Riprendiamo qui l’intervista di Hubaut a Emilio Quadrelli, sbobinatura di un’iniziativa tenutasi lo scorso 24 luglio in via Avesella 5/a a Bologna.


In Andare ai resti definisci l’anomalia barbarica quella figura indomita della ribellione sociale che negli anni Settanta ha trovato una circolarità di lotte tra carcere, quartiere e fabbrica grazie alla grammatica comune dell’illegalità. Divenire barbari significa distruggere ed affermarsi per liberarsi, premettendo una scelta di campo. Quel tessuto venne annientato dai dispositivi repressivi degli anni Ottanta, lasciando spazio ad una moltitudine selvaggia, un nuovo lumpen e un nuovo proletariato extralegale che però agisce secondo dinamiche esclusivamente individuali e reiterando logica di dominio e violenza ambientale. Di fronte all’intensificarsi dei dispositivi disciplinari della società neoliberista e ad un immaginario del gangster sempre più diffuso che rasenta l’elogio della malavita organizzata, come vedi cambiato il rapporto tra classi subalterne e illegalità ed in particolare come e dove si può dare un ritorno del barbaro che faccia propria una grammatica della solidarietà di classe.

Emilio: Intanto credo che vada fatta una premessa, cioè che Andare ai resti è un libro storico. Potrebbe anche essere un libro sulla presa della Bastiglia, questo per dire quanta distanza ci sia tra quelle storie lì e il presente. Si tratta in effetti di un’anomalia che ha scardinato tutte le coordinate classiche del rapporto tra legalità e illegalità, tra crimine e polizia, eccetera. Cos’è successo?
Avete presente cosa scrive Foucault in Sorvegliare e Punire? Una delle tesi forti di Foucault è che la relazione tra crimine e polizia è una relazione di et-et. È successo che, al contrario, tra la fine degli anni Sessanta e parte degli anni Settanta questa relazione si inclina e diventa una relazione di aut-aut. Attenzione però, succede nelle carceri esattamente ciò che succede nelle fabbriche, nel senso che c’è una sinistra prigioniera, un centro prigioniero e una destra prigioniera. Quello che si afferma è l’egemonia della sinistra prigioniera nei confronti degli altri componenti prigionieri. Quindi non c’è un’unitarietà del corpo prigioniero, ma semmai c’è una spaccatura all’interno del corpo prigioniero che fa sì che questo soggetto metropolitano che rompe dentro le carceri sovverte quello che è il mondo classico della prigione.
Un po’ paradossalmente, ma neanche troppo, Andare ai resti può anche essere considerata, sotto un’altra angolatura, una storia della classe operaia, nel senso che i soggetti che fanno parte dell’incendio di Andare i resti sono sostanzialmente soggetti operai o soggetti contaminati dalla fabbrica, sono soggetti che non hanno nulla a che vedere con i mondi tradizionali, dei mondi illegali. È per questo che rompono con la tradizionale relazione il potere, con la subordinazione che c’è tra mondi criminali e polizia.
Chi leggerà Andare i resti noterà anche come i comportamenti dei prigionieri si sono diversificati nelle grandi città del nord, Milano, Torino, Genova, proprio a partire dalla composizione di classe che caratterizza queste città. Non è un caso che a Torino prevalga una logica propria dell’operaio massa, nelle lotte delle Nuove, a Milano prevale una logica propria dei tecnici e a Genova prevale una logica che, se vogliamo, è tipica di quel settore ancora legato all’aristocrazia operaia che caratterizza Genova – quindi il legame carcere-territorio-popolazione-classe operaia è quantomai forte. E lì c’è una cosa che spesso si dimentica, tutto quell’accumulo di forze, di tensioni, di conflitti che hanno caratterizzato gli anni Sessanta, perché poi è vero, l’esplosione avviene negli anni Settanta, ma l’accumulo di tutte quelle tensioni lì lo andiamo a trovare proprio negli anni Sessanta.
Allora, questa storia è di fatto irripetibile, perché soprattutto rompe la tradizione che c’è all’interno dei mondi illegali. Quello che ha caratterizzato quell’illegalità, lì entra in gioco il discorso sul barbaro, è che l’illegalità di quel periodo è un’illegalità barbara perché non è un’illegalità basata sullo scambio – l’illegalità del presente è invece un’illegalità selvaggia perché il selvaggio è l’uomo dello scambio. Tradotto in soldoni vuol dire: di che cosa si occupa l’illegalità contemporanea? Sostanzialmente di fornire beni di consumo alla città legittima, quindi è un’illegalità illecita da un punto di vista giuridico-formale, lo è molto meno da un punto di vista delle entrature che ha con i cosiddetti mondi normali, proprio perché sta dentro una logica di scambio, dentro una logica mercantile, dentro una logica di accumulazione di profitto, questo è il quadro che caratterizza i mondi illegali oggi.
Trovare un’analogia con i mondi di Andare ai resti mi sembra pressoché impossibile. Questo non vuol dire che il conflitto sia finito, questo vuol dire che il conflitto va ricercato dentro forme che sono completamente diverse, dentro soggetti che sono completamente diversi e che sicuramente danno adito anche a modellistiche completamente diverse. Una cosa mi viene immediatamente alla mente: noi oggi siamo di fronte a un’area penale di vastissime proporzioni, nel senso che abbiamo un sacco di gente che viene arrestata, ma in realtà quanti di questi sono criminali a tutti gli effetti? Quanti di questi sono illegali a tempo pieno? Decisamente una minoranza, anche perché noi oggi assistiamo nei confronti di ampie quote di popolazione emarginata a una configurazione abbastanza nuova nella giornata lavorativa, nel senso che l’attraversamento di mondi illegali, semilegali, legali da parte di forza lavoro che fa un po’ questo un po’ quest’altro è all’ordine del giorno. Per cui noi abbiamo sicuramente un numero enorme di persone che vivono l’illegalità, ma è un numero di persone che vive l’illegalità nella quale poi non trovano completamente reddito, nel senso che queste persone poi un giorno fanno il pusher di strada ma il giorno dopo per dire fanno il ponteggiatore e il giorno dopo fanno un’altra cosa ancora, poi tornano a fare il pusher, è tutto così.
