di VERONICA GAGO (da Bariloche – Patagonia argentina). Sabato 25 novembre, nella Patagonia argentina, è stato assassinato Rafael Nahuel, un giovane mapuche di 22 anni. A ucciderlo, con colpi sparati alle spalle, è stata una squadra speciale della Prefettura, che ha aperto il fuoco contro un gruppo di Mapuche sulle montagne della comunità «Lafken Winkul Mapu», non lontano dalla città di Bariloche. La comunità era stata violentemente sgomberata due giorni prima su ordine di un magistrato.

BARILOCHE HA OSPITATO lo scorso fine settimana la prima riunione del G20 a presidenza argentina, ed è completamente militarizzata: è uno degli scenari privilegiati in cui viene rappresentata la nuova versione della «conquista del deserto», significativa espressione con cui si indicano le campagne militari che intorno agli anni ’70 e ’80 dell’800 coronarono il consolidamento dello Stato nazione con il massacro delle popolazioni indigene mapuche, tehuelche e ranquel.

Prima il caso Maldonado e ora l’assassinio di Nahuel (proprio nel giorno in cui stava svolgendo la veglia funebre per Maldonado) sembrano rievocare quel drammatico momento storico, con la sua scia di violenza e di conflitti. E oggi come allora al centro del conflitto in Patagonia continua a esserci la terra, con una decisiva responsabilità del gruppo Benetton.

DOPO L’ULTIMO SGOMBERO cinque donne e quattro bambini sono stati fermati e messi in isolamento dalle forze di sicurezza. Diverse organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato maltrattamenti e irregolarità. «Vi piace tanto la terra, no? Mangiala»: questo hanno detto, secondo la testimonianza di un’avvocata, agenti di polizia a una giovane machi (autorità spirituale, medica e comunitaria mapuche) dopo averla fermata, colpendola ripetutamente alle gambe per costringerla a inginocchiarsi nonostante il suo rifiuto. Sembra una scena della caccia alle streghe ricostruita da Silvia Federici nel suo Calibano e la strega (Mimesis, 2015), quando le donne venivano colpite per distruggere il loro sapere comunitario e il loro potere politico, e per rendere possibile l’espropriazione delle terre all’origine del capitalismo. È quel che succede anche oggi, in Argentina.

La morte di Santiago Maldonado e l’assassinio di Rafael Nahuel non sono casi isolati. I loro nomi vanno a sommarsi a quelli di molti altri militanti indigeni scomparsi o uccisi negli ultimi anni in conflitti attorno alla questione della terra in altre regioni del Paese. E in Patagonia sono i due casi più drammatici all’interno di un impressionante aumento della repressione contro le comunità mapuche e di una crescente militarizzazione dei territori.

C’È UN FILO ROSSO che collega tutto ciò: è il violento riemergere del razzismo come linguaggio privilegiato della guerra sociale – come dispositivo che organizza una nuova economia della violenza. La vicepresidente della Repubblica, Gabriela Micheletti, ha nei fatti rivendicato il ruolo della polizia nella promozione di questo razzismo parlando di una nuova dottrina della sicurezza nazionale, secondo cui la «presunzione di innocenza» deve sempre essere fatta valere per le forze di sicurezza.

Il ragazzo ucciso sabato scorso, ci racconta con la sua breve vita molte storie e ci propone immagini potenti. Rafael era un mapuche di città, cresciuto e vissuto nei quartieri poveri di Bariloche, e solo da poco aveva intrapreso la via della militanza comunitaria e territoriale. Il suo assassinio ripete il gesto del «grilletto facile» della polizia nelle periferie metropolitane, che ha fatto innumerevoli morti negli ultimi anni. E al tempo stesso segna un salto qualitativo per il modo terroristico con cui è stata organizzata l’operazione repressiva, per la militarizzazione dell’intera area, per il linguaggio bellico che si è utilizzato e legittimato.

L’OFFENSIVA MEDIATICA e militare intreccia quindi razza, criminalità e sicurezza per fare dei giovani come Rafael i nuovi «dannati della terra».

