di GIROLAMO DE MICHELE.

In un recente intervento, prendendo spunto dalle dichiarazioni del ministro Sangiuliano sulla cosiddetta perdita dell’egemonia culturale della sinistra a vantaggio della destra, Nicola Lagioia ha argomentato (cito dal titolo) che “Sangiuliano è un disastro, ma non è l’unico problema della cultura italiana”. Estraggo dal suo scritto questo passaggio:

Penso, a differenza di molti, che la questione dell’egemonia culturale tra destra e sinistra sia l’ennesima ventata di fumo negli occhi per occultare una questione più seria e annosa: la mancanza di idee, di progettualità, di investimenti in cui i governi di ogni ordine e grado si sono distinti negli ultimi anni e che quest’ultimo sta portando all’eccellenza, col conseguente pericolo che l’Italia diventi una provincia delle arti, una presenza culturale di terz’ordine. Il problema non è l’egemonia culturale della destra in Italia, è la perdita di competitività dell’Italia nel mondo, a cui la destra sta dando un contributo molto importante. […] Ma: è questo fallimento una prerogativa della destra? È tutta colpa di Sangiuliano? Risposta: no.

Forse sono meno interessato di Lagioia ai destini dell’Italia in quanto tale, ma individuo un nucleo nel suo argomento sul quale posso concordare: la provincializzazione culturale dell’Italia (quella politico-geografica è un dato del quale prima o poi dovremo prendere atto, ma questa è un’altra storia) è la conseguenza di una sempre più scadente produzione culturale, che a sua volta rimanda ai mezzi, forme, soggettività di questa produzione: ai processi di produzione, dei quali si parla sempre troppo poco – sia ringraziato Massimo Carlotto, che di recente ce lo ha ricordato.
A giusta ragione Lagioia sposta il focus dalla presente alle passate gestioni del ministero: perché (ed è uno dei segnali del pessimo stato delle cose nell’attuale produzione culturale italiana) a focalizzarsi sul solo presente si corre il rischio che la crisi culturale appaia all’improvviso, senza che si narri una storia che la spieghi, così come i migranti appaiono all’improvviso sui barconi davanti alle coste, o i rom nei campi, senza un apparente perché. Su quel vuoto si innestano poi le narrazioni della destra egemone.
Lagioia ha scritto anche, sul suo social, qualcosa di emblematico:

Mi lascia da pensare chi, da operatore culturale, o addirittura da istituzione culturale, mi scrive privatamente dicendomi che ho avuto coraggio, che lui/lei/loro vorrebbero tanto dire la stessa cosa (avendo magari anche argomenti migliori dei miei) ma temono che questo governo possa fargliela pagare.