Questo mostra come l’organizzazione del crimine sia dichiaratamente di ordine capitalistico. Ci sono notizie che ho reperito dalle cité di Marsiglia – non so quanto possono avere valore anche qua – che dicono che in più di un’occasione ci siano state forme di lotte sindacali da parte dei piccoli illegali nei confronti di organizzazioni criminali, perché? Per rivendicare maggiore salario rispetto alle attività che svolgevano, ma questo vi dà anche l’idea di come le gerarchie capitalistiche siano fortemente incistate dentro i mondi illegali. Ma questo ci rimanda anche alla condizione di vita, di lavoro, di esistenza, di quote non proprio secondarie di popolazione. Questo fatto che un sacco di persone, proletari in sostanza, vivano mettendo insieme una settimana lavorativa composta di tante attività che vanno dall’illegale al semilegale al legale mostra come vi sia una figura di lavoratore che potremmo definire “senza fissa dimora” che vive una condizione lavorativa a 360 gradi.
Tenendo anche presente che le attività illegali che vengono svolte (pensiamo al pusher di strada) sono assolutamente dequalificate rispetto all’illegalità degli anni ‘70 che presupponeva un sapere – questo valeva sia per chi faceva il ladro, e ancora di più per chi faceva il rapinatore. Oggi invece chiunque è in grado di fare quel lavoro lì, e ci sono delle analogie non secondarie rispetto alla ristrutturazione dei mondi del lavoro, per cui il rapporto tra l’illegalità e i mondi legali è quanto mai stretta, cosa manca? Questa è un po’ una provocazione, ma forse andrebbe scritto “Andare ai resti 2”, forse occorrerebbe un lavoro d’inchiesta, questa volta di natura politico-sociologica sul presente, quindi una capacità di descrizione di questi mondi dall’interno, cosa che immagino non sia facile, però forse questo è l’unico modo per poter comunque riuscire a decodificare ciò che accade ormai da tempo in queste realtà.
[…] Ad oggi le strade sono due chiaramente, o diciamo: va bene non ci sono più le cose di una volta e quindi arrivederci e grazie; oppure marxianamente stimiamo il fatto che il capitalismo inevitabilmente nel suo divenire non può che produrre conflitti, nuove forme di conflitti che si danno in maniera sicuramente diversa da quelle in cui si davano un attimo prima.
La gentrificazione è un’esemplificazione di ciò. A Marsiglia questa cosa è emersa in maniera abbastanza evidente, perché se antecedentemente c’era una perimetrazione del conflitto per cui il conflitto stava là ma non veniva qua (nel centro), con la rivolta del 2023 il conflitto è venuto qua… come mai? Proprio per il tipo di organizzazione capitalistica del lavoro legata al ciclo del turismo, dell’industria del divertimento e via dicendo. È tutta una quota di forza lavoro che è stata portata dalla Banlieue all’interno della città, quindi i banlieusard si sono trovati improvvisamente all’interno del ciclo produttivo della città e questo ha comportato tutta una serie di cose per cui noi dobbiamo sempre cogliere dentro le trasformazioni che ci sono il lato cattivo di queste trasformazioni, intendendo con ciò il prorompere della lotta di classe all’interno dei nuovi scenari. Stanno avendo modesti successi le organizzazioni dei precari e dei disoccupati legati alla ristorazione che hanno messo in piedi strutture sindacali, collettivi, comunità di precari che erano solo che inimmaginabili poco tempo prima. Ecco che di colpo, di fronte a ciò che sembrava la devastazione della città, l’altra faccia della medaglia è che cominciano a emergere figure proletarie e operaie organizzate all’interno dei settori che sembravano non organizzabili.
Genova è un pullulare di attività legate al turismo, al divertimento, alla ristorazione che mettono in campo prevalentemente una classe operaia immigrata che lavora nei retrobottega, insieme poi chiaramente ad altre figure che possono essere sempre collegate alla ristorazione come i rider. Non dico che questi siano gli unici, però questi rappresentano sicuramente un pezzo non secondario di questa nuova classe operaia, di questo nuovo proletariato. Se torniamo a bomba al discorso di Andare ai resti, queste persone impiegate in questi lavori con paghe con le quali non si riesce a vivere poi di fatto in qualche modo arrotondano attraversando le frontiere della legalità ed ecco che torniamo al discorso iniziale in cui la composizione sociale dell’illegalità è molto differente rispetto a quella che invece l’epopea di Andare in resti ha descritto. Bisogna inoltre tenere presente che se tu vai a leggere le biografie della stragrande maggioranza degli attori social negli anni ‘70 ti trovi di fronte ragazzi e ragazze con alle spalle situazioni familiari sicuramente non benestanti ma di classe operaia “normale”, l’assalto al cielo è dato da motivazioni forse più esistenziali, dietro c’è il ‘68, dietro c’è tutta una serie di cose, quello ad esempio che noi chiamavamo il bisogno di comunismo – piuttosto che il problema di mettere insieme il pranzo con la cena. Quando parlavamo di bisogni ricchi, quando facevamo questi discorsi qua, sicuramente abbiamo difficoltà a proporli nel contesto attuale dove se noi riconosciamo innanzitutto le condizioni di vita e di lavoro di buona parte di questa classe operaria sappiamo che i suoi problemi materiali sono veramente enormi rispetto a quelli che invece potevano avere i ragazzi delle batterie.

Seconda domanda. Stare con Kamo oggi, per noi in Occidente, significa riconoscere l’eterogeneità delle lotte e tentare una strada composizionista, identificando un soggetto plurale, oppure gerarchizzare i soggetti in lotta riconoscendo solo in alcuni profili e nelle loro rivendicazioni la composizione politica, su cui è possibile recuperare una funzione-Lenin? E con questo, un’ipotesi rivoluzionaria alle nostre latitudini si muove solamente contro l’Occidente e il suo privilegio, quindi valorizzando le dinamiche destituenti dei nuovi barbari, oppure è possibile operare un dentro e contro, dove il dentro riconosca la tensione riappropriativa interna alle soggettività del discorso occidentale?

