di GIROLAMO DE MICHELE*

Due punti fermi, per cominciare: anche per la scuola nulla dovrà essere come prima, perché non dovremo permettere che lo sia. Anche per la scuola non dovremo tornare alla normalità, perché era la normalità il problema.

È stato detto che questa pandemia agisce come un pettine a contropelo sulla società: porta in superficie, visibili a tutt@, quei nodi che non si volevano vedere. Così per la scuola: lo dice bene il concatenamento di due ottimi documenti, non casualmente femminili, prodotti a marzo dalle Cattive maestre (La scuola ai tempi del coronavirus) e ad aprile da NUDM Roma (La vita oltre la pandemia). I nodi strutturali, per fare un sommario elenco: l’inadeguata dotazione di edifici e aule; le classi sovraffollate e l’inadeguato, dal punto di vista dell’efficacia didattica, rapporto alunni/docenti; la scarsa dotazione di strumenti fornita alle/ai docenti; l’inadeguata, talora fatiscente rete dei trasporti pubblici, urbani e non; la disparità sociale fra centro e periferie, città e provincia, nord e sud; il troppo elevato numero di utenti, dunque di studentesse e studenti, ma anche di docenti, privi di connessione; la precarizzazione del personale scolastico; i tagli dei fondi all’istruzione. Tutto questo smette di essere derubricato a lamentela sindacale, e diventa in un sol colpo evidente a qualunque genitore, familiare, studentessa o studente. Così come diventa evidente, dopo poche settimane, che la Didattica a distanza (DaD), lodata come magnifica sorte e progressiva dell’insegnamento da talun@ improvvid@ commentatrici e commentatori che di scuola poco sapevano, è al massimo la pezza sul calzone, non il calzone. Vale la pena di ricordare che la DaD era il portato implicito tanto della riforma Gelmini – cos’altro significava il suo slogan “meno ore (in classe) più approfondimenti (a casa)”? – che della Buona Scuola di Renzi – cos’altro significava l’apologia del tablet per tutti, e l’affermazione, che sarebbe inverosimile se non fosse stata enunciata da menti sedicenti illuminate, che nella società della conoscenza (sic) i contenuti sono a disposizione in rete, si tratta solo di insegnare come reperirli?

Bene dunque che occhi e menti si siano aperti a un sano bagno di realtà: atti conseguenti dovranno seguire, e pratiche di lotta costituente dal basso dovranno essere prodotte perché quegli atti seguano.

La crisi determinata dalla pandemia e accompagnata dalla percezione che quella in atto non è una “normale” emergenza, ma una soluzione di continuità che costringerà a rinunciare a consuetudini e automatismi, ad abbandonare concezioni e gestioni basate sul “fino a ora”, all’improvviso fa scolorire, come in un bianco e nero d’epoca, sia il chiacchiericcio diffamatorio sui lavoratori della scuola, che le chiacchiere con cui venivano incartate le caramelle avvelenate della riduzione della didattica a “contenuti minimi”, “competenze”, “abilità di base” all’interno di documenti che sembravano essere redatti, più che da pedagogisti, da un circolo di burraco. Parimenti, ora che famiglie, lavoratrici e lavoratori fanno i conti con i problemi dell’assenza di tempo-scuola esterno, appaiono improvvisamente retrodatati, come modificati da FaceApp, i volti di quegli amministratori che sostenevano la bontà contabile della chiusura delle scuole nel pomeriggio e nel fine settimana, e dei quali fatichi oggi a ricordarti se erano di “destra” o di “sinistra”.

Tutto questo era la “normalità” che appare a tutti come il problema, al quale non si può, né si deve, ritornare. Finché questa “normalità” non sarà superata, per la la scuola, quali che siano le modalità di riapertura a settembre, sarà Fase 2.

Ma è necessario uno sforzo di immaginazione produttiva, di capacità comune di progettazione costituente di una scuola altra. Più risorse, più docenti e più fondi sono davvero il minimo indispensabile: ma per farne cosa? Non è pensabile che queste risorse siano utilizzate per ricreare la scuola di ieri: è necessario immaginare la Fase 3 del sistema scolastico, a partire dall’esperienza di attraversamento della crisi. Esperienza che dimostra almeno tre cose: che il lavoro scolastico non è semplice trasmissione di pacchetti di nozioni, ma lavoro di cura; che la scuola è interna a una rete che la connette all’infosfera, e di cui la DaD è la punta dell’iceberg; che la crisi, nelle sue cause e nelle sue diagnosi, chiama in causa lo stesso statuto disciplinare sapere, perché concatena la crisi pandemica alle crisi globali nell’ecologica e nella società all’interno di quell’unità temporale chiamata “Antropocene”. Questo concatenamento chiama in causa i diritti alla salute, all’abitare, alla mobilità degli esseri umani tanto quanto il diritto alla conoscenza.