A questз colleghз bisognerebbe forse regalare l’alieno di Ghali o l’armadillo di Zarocalcare… Ma al netto di una facile ironia, il loro timore è parte del problema; e se sei parte del problema non sei parte della soluzione, non c’è modo di mettersi in un’altra posizione: “Per l’arte essere apartitica significa semplicemente essere del partito dominante” (Brecht). Essere parte del problema significa essere parte dell’egemonia culturale e politica della destra che è in atto dagli anni Ottanta, come minimo per la propria incapacità di esercitare un’azione politico-culturale incisiva. La consapevolezza è un’aggravante, l’inconsapevolezza non è un alibi.
Cerco di spiegarmi partendo da un’assenza argomentativa. È da un bel po’ prima di Sangiuliano che la destra usa l’argomento “egemonia culturale della sinistra”, intendendo per questa l’occupazione dei posti nelle istituzioni, redazioni, centri culturali, festival ecc. Ebbene: mi sarei aspettato un intervento di qualche gramscianə durə e purə, al limite spocchiosettə tipo i personaggi interpretati da Luigi Lo Cascio, che spiegasse che l’egemonia di cui scriveva Gramsci non era quella roba lì, ma [segue spiegazione argomentata con dovizia di citazioni dai Quaderni]. E invece no. Mi sono chiesto perché, e poi mi sono risposto con un’altra domanda: quanti produttori di cultura davvero gramsciani sai nominarmi? Non gente che abbia compitato Gramsci a memoria – di quellз, a iosa (ma, come Stash Fiordispino, non è tatuandoti David Bowie sul petto che smetti di essere il cantante dei The Kolors): che lo abbia capito, e dopo averlo capito fatto proprio, cioè interiorizzato nella propria pratica culturale. Qui sto utilizzando “Gramsci” non come nome proprio di un autore, ma come una funzione o un operatore: nel senso che si può agire gramscianamente senza essere gramsciani, perché si è qualcos’altro, o al limite senza che sia necessario chiedersi se dietro una tal produzione culturale c’è o meno la lettura del Gramsci autore – Mark Fisher, per dirne uno.
La risposta che mi sono dato alla seconda domanda è un elenco talmente misero che evito di sciorinarlo. Ma è chiaro che questa ignoranza, a volte evidente come ci fosse un display che si accende sopra le teste, contribuisce (al di là delle intenzioni e dei contenuti) a dare una mano per mantenere sempre gli stessi rapporti sociali: un po’ come il silenzio di quasi tuttз lз cantanti a Sanremo e altrove su Gaza contribuisce a reiterare la narrazione unilaterale di Israele sul 7 ottobre come giustificazione di un genocidio.