Emilio: Rispondo sicuramente dentro e contro, nel senso che io non sono per nulla attratto da un Terzomondismo di ritorno, penso che il problema sia il dentro e contro all’interno dei nostri mondi, anche perché questo dentro e contro esiste e semmai c’è un problema di valorizzazione di questo dentro e contro. Il rischio è quello di dire: va bene, l’Occidente non ci interessa, ci interessa soltanto ciò che preme ai suoi bordi. A me non convince, anche perché quello che preme ai bordi dell’Occidente non mi rassicura assolutamente. Insomma, ho qualche difficoltà a considerare gli Houthi delle avanguardie rivoluzionarie, o anche solo dei compagni che sbagliano, io penso che invece il problema sia ancora una volta il dentro e contro all’interno dei nostri mondi.
Allora, io sicuramente penso che esista una gerarchia di soggettività intorno alla quale costruire l’organizzazione. Lo dico molto esplicitamente e poi proverò anche a spiegare – perché non vorrei passare per un comunista con 3 K, che non sono, non credo di esserlo o di esserlo mai stato: io credo che vada ribadito, fatte le tare del caso, il discorso sulla centralità operaia. In che senso? Nel senso che noi assistiamo da tempo al proliferare di tutta una serie di lotte, micro-lotte, dentro i comparti produttivi, la logistica in primis, ma non solo. Queste lotte non trovano alcuna corrispondenza, non trovano nessuna risposta. Allora, visto che tra l’altro l’ambito in cui siamo è un ambito che ci connota per non poca affinità, credo che possiamo tutti definirci figli dell’operaismo. Torno quindi agli anni Sessanta, non è che sono stati anni in cui ci sono state grandissime esplosioni operaie, qualcuna c’è stata sul finire degli anni Sessanta, ma in tutti gli anni Sessanta abbiamo assistito a una micro conflittualità operaia che soltanto perché un ceto politico intellettuale rivoluzionario – che è stato quello che ha dato vita alle varie riviste che hanno costellato l’operaismo (sulle quali si può discutere bene, male eccetera), però hanno avuto il merito, questo è indubbio, di svolgere la funzione di militanti, ricercatori, che hanno assunto la centralità operaia come elemento cruciale nel conflitto di classe.
Ma cosa ha fatto questo ceto politico? Oltre a sviluppare tutta una serie di analisi, ha avuto il grosso merito di mettere in collegamento le lotte operaie, perché non è che negli anni Sessanta gli operai sapessero quello che succedeva nel mondo, l’operaio di Porto Torres che bloccava l’officina Y, non sapeva che magari al Lingotto succedeva qualcosa di simile, perché gli eventi non erano di portata tale da conquistare le prime pagine dei giornali. Ma l’operaio di Porto Torres sapeva che al Lingotto stava succedendo questo, oppure quello che succedeva al Lingotto e a Porto Torres succedeva anche al Petrolchimico. Ora dico le prime cose che mi passano per la testa, proprio perché c’era una volontà da parte di un ceto politico di riunificare queste lotte operaie, di metterle in collegamento e soprattutto di farle discutere tra di loro, la cosa più interessante e importante a mio avviso che c’è stato in quegli anni lì, al di là sicuramente della produzione teorica di alcuni che è in dubbia e ha lasciato un segno, però è stata proprio la parte – userò un termine non bello ma è per intenderci – infame di questo discorso, cioè la voce degli uomini senza fama che dentro tutte queste esperienze trovavano la parola.
Un giornale come La Classe – che è stato quello che ha segnato un po’ il passaggio tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70, si caratterizza non solo per gli editoriali che sicuramente mostrano tutta una serie di argomentazioni quantomai lungimiranti, ma perché dentro le pagine di quei giornali c’è la voce degli operai, questi giornali avevano restituito il linguaggio agli operai. Noi oggi assistiamo invece a qualcosa per cui queste lotte passano tranquillamente in sordina. Pensiamo alla lotta delle donne di Valdagno, cioè le lotte contro il conte Marzotto negli anni ’60, che era stata un elemento dirompente. Noi abbiamo avuto un episodio, fatte le tare del caso, non dissimile con la lotta di Italpizza a Modena, una lotta condotta prevalentemente da donne immigrate, dura, una lotta che però è passata del tutto inosservata. Mentre la lotta di Valdagno è stata presa a simbolo proprio perché esisteva un discorso sulla centralità operaia, e su quella si sono costruiti percorsi di organizzazione e via dicendo, mentre una lotta come quella di Italpizza è finita come una banale bagatella sindacale.
Allora io credo che rimettere in circolo un discorso in cui alcuni soggetti sociali assumono il ruolo di centralità, non vuol dire piegarsi, non vuol dire fare questo discorso vagamente un po’ buffo, tipo ML, viva la classe operaia, vuol dire assumere però le lotte operaie come parte costitutiva e costituente di un possibile soggetto politico, credo che questo in qualche modo manchi. Ma assumere questo come centralità vuol dire anche allora tornare alla seconda parte della domanda, cioè quella del rapporto tra dentro e contro, perché se no noi finiamo con l’innamorarci di tutto ciò che va oltre Schengen, per capirci. Tutto ciò che va oltre i perimetri del cosiddetto occidente, ci innamoriamo di tutte queste cose qua, mentre ad esempio le lotte operaie che si sviluppano in giro per il mondo vengono sostanzialmente non prese in considerazione o comunque non assunte come centrali nel dibattito politico. Si discute di tutto, di tutte le forme non occidentali, volutamente non occidentali, con contaminazioni religiose eccetera eccetera, e vengono in qualche modo prese come modello, mentre ad esempio le lotte operaie che ci sono in Bangladesh, in India, in Vietnam, in Cina e via dicendo vengono tranquillamente bypassate come se queste invece non fossero le punte avanzate di una conflittualità di classe su base internazionalista.
