Di GISO AMENDOLA
Un evento (maledetto)
Cercherei di reinterpretare, un po’ a modo mio, l’invito di Anna Simone – in questo spazio che ha costruito una ricchissima capacità di connessione dentro il distanziamento, contribuendo ad evitare che la distanza fisica diventasse autoisolamento nelle nostre identità – ad essere degni dell’evento. Deleuze e Guattari invitavano a pensare l’evento come ciò che non può essere ricondotto ad una linearità storica, ad un’idea “progressiva” di sviluppo: un’interruzione. Allo stesso tempo, questa interruzione non è per nulla una nuova origine, non è una sorta di cominciamento assoluto: rompe la continuità, ma non per re-istituirla. Piuttosto, rompe la stessa idea di continuità. L’evento è una svisata, un lancio di dadi. Per Deleuze e Guattari, l’immagine per eccellenza dell’evento è il ‘68. Il suo tradimento sarebbe reinserirlo in una perfetta continuità storica, costruirlo come l’esito di un processo, o un nuovo inizio assoluto e trascendente. Possibile ma non prevedibile, è una “deviazione” che “apre un nuovo campo di possibili”. Come si fa ad esserne degni? Assumendone la carica trasformativa, lasciandosi modificare (Deleuze e Guattari, 2010, pp. 188-190). Una pandemia è evidentemente un evento di tutt’altra specie, qui di non riassorbibile c’è un lutto maledetto, non una gioia vitale. La sua stessa imprevedibilità ha più a che fare con l’impreparazione dei nostri sistemi sociali di fronte a qualcosa di comunque atteso e descritto. Eppure, anche in questa versione terribile, il senso dell’evento permane: la rottura di un equilibrio, un effetto letteralmente straniante. Sempre nell’intervento sul ’68, Deleuze e Guattari descrivono – l’articolo è del 1984 – lo stato d’animo dei “figli del ‘68”:
“stranamente indifferenti, sono tuttavia al corrente di ciò che accade. Hanno smesso di essere esigenti o narcisisti, ma sanno bene che non c’è nulla al momento che corrisponda alla loro soggettività, al loro potenziale di energia. Sanno anche che al giorno d’oggi ogni riforma va semmai contro di loro. Finché possono, sono decisi a farsi il più possibile i fatti loro. Mantengono un’apertura, un possibile”.
Somiglia proprio allo stato d’animo di tanti che, ripetendo con rabbia e speranza lo slogan cileno delle mobilitazioni dello scorso anno “non vogliamo tornare alla normalità, perché la normalità era il problema”, vedono invece oggi il tentativo di ristabilire, a tappe forzate, gli stessi equilibri, gli stessi modelli, a cominciare da quello produttivo, che hanno caratterizzato il nostro mondo prima della pandemia. In questo stato d’animo da “fase due”, con welfare negato e industrie che ripartono allo stesso modo di prima, con una tragedia sanitaria senza assunzioni di responsabilità e scuole che devono urlare la loro assenza dalle preoccupazioni di governo, essere degni dell’evento penso significhi essenzialmente mantenere questa apertura di possibilità, non permettere che quello che accade sia riassorbito nel ristabilimento di una rinnovata continuità.
Tagliare la testa al re: il controllo oltre la repressione
Credo che questo rischio di ristabilire l’ordine e di chiudere il senso del possibile sia presente nella tentazione teorica di dare una risposta tutta lineare a quanto ci sta accadendo. Anche e soprattutto nella questione del controllo sociale, la tentazione di aggirare l’evento per ristabilire una pacifica continuità storica e teorica è sempre un buon modo per neutralizzare questo senso della possibilità e strapparcelo dalle mani.
Qui il riferimento al Sessantotto può farsi forse più preciso. Come seppe “tenersi fedele all’evento” uno come Michel Foucault? Trasformando la sua critica dei saperi in una critica dei poteri, com’è noto. Ma più precisamente, elaborando una critica all’idea repressiva del Potere e alla centralità della Sovranità. Perché individuò proprio in un’idea di potere come “essenza” sovrana, nel modello giuridico costruito da Hobbes in poi di potere come “monopolio”, un sostanziale rischio di blocco per la possibilità di costruire resistenza. Il potere non si “detiene”, non è un attributo di un soggetto, men che mai di un soggetto sovrano: i dispositivi di potere sono essenzialmente relazione, rapporto. E non funzionano in modo repressivo, ma produttivo: non regolano comportamenti e soggetti astrattamente preesistenti alla relazione di potere, ma attraversano i soggetti. Le soggettività si costruiscono sempre nella dinamica di relazione con il potere, una dinamica sempre aperta:
“dove c’è potere c’è resistenza, e tuttavia, o proprio per questo, essa non è mai in posizione di esternità rispetto al potere” (Foucault, 1978, pp. 83-84).
