di SAVERIO ANSALDI.

 

 

All’annuncio dei risultati definitivi del secondo turno delle regionali francesi, dove il Front National non ha ottenuto la maggioranza grazie soprattutto al ritiro dei candidati socialisti a favore dei “Repubblicani” di Sarkozy, Marine Le Pen ha affermato che quei risultati contano poco perché ormai lo scontro politico non è più fra destra e sinistra ma fra i  “patrioti” e i  “mondializzati”,  fra chi lotta per difendere la propria nazione e chi invece desidera vivere in un mondo senza frontiere. Una tale dichiarazione non deve in alcun modo essere sottovalutata,  benché debba in un primo tempo essere  estrapolata dal contesto “franco-francese” in cui è stata formulata  per essere adeguatamente compresa. Cercherò di farlo servendomi di due esempi.

In uno dei suoi ultimi, grandi romanzi, Saggio sulla lucidità (Feltrinelli, 2011),  José Saramago descrive in modo dettagliato e altamente comico le conseguenze di elezioni politiche svoltesi in un non ben precisato paese europeo (il Portogallo, forse) e conclusesi con un tasso di astensione prossimo al cento per cento. Che cosa succede in questo paese di fronte ad  un simile  vuoto di rappresentanza ? Che cosa diventa il “potere” quando non è più oggetto di desiderio da parte di coloro i quali, votando, dovrebbero costituirsi come corpo politico ? Ma che cos’è, concretamente, quel potere dal quale i cittadini-elettori rifiutano di farsi rappresentare ? In un primo tempo sembra materializzarsi nella figura goffa e patetica del ministro dell’interno che si lancia subito alla ricerca di un sedicente gruppo anarchico responsabile del complotto astensionista – poiché solo di un complotto sovversivo  può trattarsi. Il potere assume in seguito le sembianze di un ancor più  patetico primo ministro, il quale, scontento dell’operato del ministro dell’interno, affida l’incarico ad una task force composta da investigatori e da agenti di scovare i veri responsabili dell’astensione. Questi dovranno, una volta arrestati i colpevoli, consegnarli alla giustizia nel più breve tempo possibile. Nessuno, fra i rappresentanti delle istituzioni, riesce a capire che cosa sia veramente successo. Quel che risulta incomprensibile ai ministri, segretari, sottosegretari, commissari di polizia e magistrati vari non è tanto il fatto di essere le vittime di una sconfitta politica quanto il fatto di trovarsi in un limbo di inconsistenza. Non sono stati battuti e sconfitti in una competizione elettorale, quindi, in un certo senso, ancora legittimati,  sono stati semplicemente ignorati.  Ma un primo ministro od un ministro dell’interno possono accettare di essere ignorati dagli elettori ? E che ne sarà del commissario capo, incaricato delle indagini, che “si sentiva vagamente ridicolo, un bravaccio con la pistola in pugno puntata contro il nulla” ?

Perché è proprio del nulla che si tratta nel romanzo di Saramago. Del nulla nel quale la lucidità dei (non) elettori ha fatto piombare i rappresentanti delle diverse istituzioni che incarnano il potere. Ma cos’è allora questa lucidità che ha convinto gli elettori a diventare irrappresentabili a tal punto da far piombare nel limbo del nulla i loro presunti rappresentanti ? Saramago ce lo lascia  intendere alla fine del romanzo, che si conclude, sempre più comicamente, con una pomposa conferenza stampa nel corso della quale il ministro dell’interno annuncia la morte del capocommisario ad opera del sedicente gruppo sovversivo responsabile dell’astensione – in realtà costretto al suicidio dallo stesso ministro in seguito alle sue  indagini infruttuose, che non avevano permesso di scovare alcun colpevole.  A sua volta lo stesso ministro dell’interno viene dismesso dalle sue funzioni, per manifesta incapacità, dal primo ministro, che ha già assunto la responsabilità della giustizia ed che ora prenderà anche quella degli affari interni. Il potere del nulla sul nulla si risolve alla fine nella  tragica e ripetitiva concentrazione di vuote responsabilità.