Il dentro e il contro lo vedo in questa logica qua, noi abbiamo assistito in questi anni anche a grandissimi movimenti di massa importanti, quindi non è che non abbiamo assistito a delle mobilitazioni, non è che è tutto fermo, non è che non si muove niente, anzi abbiamo assistito a mobilitazioni che sono andate anche al di là delle più rosee prospettive, ma nel momento in cui si è andato a tirare le reti a me sembra che sia rimasto ben poco, perché il problema alla fine sembrava essere più la manifestazione, l’evento, la comunicazione, conquistarsi le prime pagine dei giornali, oppure la socializzazione dei vari social piuttosto che la costruzione di un’organizzazione politica. Un qualcosa in grado, a partire comunque da quelle manifestazioni di piazza che sicuramente erano importanti, che però il giorno dopo fosse in grado di essere presenti nei territori, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, che fosse in grado di essere presenti dentro la classe e di sviluppare gli istituti proletari del contropotere.
[…] A me sembra che le mobilitazioni che ci sono state sulla Palestina abbiano un carattere – non le voglio sminuire, per carità – sostanzialmente etico, nel senso che di fronte al genocidio di un popolo c’è una reazione spontanea, c’è un’indignazione spontanea di natura sostanzialmente etica, non potrebbe essere altrimenti, che sta attraversando direi l’intero spazio internazionale. Non credo che si possa parlare di una qualche analogia tra la Palestina e il Vietnam, questo per tutta una serie di motivi, perché comunque la solidarietà alla resistenza, alla guerra, alla lotta vietnamita era caratterizzata da ben altre caratteristiche. Per dirla molto chiaramente: non c’era manifestazione sul Vietnam che non finisse con l’assalto a un’ambasciata americana o qualcosa di simile, c’era un’identificazione della guerra di popolo che veniva trasportata anche nei nostri mondi. La famosa scritta alla Fiat “Agnelli l’Indocina ce l’hai in officina” diceva qualcosa di molto significativo rispetto alla connessione tra lotta operaria e lotta internazionalista.
Il Vietnam si inseriva in quel contesto più ampio di decolonizzazione che aveva caratterizzato tutti gli anni Sessanta e poteva vantare già alle sue spalle qualcosa come la vittoria di Ðiện Biên Phủ, quando i francesi erano stati cacciati dal Vietnam e al loro posto erano subentrati gli americani. Ma al contempo, mentre la guerra nel Vietnam va avanti, c’è la vittoria degli algerini in Algeria – siamo dentro un movimento di decolonizzazione che sembra inarrestabile, con un segno marcatamente progressista e socialista. Quindi l’appoggio al Vietnam è un appoggio dove sicuramente ci sarà anche un tratto etico, ma è sostanzialmente un appoggio politico.
Quanto di Palestina può rivivere nei nostri mondi? Questa è sinceramente una domanda difficile da fare perché bisogna capire il suo processo di identificazione con questa popolazione fino a che punto si spinge. Non dimentichiamoci che il Vietnam finisce con la cacciata degli Stati Uniti da Saigon. Non so chi oggi può vagheggiare l’entrata dei resistenti palestinesi a Tel Aviv. In più, lì c’era un’organizzazione dove accanto a tutta la guerriglia vietnamita c’era l’appoggio di un esercito regolare guidato dal comandante Giap. Mi sembrano due contesti completamente diversi. Abbiamo anche il coraggio di dirci le cose come stanno.
Inoltre, c’è un discorso legato all’egemonia nel discorso politico. In Vietnam qualcuno poteva essere d’accordo o meno d’accordo, però in qualche modo metteva insieme tutte le anime della sinistra rivoluzionaria. In piazza per il Vietnam è tutto trovabile. I maoisti, gli M-L, i trotzkisti, gli operaisti, gli autonomi. C’erano cortei di decine di migliaia di persone con le bandiere rosse e con un discorso sul Vietnam, magari anche diverso, ma che congiungeva tutti nel fatto che quella era una lotta di liberazione nazionale a matrice socialista. Non credo che si possa fare lo stesso discorso nei confronti della Palestina. Io credo che si possa fare un discorso che è quello sicuramente contro Israele, contro il genocidio, però credo che la cosa più di qua non possa andare.

Terza domanda, sulla guerra. Nel 1963 Carl Schmitt pubblica La teoria del partigiano, un testo orientato a inquadrare, semplificando, nelle rivoluzioni comuniste, nella loro soggettività irregolare, un potente fattore di smantellamento dell’ordine politico moderno. Il partigiano Otto-Novecentesco, nel suo essere politicamente autonomo, ha per Schmitt un carattere prettamente tellurico, legato a una matrice densamente territoriale. Oggi, nell’affermarsi di una congiuntura di guerra che rimette sul piatto una serie di nodi politici che in molti pensavamo estinti, che profili politici può assumere la dimensione di una politica partigiana e, nello specifico, in che modo possiamo ripensare il tema della sua territorialità?

Emilio: Allora, parto raccontandovi un aneddoto che mi era successo ormai un bel po’ di anni fa, all’università, quando c’era un dibattito proprio sulla guerra. Eravamo in un’altra epoca, chiaramente, e feci una domanda a un brillante professore di filosofia politica di Bologna, chiedendogli se e quanto la teoria del partigiano di Schmitt potesse essere ancora una chiave di lettura del presente. Questo con fare un po’ irridente mi disse: ma lei pensa forse che il partigiano col suo fucilino può contrastare il potere delle bombe nucleari e dei crateri che queste producono? Mi ha dato un po’ del cretino. In quella risposta c’era un po’ tutta sintetizzata la convinzione che il pensiero politico strategico occidentale aveva raggiunto: la guerra è solo guerra tecnologica, e questo comportava tantissime cose… secondo me il discorso di Schmitt è un discorso molto importante, ma cosa comportava questa risposta? Che la risposta di tutto il mondo occidentale alle trasformazioni della forma-guerra presupponeva innanzitutto il fatto che la guerra sarebbe stata combattuta solo e unicamente attraverso mezzi tecnologici, che l’unica cosa che contava erano le guerre stellari.
