione, quello di un restringimento generalizzato della democrazia, di un crescente peso della dimensione militare nei rapporti internazionali, di una crisi indotta dalle strozzature della globalizzazione e dalle manovre speculative che lì si incistano. Abbattendosi indiscriminatamente sulle condizioni di vita di tutti i cittadini europei.