Quel che Saramago ci racconta nel suo prodigioso romanzo diventa oggetto di analisi schiettamente politiche e sociologiche nell’importante e recente  saggio di Moisés Naïm, The End of Power. From Boardrooms to Battlefields and Churches to States, why being in charge isn’t what it used to be (Basic Books, 2013). Servendosi dei risultati della lezione foucaultiana sul decentramento delle forze che definiscono l’esercizio dei poteri piuttosto che sull’esistenza di  un “potere” in sé, Moisés Naïm, che è stato Ministro del Commercio venezuelano alla fine degli anni ottanta nonché Direttore esecutivo della Banca Mondiale negli anni Novanta, analizza, dal punto di vista che potremmo chiamare del “comando”, le trasformazioni indotte negli ultimi dieci anni sul funzionamento delle istituzioni e delle imprese, nazionali ed internazionali, dalle lotte dei movimenti (Occupy, Indignados), dall’economia cognitiva, dalla creazione di start-up  innovative, dalle azioni in difesa del clima. L’insieme di questi fenomeni determina secondo Naïm una rivoluzione irreversibile: quella che egli chiama l'”epoca delle mobilità”. Mobilità delle intelligenze, dei saperi, delle pratiche, della produzione, delle popolazioni, una mobilità che rende l’esercizio dei poteri, istituzionali ed economici, sempre più shifting, instabile e  mutante, potremmo dire scivoloso e sdrucciolevole. L’epoca della mobilità è quella delle molteplicità ingovernabili, dei micro contropoteri diffusi, delle resistenze che ad ogni momento fanno saltare confini e barriere. Questo non significa che i poteri non si esercitino più attraverso dispositivi complessi e concentrati – stati nazione, multinazionali, istituti di credito, organizzazioni finanziarie – ma che le barriere e i limiti imposti da tali dispositivi sono rimossi e spostati senza sosta dalle forze molteplici espresse dalle “mobilità”. L’età delle mobilità non è quella del rovesciamento definitivo dei poteri ma quella del disfacimento delle loro protezioni, dello svuotamento delle loro funzioni e della corrispettiva creazione di valore – economico, sociale, politico, culturale – in forme e in modalità differenti, che non possono e non desiderano più essere rappresentate in termini statici, “confinate” in rigide strutture istituzionali e produttive.

Questi due esempi ci permettono di ritornare sulle elezioni ragionali francesi. I risultati ottenuti dal Front National, così come anche il corrispettivo tasso di astensione, elevatissimo al primo turno e comunque considerevole al secondo (ben oltre il 50% nella regione parigina), devono essere letti e interpretati all’interno di queste trasformazioni delle “mobilità”. Da un lato, infatti, il desiderio di “ordine” e di “autorità” espresso dagli elettori del Front National è l’indice di uno svuotamento di determinate istituzioni, pubbliche e private, che ha provocato conseguenze devastanti sul territorio,  e che in qualche maniera deve essere riempito, “codificato” (secondo il termine impiegato da Deleuze e Guattari  nell’Anti-Edipo ) da un patriottismo nazionale in grado di rimettere barriere e confini.  Dall’altro però, nell’astensione,  si esprime un altro desiderio, – o piuttosto: si affermano altri desideri, altri modi di vivere e di produrre che rifiutano quest’ordine autoritario e patriottico ma che non riescono ancora a trasformare in nuove istituzioni la loro capacità di produrre resistenza, invenzione e creazione all’interno di una mobilità globalizzata. Che sono di fatto irrappresentabili.

In altri termini, i risultati delle elezioni regionali francesi fanno sorgere le seguenti domande. Quali possono essere le istituzioni delle molteplicità molecolari in movimento? Secondo quali modalità possono  esprimersi i contropoteri molteplici che si esprimono quotidianamente nelle imprese, nelle scuole, nelle università, nel precariato produttivo che alterna lavoro e disoccupazione e che non desiderano più questa rappresentanza nazionale e patriottica ?  Non si tratta qui tanto di pensare le forme di una potenza “destituente”, di una potenza che rimane in-potenza,  quanto di attivare i modi istituzionali di una potenza molteplice e plurima, che non può più interamente farsi rappresentare nei termini di istituzioni rigide e verticali ma che non può più neanche interamente risolversi in un principio d’anarchia senza relazioni, in un “uso” senza contatto della vita e dei corpi. Se “le relazioni sono sempre esterne ai loro termini“,  come afferma Deleuze, allora si tratta di costruire questa “esteriorità relazionale”, di darle corpo e di renderla attiva – ” di definire una vera alternativa senza presupporre la soluzione di tutti i problemi“, di giocarla fino in fondo “fra i limiti interni  relativi e il limite esterno assoluto“,  ossia fra le frontiere degli stati-nazione e le mobilità molteplici, come ci ricorda ancora l’Anti-Edipo.

Su questo terreno la battaglia per un’Europa del comune è ormai decisiva e non può più attendere. Non diciamo che l’occasione ci stia sfuggendo di mano, ma è fuori di  dubbio che le “forze patriottiche” siano sempre più agguerrite ed organizzate nel contrastare le “potenze della mobilità”.  L’Europa del comune non può essere che l’Europa federale contro gli stati-nazione, del reddito garantito, prima condizione per la costituzione di mobilità aperte e molecolari, della “sicurezza” nel senso spinoziano del termine, vale a dire di istituzioni in grado di riflettere le molteplicità in movimento dei modi di vivere e di produrre, di pensare e di creare. Le libertà delle mobilità contro le frontiere dei patrioti.

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