Dentro le guerre stellari, partigiano cosa vuol dire? Il partigiano è legato per forza di cose alla popolazione, non si dà partigiano senza popolazione e quindi definire finita l’epoca del partigiano vuol dire anche dare per finita l’epoca della popolazione. Ora, il punto d’approdo del pensiero strategico occidentale (che è stato sistematizzato anche da generali Nato, quindi non soltanto dai filosofi politici, ma anche e soprattutto dagli addetti ai lavori) – anche se ovviamente adesso si stanno un po’ rivedendo le cose – era quello che a partire sostanzialmente dalla fine del Novecento, grosso modo, si chiudeva non il Novecento, ma si chiudeva l’intera arcata storica che aveva contraddistinto il mondo occidentale a partire dalla rivoluzione francese, cioè dalla battaglia di Valmy, dove per la prima volta la popolazione assume un ruolo decisivo e centrale nella conduzione della guerra.
Espellere le masse dalla guerra. Ma se ci pensate gli eserciti di massa, gli eserciti di leva etc., cosa significano? Sicuramente l’obbligo delle masse a servire lo Stato, ma anche il diritto delle masse a portare le armi. Quando ci sono state le rivoluzioni? Le rivoluzioni ci sono state quando, dentro la guerra, le masse armate dagli stati hanno rivolto quelle armi che gli stati gli avevano dato e gli avevano insegnato a usare contro gli stati stessi. Quindi l’armamento delle masse è sempre stata un po’ una spada di Damocle nei confronti degli stati imperialisti, ma non solo. La guerra come mobilitazione totale comportava non solo l’armamento di massa, ma comportava anche il fatto che la produzione finiva per essere nelle mani della classe operaia, soprattutto delle donne operaie, perché il grosso della produzione bellica veniva appaltata alla classe operaia femminile.
Con la fine di quello che è stato definito appunto il paradigma industriale non si chiudeva soltanto il Novecento, ma si chiudeva tutto ciò che aveva preso corso a partire da Valmy, proseguito con Napoleone etc. In questo scenario è chiaro che il partigiano non può più esistere, perché non esiste più la popolazione come soggetto attivo nel conflitto. Per questo noi assistiamo anche alla Costituzione attuale, lo Stato ordo-liberale, lo Stato neoliberista etc., il quale da una parte entra in guerra, o sta per entrare in guerra, o comunque è già con un piede dentro la guerra, dall’altra però continua anche a condurre, forse di bassa intensità, una guerra al suo interno contro operai, proletari etc. Cosa che nelle precedenti esperienze belliche non era mai accaduta.
Io vi consiglierei di rileggere un libro di Sandro Mezzadra su Hugo Preuss, guardate che è veramente un grande libro, dove viene descritto come Weimar sia il passaggio dentro la guerra, cioè gli insegnamenti della guerra siano gli elementi costitutivi e costituenti del welfare state, in funzione proprio del fatto che le masse acquisiscono un ruolo centrale dentro la conduzione della guerra e quindi devono essere portate all’interno dei perimetri statuali. Il modello statuale ordo-liberale fa esattamente il contrario, espelle continuamente sempre più masse di subalterni dai perimetri politici e statuali, confinandoli nel mondo della marginalizzazione politica e sociale.
Tutto questo però in un contesto in cui la guerra, soprattutto quella russo-ucraina, ci mostra che il peso della popolazione ricomincia a essere determinante, ma non solo in uno scenario in cui anche nei nostri mondi al momento, semmai in maniera non così forte, il peso dei costi della guerra e la ventilazione di una mobilitazione non generale, ma parziale in funzione della guerra, si sta riposizionando. Mi sembra che la figura del partigiano stia tornando a essere in qualche modo centrale, perché è centrale nel momento in cui ritorna a essere centrale il discorso sulla popolazione. Non si è riflettuto molto su questo. Nel conflitto russo-ucraino stiamo già parlando di centinaia di migliaia di proletari morti, questo vuole dire che di fronte avremo uno scenario a breve, a medio raggio, questo chi può dirlo, dove il coinvolgimento di forze sempre più ampie di popolazione sarà costretto a essere impiegato su questi fronti. La guerra è dove si stanno sommando i modelli delle guerre stellari con modelli dove torna a essere centrale la popolazione, modelli che ricordano assai da vicino gli scenari della Prima e della Seconda Guerra Mondiale. La quantità in proiettili di artiglieria che vengono consumati fa pensare al fatto che siamo di fronte anche a una forma bellica non distante da alcune forme proprie delle trincee della Prima Guerra Mondiale e quindi con un ruolo sempre più importante nella popolazione. Il partigiano ritorna quindi a essere elemento centrale di tutto questo.
In più vorrei aggiungere che questo discorso che metteva tra parentesi e che considerava il partigiano una figura ormai superata, era anche un po’ frutto di una sorta di intellettualismo e snobismo proprio della borghesia, nel senso che la popolazione vive dentro i territori, la popolazione non è che si sposti perché ha una casa a Roma, una a New York e un’altra a Nairobi. La popolazione si sposta al massimo perché ha una casa a Roma e forse una casa lasciata dai nonni nella campagna romana, quindi l’elemento tellurico per la popolazione non è mai venuto meno, non può mai venire meno perché la sua dimensione territoriale è implicita con la sua esistenza. La popolazione è territorio, non è qualcos’altro.