La questione diventa allora: quale scuola all’altezza di questa sfida? È evidente che non possiamo limitarci a chiedere il potenziamento di questa scuola, basata sulla scomposizione, segmentazione e separazione analitica del sapere in discipline, ciascuna delle quali coriandolizzate in unità minime, competenze, parole-chiave, a fronte di una crisi che mostra la natura ecosistemica dei saperi fra loro intrecciati. Davvero c’è chi pensa che due ore di scienze più una di storia possano rispondere al diritto alla conoscenza che questa crisi impone, senza intrecciare i saperi, senza ridisegnarne in modo radicale le mappe, senza adeguare la didattica alla sfida della complessità? Senza mettere in questione la stessa crisi dell’educazione attuata dalle politiche scolastiche, come minimo, dell’ultimo ventennio?

La scuola attuale, così come il sistema sanitario – la cui inadeguatezza è sotto gli occhi di tutti – è modellata dalla dottrina del New Public Management e i suoi presupposti di base:

  • 1. non c’è altro modello di gestione della società possibile al di là di quello basato sulle regole del mercato (There Is No Anternative: TINA);
  • 2. le regole del mercato vanno estese anche a quegli ambiti della società dal quale il mercato era escluso: istruzione, sanità, pubblica amministrazione;
  • 3. il mercato non contempla un’entità come la società, ma singoli individui concepiti come consumatori-utenti, imprenditori di sé stessi, individualmente responsabili del proprio successo o insuccesso.

È quasi macabro notare che nello scorso settembre, alla vigilia del salto di specie del virus, il ministro Fioramonti si premurava, attraverso le linee guida dei percorsi per le competenze trasversali (DM 774/2019), di riproporre il Sillabo per l’educazione all’imprenditorialità (vero filo rosso che collega la politica scolastica dei governi comunque colorati dell’ultimo quinquennio) e a proporre strategie didattiche quali l’Impresa formativa simulata, attraverso cui gli studenti «riproducono in laboratorio il modello lavorativo di un’azienda vera, apprendendo i principi di gestione attraverso il fare (action-oriented learning)». Cioè quei modelli che hanno causato, applicati alle aziende sanitarie e alle imprese lombarde, la propagazione del virus e il 50% del totale nazionale delle vittime in una sola regione. Cosa dovrebbe significare oggi una realistica simulazione d’impresa? Simulare la gestione di una struttura di ricovero, far interpretare a qualche docente anziano il ruolo del bisognoso di cure, e metterne in scena il decesso (simulato) in nome di una più funzionale ottimizzazione delle risorse e del prevalere del profitto sul diritto alla protezione e alla cura?

Di questa dottrina del NPM, la scuola trasmette l’essenza attraverso la costituzione di soggetti atomizzati e isolati, educati al successo personale: come la salute è ridotta a un fatto privato che, individualizzando in malato, lo colpevolizza per il costo delle cure o la costituzione fisica inadeguata (o allo stile di vita non conforme ai modelli coerenti con la mercificazione delle esistenze e il primato del consumo), così nella scuola il successo o l’insuccesso sono riferiti alle capacità del singolo; come nella crisi ecologica e pandemica si colpevolizza il singolo che non differenzia la spazzatura o il podista-untore, invece di mettere in questione il sistema, così nella scuola si colpevolizza il singolo insegnante o discente fannullone, invece di chiamare in causa l’inadeguatezza del sistema-istruzione.

La crisi pandemica ci dimostra invece che è il sistema, e non il singolo, al centro della cura: persino le versioni più ciniche, basate sul calcolo delle vittime per il conseguimento della cosiddetta immunità di gregge, devono riconoscerlo. E che al comportamento virtuoso deve corrispondere un sistema virtuoso nel quale il singolo si relaziona col prossimo.

Ma la pandemia ci mostra, soprattutto, che la crisi pandemica si intreccia con la crisi ecologica, sociale e psichica dell’essere umano nella tarda modernità, come da tempo ci dicevano, inascoltati dai più, Félix Guattari e Gregory Bateson, Franco Basaglia e Franz Fanon; come hanno ripetuto pensatori eccentrici o fuori-fuoco rispetto al canone occidentale (Mark Fisher e Donna Haraway, solo per nominarne due), o eccentrici rispetto alla provincia occidentale quali i bengalesi Chakrabarty e Ghosh, il mumbayano Appadurai, l’africano Mbembe. Che il malato sia «prima di tutto uno che soffre e chiede di essere soccorso» è un’affermazione che dovrebbe essere inscritta sull’ingresso di ogni scuola, perché malato è l’essere umano non solo nel corpo, ma anche nella psiche; così come lo sono il precarizzato e il migrante, lo sono i viventi non umani la cui fuga dal proprio habitat modifica le relazioni fra ecosistemi, lo è l’ambiente intero. Una scuola all’altezza di questa sfida deve saper suscitare processi di consapevolezza globale: saper mettere al centro non questa o quella disciplina, ma le ecologie dell’ambiente, della mente, del corpo, del sociale.