E allora: cosa intendiamo, quando parliamo di produzione culturale? Butto giù un esempio che mi appare emblematico.
Premio Strega 2021. Buona parte dei romanzi giunti in finale, o nella sua prossimità – senza entrare nel merito delle qualità formali, stilistiche – presentavano tratti comuni, che peraltro si sono reiterati negli anni successivi: la dimensione privata, la famiglia come contesto, le mura domestiche. È davvero di questo che avevamo bisogno dopo il covid? Attenzione: un romanzo non si scrive, e non si pubblica (ci sono tempi tecnici, che noi scrittorз conosciamo bene) in pochi mesi. I romanzi del 2021 erano (presumo) già in fase di scrittura quando il covid ci ha chiusi in casa, e il numero dei morti equivaleva ogni settimana a quello dell’intera stagione delle stragi: dobbiamo pensare che importanti scrittorз hanno continuato a scrivere di mura domestiche e relazioni familiari, senza chiedersi se è di quello che, in quella situazione, unə narratorə doveva narrare? Si, dobbiamo: perché è successo. Ed è già un problema che stesse succedendo prima del lockdown – e continua a succedere: lo scorso anno uno scrittore si è chiesto, davanti alle anticipazioni dei romanzi in uscita (nel 2023): “possibile che nessuno o quasi arrischi novità dal punto di vista della struttura? Davvero la narrazione non trova modo di aggiornarsi?”.
Quarant’anni fa ci fu un furibondo dibattito su La storia di Elsa Morante; la principale critica dei detrattori era quella di sentimentalismo: eppure il romanzo si precludeva in modo strutturale la possibilità di narrare una famiglia, e di rinchiudersi in mura domestiche. Vent’anni dopo, riassumendo la discussione, Marino Sinibaldi ha sostenuto che per la sinistra intellettuale l’incomprensione di quel romanzo ha rappresentato un’occasione perduta “per mettere in discussione le proprie certezze prima del loro crollo”. Sono passati altri vent’anni, siamo più abituati a romanzi e romanzierз imposti dal pubblico e non dalla critica (da Elena Ferrante a David Foster Wallace, per dire i primi due che mi vengono in mente), “romanzo senza ideologia” è oggi una locuzione positiva: perché l’evento televisivo non ha riaperto la discussione su La storia? Davvero di Marino Sinibaldi dobbiamo ricordare solo che è stato licenziato con un sms, e non che ha detto cose su cui riflettere?
Continuo con le libere associazioni; la dimensione domestica, memorialistica, consolatrice della narrativa italiana era identificata da Stefano Tassinari – che non so quanto avesse letto Gramsci, di sicuro conosceva più Trotzkij e i Rolling Stones, ma sapeva sempre quel che diceva e faceva – con un preciso punto d’inizio: il Diario di un millennio che fugge di Marco Lodoli. Ma proprio contro quel tipo di letteratura, negli anni Zero, si era imposta una nuova generazione di scrittorз capaci di agire su più fronti: una narrativa impegnata, ma anche una capacità di lettura critica che bypassava critici e critiche laureatз, e una capacità di costruzione di trincee e casematte – dai blog alle webzine, alla realizzazione di collane e case editrici – per combattere le battaglie culturali. Una webzine come Carmilla (ne parlo perché per un decennio ne sono stato redattore) era partita dal genere – fantascienza, noir, fantastico – perché in quei linguaggi individuava un terreno di possibile comunicazione con quelle generazioni di ragazzз cui il linguaggio della sinistra che ormai si poteva anche definire “storica” era alieno. Il che significava – e non certo solo per Carmilla – che ci si chiedeva quale fosse il pubblico a cui rivolgersi, in quale strato o spezzone sociale ci si intendeva collocare, quale scopo si dava al proprio progetto letterario e/o culturale.
Sempre in quegli anni Zero, lз intellettualз pugliesi hanno vissuto una stagione particolare con le due giunte Vendola. Quasi tuttз noi pugliesз ci abbiamo creduto, all’inizio; c’è chi si è disamorato già durante il primo giro di boa, chi nel corso della seconda legislatura, chi ha atteso la fine del ciclo decennale per riflessioni e bilanci di grande spessore. Ma tuttз, credo di poterlo dire, hanno partecipato a quella stagione in base a un collocamento sociale, una progettualità, uno scopo o un’aspettativa ben chiara: non per uno strapuntino sul carro o uno spazio televisivo. Ed è in base alle stesse ragioni che ne hanno preso le distanze. Si ragionava e si procedeva in base a una progettualità politica, che si fosse riformistз o radicali. Perché questo non accade più? La ragione è solo che siamo diventatз tuttз adultз o siamo invecchiatз, abbiamo messo famiglia, ci si è abbattuto sopra quel fato che vuole destinatə a morire pompierə chi nasce incendiariə? È ineluttabile che il lato oscuro della Forza vinca sempre, che dopo aver combattuto i mostri dell’editoria si diventi Darth Vader o la regina Zabo?
Però osservo una coincidenza che forse non è casuale, sul piano simbolico: lo sgretolamento del consenso di Vendola dovuto alla vicenda dell’ILVA di Taranto, verso la fine di quegli anni Zero, coincide con l’avvio di una serie tv antimafia quasi decennale, che rappresenta sotto ogni aspetto l’abdicazione del noir impegnato alla commercializzazione seriale condita di buoni sentimenti. Un noir che non provava neanche a sfiorare i rapporti reali fra crimine e società, annegandoli in un familismo consolatorio: per un parente colluso c’è sempre una figlia o una sorella in polizia che riscatta il buon nome di famiglia, e ovviamente una storia d’amore salvifica.
In quello stesso frangente, nell’inverno 2011, risale una, forse l’ultima, battaglia politica e culturale combattuta e vinta da quella generazione di scrittori: quella contro il “rogo di libri” e la pulizia politica nelle biblioteche promossa dalla regione Veneto.