Noi possiamo pensare ai non luoghi degli aeroporti, ai centri commerciali uguali in tutto il mondo, alle gentrificazioni, possiamo pensare a tutto questo, però sostanzialmente questo è vero per un’élite di popolazione che vive spostandosi continuamente da un continente all’altro. Ma la grande maggioranza della popolazione vive ancorata in un territorio e quando si sposta, come nel caso dei flussi migratori, non è che lo fa prendendo un aereo, ma affrontando viaggi dove spesso rischia la morte, andando alla ricerca di un territorio in cui stare, quindi questa dimensione tellurica è implicita nell’esistenza delle masse, non a caso è stata espunta questa configurazione partigiana nel momento in cui si sono considerate le masse inessenziali allo svolgimento degli scenari geostrategici e geopolitici.
Le masse sono inessenziali perché noi combattiamo delle guerre dove abbiamo eserciti professionisti ridotti all’osso, in sostanza un capitale variabile di modeste proporzioni, ma di altissimo contenuto tecnologico e un capitale costante abnorme che ci consente in qualche modo di combattere. Ma in alcune parti del mondo questo gioco non funziona più, ecco che si è costretti a ritornare, come poi si potrà fare in un modo più o meno buffo e grottesco come la nostra Premier, però anche ci sono tutti i tentativi sui quali possiamo anche riderci sopra, l’idea comunque che comincino ad esserci degli sforzi per riportare l’esercito nella scuola, che ci siano i tentativi dopo anni in cui la separazione netta tra esercito e popolazione era un dato di fatto, c’erano gli eserciti e poi c’era la popolazione.
Gli eserciti negli anni passati avevano svolto un ruolo abbastanza anomalo per un esercito nazionale, un esercito di popolazione, un ruolo di polizia, pensiamo agli eserciti utilizzati in Val Susa, ad esempio, in funzione di polizia, che erano proprio in qualche modo possibili perché quegli eserciti non avevano più alcun legame con la popolazione. Oggi assistiamo invece a tentativi sparsi un po’ per tutta l’Europa, di riavvicinare la popolazione agli eserciti, di riportare gli eserciti nelle scuole, in qualche modo di sollecitare gli arruolamenti eccetera. Questo perché gli scenari ci stanno dicendo che la funzione delle masse torna a essere determinante negli scenari bellici attuali.

Ultima domanda, sull’organizzazione autonoma. Quella necessità che in politica chiamiamo organizzazione consiste sempre – se libera da logiche autoreferenziali – in una ricercata “capacità di orientarci”: verso qualcosa, contro qualcos’altro, oggi.  Non esiste concretezza organizzativa nella stasi, non esiste organizzazione senza ambizione, senza movimento nelle complessità del reale. Organizzarsi, quindi, crediamo debba essere inteso come una “immaginazione produttiva” sempre determinata dall’esterno, mai definitiva: organizzarsi nella mutevolezza della fase, organizzarsi in base alle trasformazioni delle nostre parti e controparti. Dentro e fuori, gruppo politico e pluralità sociale: in maniera ineludibile emerge un tema con cui fare i conti, fuggendo da qualsiasi visione dicotomica. Da qui, forse, la potenza alchemica dell’organizzazione autonoma, rispetto a cui vogliamo chiederti: come interpreti questo complesso rapporto tra spontaneità e organizzazione oggi, fondamentale per chiunque si ponga l’ambizione di una prassi incisiva sulla realtà?

Emilio: La risposta semplicissima che ti posso dare è una risposta classica, che se vuoi viene da Lenin, viene da Toni Negri. Cioè, la triade marxiana è spontaneità, coscienza, spontaneità, cioè strategia, tattica, strategia. La strategia alla classe, la tattica al partito, queste sono le risposte che negli anni si sono date e credo che siano risposte tuttora valide. Questa metodologia è una metodologia tuttora valida, cioè non si dà l’organizzazione per decreto divino, non si dà l’organizzazione perché qualcuno ha letto meglio e più di altri i testi sacri, ma si dà l’organizzazione perché si è in grado di essere la testa del movimento. Questo mi sembra il succo della questione ed è in qualche modo la barra che ha sempre guidato nel bene, nel male, con errori, il discorso sull’autonomia. Quando nei primi anni ‘70, mi sembra il ‘73, Toni fa saltare Potere Operaio e nel frattempo molte sezioni di Lotta Continua decretano la fine di un’esperienza che è quella dei gruppi, appunto su questa base qua, dicendo che il partito formale non è il partito storico e o sei in grado di stare sui tempi del partito storico o se no la tua funzione è del tutto inutile, addirittura dannosa.
Io credo che su questo difficilmente non ci troveremo d’accordo. Quello che diventa un problema è capire, se questo è il metodo, come adottare questa metodologia oggi. Io credo che non sia facile, ma non perché qualcuno è più furbo di un altro o perché qualcuno è più indietro di un altro, ma proprio perché, come più volte abbiamo detto, l’avete ribadito anche voi, la pluralità di soggetti con i quali ci troviamo ad avere a che fare è ampia e spesso sfuggente. Quindi questo rapporto spontaneità-organizzazione a volte ti sembra di averlo colto, poi un attimo dopo ti giri e non trovi più la spontaneità perché questa chissà dove è finita. Io credo che forse una via praticabile sia anche quella di andare a reperire i soggetti intorno ai quali l’organizzazione si può costruire e una volta individuati questi soggetti comunque rimane decisivo il discorso dell’inchiesta perché senza inchiesta noi possiamo fare tutti i seminari che vogliamo, possiamo produrre anche tutti i livelli di teoria alta che vogliamo, ma se noi siamo slegati da quello che è la classe, cioè dalle masse, se noi non sappiamo cosa pullula dentro la classe, noi potremmo anche fare dei bei libri, fare delle belle riunioni con anche dei meriti, ma sicuramente non costruiremo l’organizzazione.
Forse in un momento come questo sarebbe più saggio fare un passo indietro, cioè non buttarsi in avanti, non buttarsi alla ricerca dell’organizzazione perduta, ma perimetrarsi in quanto corpo politico e cominciare a lavorare in chiave di inchiesta su alcuni ambiti territoriali, lavorativi e intorno a questi provare a vedere cosa si tira fuori. Però noi dobbiamo sapere cosa bolle in pentola, dobbiamo sapere cosa c’è dentro la classe. Se non sappiamo questo io credo che non riusciremo a costruire l’organizzazione, è inutile girarci intorno.
