di GISO AMENDOLA.
Gran parte del mainstream culturale si è mostrata piuttosto irritata da questo Galera ed esilio, secondo volume di Storia di un comunista, autobiografia che Toni Negri sta scrivendo, con la compagnia, più che con la semplice cura editoriale, di Girolamo De Michele (Ponte alle grazie, pp. 447, € 19,50).
Ciò che probabilmente ha disturbato il conformismo di certi osservatori, è il fatto che Negri non rispetta per nulla la tradizione dei memoriali dei filosofi «impegnati».
Questi scritti si presentano solitamente in una tonalità melanconica, facendo mostra di una pensosa e «sapiente» distanza con il presente e i suoi conflitti. Negri invece fa tutto il contrario: legge il suo itinerario, di vita, di ricerca e di militanza, iscrivendolo in una storia collettiva, con il preciso intento di ricostruire ipotesi politiche per il presente.
Qui, come nel primo volume, la vicenda personale è immersa nella vasta rete delle intelligenze e degli affetti incrociati, degli incontri felici e potenzianti come di quelli tristi o feroci. Al tempo stesso, l’autobiografia diventa uno strumento per riaprire l’interrogazione sul senso politico di un passaggio cruciale: la repressione politico-giudiziaria dei movimenti alla fine degli anni Settanta.
Negri insiste con forza su un punto: la storia che cominciò il 7 aprile 1979 non è stata solo la testimonianza di un grottesco impazzimento della macchina giudiziaria italiana.
Oltre a un’evidente rottura con i principi dello stato di diritto, s’è trattato di una tragedia del e nel Politico, tutta iscritta in una violenta ragion di Stato.
Il «7 aprile» va considerato un processo politico non solo per la logica dell’emergenza che lo struttura, ma soprattutto perché certifica una rottura insanabile nella storia delle istituzioni repubblicane, mostra tutta la loro incapacità di tessere una qualsiasi relazione con i movimenti sociali, che produca uno sbocco anche solo minimamente innovativo: su questa incapacità istituzionale si concentrerà Negri nel discorso parlamentare del 1983, prima della concessione per pochissimi voti dell’autorizzazione al suo arresto.
Alla ricerca di una soluzione ragionevole, che riaprisse la dinamica Stato/movimenti, si opposero allora troppi attori, in un mondo politico già segnato dalla sua autoreferenzialità, e, come denunciò in aula Stefano Rodotà, dal prevalere «di una meschina volontà vendicativa, e non di una capacità lungimirante di guardare al futuro».
Una volontà in realtà non solo vendicativa, ma anche suicida. La chiusura delle istituzioni in una astratta autonomia del Politico proiettava quella stessa immagine centralizzata e «sacrale» del potere sui movimenti di trasformazione, che infatti furono schiacciati sulla logica dell’accelerazione militare imposta dalle Brigate Rosse.
La lettura brigatista del Politico, in fondo, condivideva con le istituzioni la classica matrice «trascendente» della politica, una visione centralizzata e monopolistica del potere «sovrano»: una concezione che invece i movimenti avevano tentato di ribaltare, in nome della sperimentazione di spazi di autorganizzazione dei nuovi soggetti sociali.
Quella chiusura delle istituzioni fu poi doppiamente suicida per il Partito Comunista: perché, rivendica energicamente Negri, i movimenti nascevano radicati in profondità nelle trasformazioni produttive.
Costituivano certo una metamorfosi complessiva del movimento operaio, ma erano in ogni caso all’interno di quella storia, di una storia comunista: trattarli da «untorelli», fu, per le sinistre, l’inizio della separazione radicale dalla loro gente, che non sarà più recuperata.
Il tentativo dei movimenti dell’«autonomia» di uscire da questa doppia tenaglia che li chiudeva tra istituzioni e brigatisti, si riflette allora in Negri nella ricerca teorica di un diverso sfondo ontologico, che liquidi proprio questa maledetta trascendenza del Politico.
In particolare, l’incontro con tre figure permette di rilanciare la ricerca: Spinoza, Leopardi, e il Giobbe biblico.
In anni segnati dai «viaggi» nei penitenziari italiani, dal confronto con la violenza all’interno delle carceri, dagli scontri laceranti che accompagnano la ricerca di una via politica di uscita alla vicenda processuale, Negri riesce a far emergere una forte concezione produttiva e costitutiva dell’essere: il che non ha nulla a che fare con un qualche ottimismo finalistico o con la cancellazione del negativo.
Si tratta piuttosto, per Negri, di rifiutare l’interiorizzazione della sconfitta storica, che pure era stata gravissima e aveva travolto vite e speranze: ma andava compresa intellettualmente e politicamente, resistendo alla tentazione di consegnare anche la sconfitta a una logica della trascendenza, trasformandola in una sorta di destino.
Proprio negli anni in cui una parte del pensiero europeo torna a fare del nichilismo il suo orizzonte ultimo, Negri trova invece in questa concezione costitutiva e produttiva dell’essere, il passaggio necessario per rilanciare l’inchiesta: si tratta ora di analizzare la profonda ristrutturazione capitalista tra gli anni Settanta e Ottanta, in modo da leggervi le nuove forze che l’attraversano e che cominciano a comporre nuove resistenze e nuove sperimentazioni.
Alla ricerca ontologica corrisponde, quindi, negli anni trascorsi in Francia in esperienze come quelle della rivista Futur antérieur, ma anche in molta attività di ricerca sul campo una rinnovata inchiesta sui nuovi distretti produttivi, sulle reti cognitive e metropolitane: le nuove macchine che informatizzano la forza lavoro.
Attorno a questi nuovi dispositivi, al tempo stesso di sfruttamento e di soggettivazione, si sviluppa quell’incrocio tra l’operaismo e il poststrutturalismo di Foucault e Deleuze/Guattari, che produce l’orizzonte teorico attorno al quale si svilupperà Impero (ultima tappa di questo secondo, e non ultimo volume): un orizzonte in qualche senso «postmoderno», ma profondamente materialistico e, ancora una volta, pur nella radicale trasformazione delle modalità di produzione, chiaramente di classe.
Solo l’inchiesta di queste nuove forme della produzione, ha permesso negli anni Ottanta, di tentare un’uscita in avanti dalla crisi e dalla repressione.
Solo seguendo il filo tracciato dalle soggettività che muovono queste nuove relazioni produttive, è stato possibile attraversare la trasformazione neoliberale senza né piegarvisi da subalterni e trasformisti, né ritirarsi in una infinita meditazione sulla sconfitta, senza energia e senza speranza.
L’emergere prima dei grandi scioperi francesi della metà degli anni Novanta, poi del movimento no global transnazionale, avrebbe confermato che quanto intravisto dall’inchiesta aveva una sua solidità materiale.
Così, per noi tutti impegnati nelle lotte dell’oggi, è indispensabile continuare ad approfondire questa modalità di inchiesta nata nel deserto degli anni Ottanta.
Proseguire l’indagine all’interno dei nodi precari, intermittenti, ma al tempo stesso estremamente socializzati, dell’organizzazione contemporanea del lavoro.
Comprendere finalmente le metamorfosi del lavoro vivo è il solo modo per provare a dare un qualche futuro alla “storia dei comunisti”: o, più semplicemente, per ritrovare il filo delle lotte della forza-lavoro, dove e come realmente si danno, superando le fratture storiche, che furono provocate dalla radicale incomprensione delle trasformazioni nel corpo della classe, da parte delle forze che avevano storicamente preteso di rappresentarla.
questo testo è stato pubblicato sul manifesto il 20 aprile 2018