di BENEDETTO VECCHI.
Un giornalista capace di individuare tendenze di lungo periodo che le situazioni contingenti lasciano solo intravedere. Paul Mason appartiene sicuramente a questa tipologia di giornalista che non guarda il mondo dietro le vetrate di qualche hotel a cinque stelle, ma preferisce stare sulla strada, parlare con chi vive condizioni non sempre invidiabili, solo per usare un’espressione politically correct. In questo ultimo libro edito da il Saggiatore (Postcapitalismo) Mason fa tesoro delle sue incursioni nella realtà capitalista investita dalla crisi dal 2008 e mette al centro della scena le strategie di resistenza, di mutuo soccorso che ha incontrato in tutti questi anni. Il volume ha avuto una ricezione che ne ha messo in evidenza la provocatorietà della tesi, nonché il carattere visionario del progetto proposto dal giornalista britannico che chiude il volume. Di tutto ciò ne scrive in queste pagine Matteo Pasquinelli, mentre Francesca Coin ha raccolto il percorso teorico nell’intervista a Paul Mason pubblicata il 22 luglio 2015 su questo giornale (a tale proposito va segnalato anche l’articolo della stessa ricercatrice italiana il 22 settembre 2015).
A una lettura più meditata del volume emergono alcune radici teoriche alle quali Mason ha attinto: il socialismo utopistico inglese dell’Ottocento, le teorie economiche dell’economista russo Nikolai Kondratiev mandato a morte da Stalin, l’André Gorz delle Metamorfosi del lavoro. Per Paul Mason, il capitalismo è giunto alla fase terminale della sua esistenza come modo di produzione. Le esperienze di sharing economy – la cosiddetta economia della condivisione – ne stanno solo rallentando l’agonia, anche se stanno preparando le condizioni della sua fine indolore. Già perché le relazioni sociali che puntano, questa la tesi forte del volume, a condividere risorse aprono la porta a una società postcapitalista. Inutile, dunque, attendersi l’ora della rivoluzione e della presa del potere da parte di un proletariato che non ha niente altro da perdere se non le sue catene. La società dei liberi e degli eguali si sta facendo strada nelle pulviscolari – e tuttavia diffuse – esperienze di muto soccorso, di attività economiche basate sulla reciprocità e su rapporti di produzione e di scambio non mercantili. Ce ne sono tantissime, disseminate in ogni angolo del pianeta, da Londra a Sidney, da Shangai a Mumbay, da Los Angeles a Rio De Janeiro. Possono essere cooperative di insegnanti, di medici, di facchini, di programmatori di computer, di makers o di muratori; oppure strutture di microcredito o mutuo soccorso. In ogni caso, hanno come elemento costitutivo l’innovazione sociale e tecnologica, elementi quest’ultimi che fanno ormai fatica a farsi strada nel capitalismo contemporaneo. La sharing economy è semmai da considerare la fase parassitaria dell’appropriazione privata di innovazione, che viene prodotta all’esterno dai rapporti capitalistici. La griglia interpretativa di questa ultimi sussulti del capitalismo Mason la trova nella teoria delle onde lunghe di Kondratiev, dove l’evoluzione dello sviluppo economico vedono un alternarsi di sviluppo, crisi, nuovo sviluppo. Ma quel che Mason aggiunge è che l’economista russo aveva previsto la fine del capitalismo coincidente con l’esaurirsi della spinta propulsiva dell’onda che lo ha portato a occupare tutto lo spazio economico e sociale del pianeta. Per una ironia della storia, quando il capitalismo diventava globale c’erano tutte le basi di un suo superamento.
Postcapitalismo ha l’indubbio fascino di inanellare fatti, frammenti teorici, esperienze sociali, storie delle idee al fine di restituire un affresco credibile della crisi attuale e della sharing economy come risposta alla crisi. L’economia della condivisione è la manifestazione più evidente della messa al lavoro della conoscenza, degli affetti e delle relazioni sociali. Fa bene Paul Mason a ricordare il Frammento delle macchine di Marx, ma ciò che nel suo schema teorico non torna è che quando scrive della messa al lavoro della conoscenza fa sempre riferimento a una conoscenza individuale. La sharing economy segnala invece che ciò che viene sfruttato è la dimensione collettiva nella produzione del sapere e delle relazioni sociali. La sharing economy «cattura» questa attitudine dell’animale umano a cooperare per trasformarla in attività economica. I casi eclatanti di Uber o di Airbnb evidenziano cioè tanto la «cattura» che l’«estrazione» da una cooperazione sociale già data. Da questo punto di vista l’innovazione non sta solo nello sviluppo di applicazioni – l’economia delle app -, quanto nel definire progetti attinenti all’umano «stare in società». Finora questo ha coinvolto la possibilità di affittare stanze della propria abitazione o l’automobile, trasformandole in attività economiche.
In ogni caso, le imprese hanno la funzione da intermediazione tra il «pubblico» e il fornitore dell’abitazione o dell’automobile all’interno del regime di accumulazione capitalista, mentre l’innovazione è necessariamente «esterna» allo scambio economico. Le «app» infatti sono sviluppate da piccoli gruppi di informatici e non solo in cerca del colpo gobbo che farà arricchire tutti. Ed è per questo motivo che nella sharing economy le imprese devono esercitare quasi in una condizione di monopolio per garantirsi alti profitti: un monopolio costruito attraverso il regime della proprietà intellettuale e la capacità «politica» di imporre relazioni fortemente individualizzate nella prestazione lavorativa. Come questa tendenza alla condivisione possa consentire il superamento del capitalismo è la domande che non può essere liquidata nell’invito a moltiplicare le forme di mutualismo e di piccole attività economiche non mercantili, delegando a una dimensione vertenziale (sindacale?) il compito di correggere la rotta delle politiche economiche.
Per Paul Mason tale invito è articolato nel suo «progetto zero». Progetto suggestivo laddove individua nella diffusione virale di attività di autogestione e autorganizzazione la capacità di esercitare un contropotere che svuota dall’interno il capitalismo. Ma è proprio qui che l’analisi di Mason mostra la sua ingenuità. Il mutualismo, lo sviluppo di attività economiche – lo studioso americano Trebor Scholz le definisce platform cooperativism – sono certo pratiche sociali di resistenza alla sharing economy, ma ciò che manca loro è una cornice politica che ne garantisca la continuità e la capacità di rendere permanente il potere costituente di quelle stesse pratiche. Detto altrimenti: in Mason, così come in altri teorici che seguendo strade diverse del giornalista britannico sono giunti a conclusioni analoghe, ciò manca, indebolendo così anche la sua analisi, è una teoria del Politico, cioè dell’organizzazione che entri in rotta di collisione con forme di impresa che agiscono a livello globale e dunque anche locale. Senza un’idea del Politico il Postcapitalismo è solo un virus mutante della sharing economy. Ciò che serve è la capacità politica e sociale di agire globalmente contro i centri del potere politico e economico, producendo forme di autorganizzazione locale, laddove cioè dove la sharing economy accentua la precarietà, favorisce il monopolio per estrarre profitti dalla cooperazione sociale. È questo il «progetto zero» che ancora manca all’appello. E che può essere però definito senza attendere messianicamente l’avvento del Postcapitalismo.
Questo articolo è uscito su il manifesto il 23/03/2016