[…] Spesso ci dimentichiamo che classicamente l’organizzazione operaria proletaria è sempre stata più un’organizzazione territoriale che un’organizzazione di fabbrica. Soltanto quando è esploso il fordismo e le grosse concentrazioni operaie la fabbrica come luogo di organizzazione ha assunto determinate caratteristiche, perché se no precedentemente era il territorio a essere il luogo preferito dell’organizzazione operaria. Lo è stato anche durante l’epoca fordista perché se voi pensate a tutte le esperienze degli anni ‘70, le ronde operaie erano istituti proletari che intervenivano all’interno di tutta quella serie di officine, piccole fabbriche etc., dove i rapporti di forza interni non consentivano lo sviluppo di una lotta operaia di un certo tipo, quindi l’intervento esterno delle ronde faceva sì che i rapporti di forza fossero capovolgenti.
Il territorio oggi assume nuovamente un ruolo centrale, io non vorrei essere travisato quando ho parlato di centralità operaia, non vorrei essere scambiato per l’ennesimo fabbrichista come si diceva una volta. Parlavo di un luogo importante, una direzione importante, ma avendo a mente che il territorio riverse un ruolo centrale nell’organizzazione operaia e proletaria.
[…] Vengo brevemente al discorso elettorale. Noi sappiamo che il dibattito tra elettoralisti e non elettoralisti è vecchio come il mondo, ma questo faceva parte di un dibattito in cui la rappresentanza in qualche modo era legittimata, ovvero la borghesia voleva che in qualche modo le masse sociali subalterne fossero rappresentate, perché la relazione tra classe operaia e borghesia era di un certo tipo.. parafrasando la famosa frase di Marx nel Capitale rispetto al rapporto tra capitale e lavoro salariato, Marx dice che da un punto di vista giuridico formale lavoro salariato e capitale sono uguali, ma a parità di diritti vince la forza. Ma a parità di diritti cosa voleva dire? Voleva dire che per tutta un’arcata storica classe operaia e borghesia si percepivano come classi con parità di diritti. Noi assistiamo a partire dagli anni Ottanta – da questo punto di vista io rimando ancora a un bellissimo testo di Foucault, forse troppo citato e poco letto, che è La nascita della biopolitica, dove si evidenzia come la battaglia che la borghesia conduce a partire dalla prima metà degli anni Settanta non è una battaglia contro il marxismo che considera già vinta, è una battaglia contro il keynesismo, e il keynesismo è esattamente la sintesi, la cristallizzazione del concetto di rappresentanza, qualcosa che noi troviamo già in Max Weber. Su questo invito nuovamente alla lettura del testo di Mezzadra su Hugo Preuss, sull’idea di cittadinanza che nasce nella Prima guerra mondiale, che entra in contrapposizione all’idea di cittadinanza che nasce dall’Unione Sovietica.
Ma a partire dalla metà degli anni Settanta noi assistiamo a una rivoluzione veramente senza precedenti, nel senso che le masse sono espunte dalla rappresentanza. Oggi noi abbiamo grossomodo una partecipazione elettorale che non arriva al 50%, ma non arriva al 50% non perché ci sia astensionismo rivoluzionario, ma perché il mondo attuale ricorda assai da vicino, ovviamente con tutte le tare del caso, quel mondo descritto da Marx rispetto all’India. Marx sull’India dice che l’India è un paese di grandissimi conflitti politici dove i Marajà si scannano l’uno con l’altro, ma per la stragrande maggioranza della popolazione che vinca questo Marajà o quest’altro Marajà non cambia assolutamente nulla perché la loro condizione non si modifica di una virgola.
Questo perché l’idea stessa di rappresentanza politica è stata espunta dai nostri mondi, quindi quello che noi dobbiamo cercare non è rincorrere un’improbabile nuova rappresentanza politica all’interno di una struttura che ormai ha perso qualunque valenza. Perché i parlamenti nazionali non contano assolutamente nulla, perché qualunque cosa decidono i parlamenti nazionali poi si trovano di fronte alla parola di una tecnostruttura che nessuno ha mai letto, come la tecnostruttura di Bruxelles che racchiude tutto dicendo che ce lo chiede l’Europa e l’Europa è qualcosa di grande. Di cui nessuno ha mai capito bene di cosa si tratta.
Quindi il problema non credo sia quello di riformulare la rappresentanza, anche perché ci sono tentativi di questo tipo qua e hanno ottenuto successi da prefisso telefonico. Io credo che il problema sia che un nuovo protagonismo delle masse, che in qualche modo c’è, può essere colto solo dentro la pratica delle lotte, sono le lotte che possono in qualche modo imporre delle trasformazioni, imporre qualcosa agli stati e ai governi. Una presenza elettorale dentro questo o quel Parlamento secondo me, ammesso e non concesso che diventi possibile, lascia del tutto ininfluente le sorti di quel processo di esclusione e marginalizzazione sociale alla quale ormai sono deputate gran parte delle masse proletarie e subalterne.
Un termine come marginalizzazione ed esclusione sociale non ha mai conosciuto una fortuna così grande come in queste epoche. Un termine che se lo vedete, se avete frequentato minimamente il mondo della sociologia, sono temi propri della sociologia della devianza, che riguardano quote minimali di popolazione. Il potere ha sempre cercato di includere il più possibile le masse subalterne. In Bisogna difendere la società, Foucault mostra estremamente bene come l’interesse del potere sia quello di avere comunque una massa di subalterni inserita all’interno dei gangli sociali e politici. Questo lo aveva già spiegato forse ancora in maniera più chiara Max Weber, però questo mondo è finito, non credo che lo si possa riproporre ancora una volta con la sommatoria di tutte le microstrutture più o meno comuniste di sinistra che pullulano nei nostri mondi.