Il covid, come in molti altri ambiti, ha agito come un reagente chimico, portando a visibilità ciò che era esistente ma invisibile ai più da tempo: ma appunto, quanto tempo prima è successo che i nostri progetti culturali non hanno più retto alla forza di una crisi che si è fatta via via permanente? Cosa avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, prima che le dighe crollassero?
Penso alla scuola, perché ci lavoro. Lodoli, ancora lui, aveva inaugurato una narrazione scolastica che in un libro molto letto (e talvolta plagiato) ho definito “lodolismo”, nella quale il bozzetto, la macchietta, il persiflage sostituivano la critica dello stato di cose esistente. Lodoli, lo ricordo, è stato uno dei consulenti di Renzi: è stato lui a sottrarre a un movimento di lotta per la riforma della scuola la locuzione “buona scuola”, e a risematizzarla. A cosa fa segno il fatto che sia ritornata in auge la canzonatura lodoliana sulla scuola – solo, scritta peggio – anche fra chi si ritiene “dalla parte della scuola”?
Nei giorni del lockdown si diceva che se si fermano sanità, scuola e logistica si ferma tutto. Ed era vero. Era il momento di alzare la voce, di chiedere non solo il pane ma anche le rose, il barolo e il San Daniele: ma quanti narratorз, operatorз culturali, intellettuali si sono fattз avanti per chiedere a chi cercava di organizzare lotte in quei settori in che modo potevano essere di aiuto? E quantз, per contro, si sono lasciatз ammaliare dal fascino del “governo amico” che avviava politiche scolastiche
– dall’aziendalizzazione della didattica al Liceo Made in Italy, già presenti nel PNRR del governo Conte – che sono contestate solo ora che abbiamo cambiato premier? Posso trarne la conclusione che ci sono intellettuali “di sinistra” che non leggono programmi e piani economici dei governi, oltre che dei movimenti di lotta? Che alla critica dell’economia politica hanno sostituito le bolle social, all’internazionalismo quel peculiare localismo che sono le conventicole (e fra queste alcune sono un po’ più conventicole di altre), e alla lotta di classe la conta delle posizioni, e il piagnisteo per lo spoil system? Però alla fine l’attenzione per la scuola rimane: non come luogo di formazione critica dei cittadini di domani, ma come mercato nel quale scrittorз anche bravз, intelligenti e raffinatз vanno a parlare in cambio di una botta di 2-300 libri acquistati.

Dunque, per ricordare un centenario che sta sfuggendo ai più, dovremmo chiederci Che fare?
Quasi novant’anni fa Walter Benjamin lanciò, in un congresso internazionale di scrittorз antifascistз, la parola d’ordine della politicizzazione dell’estetica contro l’estetizzazione fascista della politica. Al tempo intellettualз, artistз, operatorз culturali questo facevano: organizzavano la resistenza, invece di piagnucolare per le posizioni perdute, o per ricostruirsi una verginità scimmiottando il linguaggio del Comitato Invisibile o sdegnando l’uva in alto che è troppo acerba. Dovremmo pensarci seriamente: prendendo spunto da alcuni incontri autogestiti o autoconvocati che già stanno accadendo, ma con una precisa intenzione organizzativa, e altrettanto precisi paletti. Magari sottoscrivendo una dichiarazione d’intenti, un codice etico comune, trasversale ale soggettività, ai generi letterari, alle case editrici. Tornare a scavare trincee e costruire casematte; l’intervento di Massimo Carlotto agli Stati Generali del Genere contiene già spunti utili e utilizzabili:

Se è troppo tardi per cambiare le logiche dell’industria culturale è anche vero che autori e lettori che si riconoscono in questa analisi, possono decidere di confrontarsi in modo organico, elaborando teoria, proponendo una narrazione altra. Dobbiamo dare corpo a questa tendenza, renderla riconoscibile. In modo che sia evidente la separazione di intenti narrativi da quella consolatoria, analgesica.

La seconda proposta che mi sento di lanciare è di disertare tutti (ma proprio tutti) quei luoghi, eventi, festival, premi, istituzioni dei quali si contestano le nomine. Andarsene altrove: farsi i propri festival, magari senza classifiche e premi, i propri eventi; andare nelle scuole, nelle manifestazioni, là dove ci sono segnali di vita intelligente; cominciare a pensare a forme di autoproduzione culturale senza sfruttamento del lavoro subordinato. Ricominciare da dove, sempre, ogni volta, si deve partire: Compagnз, parliamo dei rapporti di produzione!

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