Di TIZIANA TERRANOVA

Nonostante tutte le legittime riserve sulla piega presa dalla comunicazione digitale da vent’anni a questa parte (quella che ha portato alla sussunzione di Internet da parte del capitalismo di piattaforma) non è possibile negare che essa comunque continua a essere medium e veicolo delle lotte contemporanee di liberazione. Il movimento globale pro-Palestina che in questo momento chiede una immediata e definitiva fine ai bombardamenti e incursioni israeliane specialmente a Gaza, ma anche in Cisgiordania e in Libano nonché la fine dell’occupazione militare israeliana è nato e cresciuto soprattutto grazie alla comunicazione digitale. Sono state piattaforme quali Instagram e TikTok che nonostante varie strategie di controllo algoritmico hanno messo in contatto specialmente le nuove generazioni con tutta la crudezza e brutalità del genocidio in corso a Gaza – nonché delle sue ragioni e radici storiche nel colonialismo europeo e imperialismo americano. Queste nuove generazioni sono state politicizzate dai social del capitalismo di piattaforma ma sono state anche capaci di usare apps e servizi di comunicazione crittate e anonime per organizzarsi riattivando in questo modo le potenzialità democratiche di Internet che né il capitalismo di piattaforma né la censura di stato sono mai riuscite a chiudere completamente.

Il movimento di liberazione globale della Palestina, come tutti i movimenti di liberazione dall’oppressione, sfruttamento e dominio, si caratterizza per la sua capacità di costruire nuove relazioni e nuovi mondi.  Negli Stati Uniti, e specialmente nei movimenti universitari di questi giorni, si vedono insieme arabi, ebrei, asiatici, afroamericani e africani, soggettività queer, latin* e nativi americani impegnati a creare connessioni e immaginari che possono davvero prefigurare un Israele/Palestina post-sionista, cioè postcoloniale come proposto da Iain Chambers. Questa trasversalità è l’unica strada da percorrere per chi vuole vedere una via d’uscita sicuramente lunga, difficile e senza garanzie al conflitto che da ottant’anni tormenta queste terre. Sebbene la stragrande maggioranza delle vittime siano adesso e sono state storicamente palestinesi in quanto soggetti vittime del colonialismo d’insediamento sionista, Israele è probabilmente anche in questo momento e da anni uno dei posti meno sicuri al mondo in cui gli/le ebre* possono vivere.

Mentre i movimenti di liberazione contemporanei mettono in atto la trasversalità, la strategia delle destre etnonazionaliste è l’intensificazione della guerra – sia guerre tra le razze (ebrei e cristiani contro musulmani; migranti contro cittadini nazionali) sia quella civile (terroristi contro patrioti; destra contro sinistra). La strategia principale è quella della cyberwar che mobilita le forze di quella che invece Jack Bratich chiama il microfascismo della rete. La ciberguerra vede l’uso di strategie militari nelle reti informatiche incluso uso di bots, trollaggio, ma soprattutto la mobilitazione di massa di utenti che vengono arruolati per combattere battaglie verbali online e diffondere propaganda.

Nella sua capacità di mobilitare utenti, la ciberguerra attinge alla cultura microfascista, definita da Jack Bratich come una cultura che promette la rinascita o restaurazione di una identità mitica originaria (quella del gruppo di maschi) costruita sull’eliminazione simbolica o materiale e debilitazione di donne, queer, e non bianchi. La strategia delle destre è dunque in questo momento quella di incitare e diffondere la guerra. Di fronte alle potenzialità liberatrici del movimento pro-Palestina e la sua egemonia globale sceglie la strada della repressione poliziesca militare e della persecuzione delle prospettive e discorsi pro-Palestina sotto l’etichetta anti-semita. Come qualcuno ha detto, siamo arrivati al paradosso di definire gli ebrei che si oppongono alla guerra a Gaza antisemiti svuotando un termine che ha un suo importante valore politico e storico nella lotta contro una feroce forma di persecuzione millenaria culminata nell’orrore della Shoah e trasformandolo in uno scudo contro le critiche a uno Stato quale quello israeliano. Si prepara in particolare e monta una offensiva autoritaria contro ogni forma di sapere critico demonizzato nella misura in cui questo minaccia proprio questa logica dicotomica e il consenso costruito sulla occupazione quasi-militare dei media di massa, gli attacchi mirati anche legali a voci dissidenti (incluso il doxing).

La guerra distrugge mondi e relazioni, ma arricchisce chi la fa scoppiare o facilita. I movimenti di liberazione cercano una pace non pacificata, cioè una pace che non è basata sulla riproduzione di relazioni di dominio – come per esempio la ‘pace’ che regna in una famiglia patriarcale in cui la donna è sottomessa o quella in cui lo strapotere militare garantisce a una parte della popolazione di vivere una relativa e normale tranquillità a scapito di un’altra. Scegliere di stare dalla parte della Palestina e del movimento pro-Palestina, in questo momento, è dunque essere di parte sicuramente, ma non nella dinamica di guerra delle razze e delle dicotomie (o con Israele o con Hamas) verso cui le destre (con la complicità dei partiti e opinione pubblica liberale) cercano di incanalare il discorso pubblico. Come nelle parole della bellissima canzone del cantautore, poeta e registra teatrale cileno brutalmente assassinato da Augusto Pinochet cinquant’anni fa, contro il genocidio, va reclamato il diritto di vivere in pace. Essere dalla parte della Palestina e dei palestinesi significa in questo momento invece essere in maniera più profonda contro la guerra come strumento di distruzione e dominio.

Questo articolo è stato pubblicato il 4 maggio 2024 su il manifesto.

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