Se ci guardiamo intorno è difficile, ci vuole l’album delle figurine Panini per fare la raccolta dei partiti comunisti che ci sono – e non mi sembra che nessuno di questi sia in grado di incidere più di tanto. Mi sembra che il vizio di questi sia quello di dire che noi siamo così perché non siamo in grado di leggere la lezione dei maestri. Io credo che tra questa gente che forma questi partiti comunisti residuali ci sia gente che conosce a menadito Marx, Engels, Lenin, di cui può citare a memoria. Io credo che ci sia un problema di ignoranza, il problema è di come li leggi e di come li leggi a partire da una fase storica che ha determinate caratteristiche.
[…] C’è una differenza sostanziale tra Gramsci e l’operaismo: quest’ultimo parla dell’egemonia delle lotte, il primo invece costruisce un archetipo intorno all’egemonia culturale con le famose casematte della cultura. Ciò che la sinistra rivoluzionaria principalmente rimprovera a Gramsci è di avere sancito la fine della guerra di movimento in un paese a capitalismo avanzato e di aver promosso la guerra di posizione. La guerra di movimento vuol dire l’insurrezione nei paesi a capitalismo avanzato e invece quello che propone Gramsci è che attraverso un processo graduale intorno all’egemonia culturale di conquistare sostanzialmente anche quote di Stato.
Ora, se andiamo a vedere quanto poi questa ipotesi gramsciana ha funzionato, beh noi vediamo come apparentemente a partire dalla fine degli anni Cinquanta, soprattutto negli anni Sessanta, la storia delle casematte della cultura forse sembrava avere il suo senso. Perché tutti negli anni Sessanta erano marxisti, no? Le università pullulavano di corsi su Marx, nessuno non poteva dirsi marxista, ed è bastato un attimo che marxista non lo era più nessuno. In un attimo Marx è stato bellamente cancellato non solo dall’università ma anche ad esempio dai cataloghi e dalle grandi case editrici. Se voi prendete i cataloghi delle grandi case editrici – non di quelle di movimento ma proprio delle grandi case editrici – degli anni Sessanta, rimanete sbalorditi perché Marx esce un po’ come il prezzemolo, lo trovate ovunque. Con la svolta neoliberista Marx sparisce, ma gli stessi marxisti fanno velocemente dietrofront e buona parte di questi approdano al pensiero neoliberale.
Quindi l’idea delle casematte di Gramsci non mi sembra che abbia avuto poi una grande funzione e l’autonomia l’ha sempre messo in rilevo. Il problema è l’egemonia ma è l’egemonia delle lotte, non a caso l’autonomia ha detto che l’egemonia delle lotte è data non da un falso mito dell’unità di classe, ma dall’affermazione di potere della sinistra operaia: il mostro sacro, il tabù dell’unità di classe l’autonomia l’ha tranquillamente buttato giù. Ha detto in altri modi una cosa vecchia, che viene anche da lontano. Cosa vuol dire affermare l’egemonia della sinistra operaia, se non liquidare la destra, conquistare il centro, affermare la sinistra? Che non è poi così innovativo, no? Con parole diverse, è qualcosa che sta addirittura dentro la più ovvia tradizione comunista, perché non è che il movimento comunista sia mai stato uniforme o unitario, non lo è mai stato. Tant’è vero che al suo interno si sono sviluppate lotte non proprio indifferenti.
[…] Negli anni Sessanta l’idea che la storia andasse verso il comunismo era un dato di fatto, non era neanche da mettere in discussione. Poi si poteva declinare in maniera diversa, c’erano gli scontri tra gli ml, i maoisti, i trotskisti, gli anarchici. Ognuno poi aveva un po’ la sua visione di come si sarebbe dovuta organizzare la società, ma lo faceva anche a partire dal fatto che c’era una base materiale con la quale si andava fare i conti.
Faccio un esempio molto banale: negli anni Sessanta cominciano ad arrivare i frigoriferi, no? Non c’è nessuno che si sogna di vivere in una società senza frigoriferi, perché il frigorifero è considerato una cosa utile. Poi, come si stia nelle fabbriche del frigorifero, se con il consiglio operaio, se con un’altra forma, è il dibattito – ma la fabbrica di frigoriferi rimane. Oggi noi ci troviamo di fronte a un mondo lavorativo in cui una percentuale altissima dei lavori sono lavori sostanzialmente inutili – cosa che invece non succedeva in altre epoche, dove tutti avevano in qualche modo idea che le cose che stavano facendo avevano grosso modo un senso. Per cui il problema era: prendiamo in mano questa base produttiva, la organizziamo – con forme e dettami differenti – e buttiamo fuori i padroni e su questo edifichiamo il comunismo, il socialismo, riduciamo l’orario di lavoro, eccetera.
Oggi immaginare una società diversa da quella attuale è seriamente complicato, perché non sai da dove cominciare. Questo è indubbio. Questo è un problema perché vuol dire che non riesci a costruire un’idea-forza, un immaginario intorno al quale però puoi costruire un progetto di lunga durata. Ora torno un attimo sulla rivolta delle banlieue. Questa ossessione per i consumi dice qualcosa: cioè andare a rapinare quel posto o quell’altro per prendere la motocicletta o quell’altra cosa, diciamo il consumo per il consumo, ecco – io non voglio criticare nulla – ma sicuramente non si può costruire un immaginario di società fatto sull’assalto permanente alla diligenza. Perché non funziona così, ci vuole sempre un immaginario positivo. Ora io non voglio ritirare fuori la vecchia idea soviettista o del sol dell’avvenire, però credo che in qualche modo una società che decide di abbattere quella presente deve – perlomeno – avere in mente una prefigurazione di quello che vuole fare. Ecco io credo che abbiamo molta difficoltà a fare questo. Possiamo giungere a dire cosa non vogliamo fare, mentre su che cosa vogliamo fare credo che effettivamente abbiamo più che un problema.

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