È del tutto evidente che l’attuale scuola va completamente rifondata, a partire dalla figura dell’insegnante, in ogni ordine e grado del sistema. Come è scritto in La vita oltre la pandemia:

Bambin*, adolescenti, ragazz* stanno pagando un prezzo altissimo alla pandemia. La trasmissione del sapere non può essere separata dalla prossimità con coetanei e docenti, che svolge una funzione fondamentale nella costruzione di relazioni autonome, svincolate dalla famiglia. Il suo venire meno avrà conseguenze pesanti, oltre che sul piano affettivo e sociale, anche sul piano politico: scuole e università sono luoghi dove le generazioni scoprono e alimentano le proprie passioni erotiche e politiche. Proprio attorno alla scuola si sono mobilitate da subito tante reti di solidarietà territoriali, da quelle che si sono adoperate per colmare il digital divide, a quelle che hanno sopperito ai bisogni primari. Le pratiche di mutualismo non sostituiscono gli interventi istituzionali, ma segnano la via per la costruzione di un nuovo spazio comune, oltre lo Stato, ma anche oltre la famiglia, che non può più essere assunta come unità di misura attorno a cui distribuire reddito e risorse.

Se quello scolastico è lavoro di cura, allora il suo svolgimento si incrocia con la riproduzione sociale: la didattica che viene svolta determinerà i processi identitari, le strutture mentali, gli stili di vita e di apprendimento della società a venire. Mettere in questione che lo svolgimento a distanza, in situazione di emergenza, della didattica debba appoggiarsi ai network privati e alle grandi piattaforme che determinano le forme (quindi anche la sostanza) dell’interazione didattica e prelevano dagli utenti dati sensibili che vengono messi a profitto, piuttosto che piattaforme Open source, va ben oltre la tutela di una qualche privacy: chiama in causa il giudizio critico sullo stato di cose presente, e sulla società che vogliamo – nella quale agirà la scuola che vogliamo.

Rimettere in questione la figura di lavoratori e lavoratrici della scuola significa, infine, rimettere in questione lo stesso statuto giuridico del lavoro nella scuola: se le/i docenti non fanno mera trasmissione di pacchetti o podcast nozionistici, ma si collocano nella sfera della riproduzione sociale attraverso la trasmissione non solo di un sapere rimesso al centro, ma anche attraverso la propria affettività, emotività, passionalità, è del tutto evidente che tutto questo va riconosciuto andando oltre la figura del dipendente pubblico con contratto di diritto privato, al cui centro non c’è la trasmissione del sapere e il prendersi cura di bambine e bambini, studentesse e studenti, ma il mero scambio prestazione oraria-salario (il “sinallagma contrattuale”). Dunque con un salario che corrisponda al reale valore d’uso, alla qualità del sapere trasmesso; non al valore di scambio, alla contabilità delle ore prestate.

Viviamo, lavoriamo, insegniamo in una scuola regolata dall’angusto orizzonte del rapporto di diritto privato che costringe a calcolare con la durezza di uno Shylock: «non avrò per caso lavorato mezz’ora più di un altro, non avrò guadagnato un salario inferiore a un altro?», mentre studentesse e studenti si chiedono: «non avrò preso un mezzo punto in meno di questo o quella?». Questo mondo popolato da piccoli, ingrigiti Shylock quotidiani è il mondo nel quale si attua o meno non solo il diritto costituzionale all’istruzione, al sapere, ma anche quello a una vita degna di essere vissuta: al suo interno è regolamentata l’attività di produzione del sapere, di maturazione dell’autonoma capacità critica, di sviluppo della capacità di imparare a imparare. Si dice spesso che la scuola avrebbe per fine non una testa ben piena, ma una testa ben fatta: ma non si sottolinea a sufficienza che questa testa ben fatta è un cervello collettivo, la cui essenza è la cooperazione sia orizzontale tra soggetti docenti o discenti, sia verticale tra docenti e discenti, sia allargata fra gli umani, l’ambiente che li contiene e le altre specie che con pari diritti e dignità lo popolano.

La scuola della Fase 3 deve ambire a quest’altezza: ne va, né più né meno; della vita dei corpi e delle menti non solo di oggi, ma di domani.

*questo testo è l’espansione dell’intervento al Workshop “Diritto alla salute, vaccino del comune, riconversione ecologica” all’interno della seconda assemblea #ilmondocheverrà del 30 aprile

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