Nel conflitto in Patagonia, già lo si è detto, la questione coloniale riemerge attraverso il suo punto di maggiore intensità storica: la proprietà della terra. Come ha dichiarato una donna della comunità sgomberata, in un video divenuto virale, la lotta dei mapuche contro Benetton è quotidiana, è una lotta contro il filo spinato che segna la proprietà delle sue terre così come contro le sue pressioni per costringere le famiglie a vendere le terre. E Benetton compra terre con case mapuche e le lascia intatte, esibendole come un museo vivente a dimostrazione del fatto che rispetta i «popoli originari». A Bariloche, intanto, i cosiddetti “quartieri alti” (ovvero le periferie povere) sono il rimosso delle idilliache cartoline turistiche con cui si cerca di ripulire l’immagine della città, ben conosciuta per aver offerto riparo a molti gerarchi nazisti dopo la guerra.

QUESTI STESSI QUARTIERI poveri, del resto, si infiammarono con una rivolta nel 2010, dopo che la polizia uccise un ragazzo di 15 anni, Diego Bonefoi. E da allora non hanno cessato di essere teatro di conflitti e lotte sociali. È qui che il razzismo amplifica a dismisura l’ideologia della (in)sicurezza.

I conflitti nella periferia urbana sono caratterizzati dalla presenza di una nuova generazione di militanti mapuche, che politicizzano il dibattito sul territorio, sul diritto alla città e sulla proprietà della terra – nei quartieri, sui monti, sulle rive dei laghi. È precisamente questo tessuto di connessioni che il governo punta a cancellare attraverso il “cliché” dell’«ancestralità»: da una parte accusando i mapuche di non essere “realmente” fedeli alle loro tradizioni, dall’altra di lanciare «grida di guerra ancestrali» – come si legge nel grottesco e perverso comunicato del ministero dell’Interno relativamente allo «scontro a fuoco» che si è concluso con l’assassinio di Rafael Nahuel.

Attorno al conflitto mapuche vengono oggi riesumati i fantasmi degli anni ’70 e del nemico interno, si parla apertamente di «terrorismo» per coprire la plateale illegalità dell’azione delle forze repressive. La novità, tuttavia, consiste proprio nel modo in cui la questione della razza riemerge oggi nel nuovo contesto di «conquista del deserto», tema che in Argentina è sempre stato eluso, relativizzato, rimosso.

LA PRESIDENZA di Maurizio Macri ha determinato un salto di qualità nell’alleanza tra grandi imprese e forze repressive. Queste ultime sono ora a completa disposizione per la difesa delle multinazionali, sempre più direttamente coinvolte nella proprietà terriera: razzismo istituzionale e militarizzazione dei territori sono pienamente funzionali a questo disegno, che comprende tra l’altro la combinazione dell’intensificazione dell’agribusiness con la speculazione immobiliare legata al turismo.

Questa nuova configurazione del razzismo costituisce oggi un problema fondamentale per ogni lotta sociale in Argentina – dalle mobilitazione femministe a quelle contro la riforme neoliberali della scuola e del lavoro. Quando si uccidono, si arrestano, si torturano militanti mapuche, quando i mapuche in quanto tali vengono criminalizzati, si mette in moto una macchina razzista-poliziesca, un dispositivo di terrore, i cui effetti colpiscono tutti e tutte. Quel che si tenta di riattivare è un «inconscio coloniale» che traduce in paura e insicurezza personale e privata la mancanza di lavoro, di accesso a servizi pubblici gratuiti e l’incertezza per il futuro prossimo.

LE LOTTE PER IL TERRITORIO collegano una molteplicità di lotte contro la privatizzazione degli spazi e delle risorse pubbliche e comuni. Sono inoltre lotte che istituiscono nuovi legami tra corpo e territorio, producendo quel che dall’interno del movimento NiUnaMenos abbiamo chiamato (riprendendo un concetto forgiato nelle lotte contro il “neo-estrattivismo”) un corpo-territorio: per questo consentono di cogliere il rapporto tra le violenze contro i corpi femminilizzati e le violenze contro i territori che sostengono e rendono possibili altre forme di vita, altre autonomie. Un grido collettivo si leva oggi in Argentina da questi “corpi-territori”, un grido che esige la fine delle politiche razziste di morte e sacrificio di una parte della popolazione.

articolo pubblicato da il manifesto il 5 dicembre 2017

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