Si comprende benissimo ovviamente che davanti alla più classica delle situazioni eccezionali, quella relativa ad un’epidemia, la prima attenzione sia andata ai rischi dell’assunzione dei poteri di emergenza, rischi tutti realissimi e preoccupanti. Il punto però è che questa emergenza si costituisce sempre come un rapporto: il configurare l’emergenza sanitaria come una pura e semplice risurrezione della centralità repressiva è proprio il modo migliore per cancellare la relazione, i conflitti, le resistenze, e soprattutto le soggettività che dentro quell’emergenza si danno.
È una vecchia lezione degli studi critici del controllo sociale: il controllo non è mai configurabile come semplice attività repressiva. Le forme del controllo sono sempre costrette a riarticolarsi e a modificarsi dai soggetti, sono sempre in tensione, in relazione con le soggettività su cui la macchina del controllo si distende.
La storia dell’intreccio tra potere e salute, è proprio l’esempio migliore di come l’incentrarsi esclusivamente sull’aspetto repressivo finisca per nasconderci i conflitti, le resistenze, le tensioni reali che attraversano il controllo sociale. Per dirla molto sinteticamente: la storia del biopotere non è riducibile alla storia della sovranità di stato, non è la storia del progressivo e lineare espandersi del potere dello stato sui nostri corpi. Anzi: è la storia dell’intrecciarsi indissolubile di lotte e resistenze che trasformano continuamente la macchina statale. Foucault stesso ha avvertito molte volte: non bisogna guardare alla medicalizzazione della vita e alla salute pubblica come a una lineare statalizzazione della vita. La città medievale della lebbra è fondata su un principio di radicale esclusione del lebbroso, tenuto rigorosamente fuori dalle mura della città. La “moderna” città della peste invece costruisce un sistema di controllo, iscrizione, chiusura dei corpi all’interno della città stessa (Foucault, 1976, p. 216). Ma questa presa interna apre a un doppio movimento: da un lato è disciplina dei singoli corpi, dall’altro lato è sviluppo di un processo di normalizzazione e amministrazione della salute pubblica, che è anche una continua attività di socializzazione della salute stessa. Dentro le mura di quella città non si riafferma la “presa” della sovranità, ma una tesissima trasformazione delle sue funzioni: più la vita entra nella presa a carico del potere, più nel rapporto tra governo della salute della popolazione e comando sulla vita stessa si aprono tensioni non risolvibili. Il potere di vita e di morte del sovrano viene sostituito da una presa sulla vita che ne deve continuamente gestire, difendere e accrescere la forza: non più potere di far morire, e in seconda battuta lasciar vivere, ma far vivere, accrescere l’energia della popolazione, e lasciar morire, sospingere nella morte ciò che è si rivela improduttivo. Questo rapporto si fa però sempre più teso e conflittuale. L’esigenza produttiva detta i ritmi e trasforma il comando in tecnologia di governo. Ma i dispositivi di governo hanno davanti a sé sempre proprio il movimento di quella vita che socializzano e rafforzano. Lo sviluppo della sanità pubblica è così un campo di battaglia: l’igienismo rimodella le città secondo le esigenze della prevenzione di infezioni e contagi, ma deve fronteggiare le continue ribellioni, le fughe, le resistenze al potere di normalizzazione. Le esigenze di tenere in una sana salute produttiva la forza lavoro farà nascere il servizio sanitario in Inghilterra, ma la stessa presenza del servizio sanitario introduce un elemento di forza collettiva nella rivendicazione di salute e servizi che condurrà fino al piano Beveridge, forse la mediazione ultima e più avanzata di questo processo (Foucault, 1997).
Sanità e welfare tra normalizzazione e lotte
Medicalizzazione e controllo sociale, salute e normalizzazione, marciano quindi sicuramente insieme: ma è tutt’altro che la storia di un espandersi lineare della presa del Potere o dell’Apparato sulla vita. Tra dispositivi di controllo e produzione di soggettività c’è sempre relazione e lotta, nessun biopotere può sintetizzarli. Non a caso lo stesso progetto teorico di Foucault deve registrare questa tensione, e slittare dallo studio delle discipline allo studio delle controcondotte e, infine, dei processi di soggettivazione autonomi.
La storia del welfare diventa così la storia delle lotte nel welfare. Se continuassimo a seguire Foucault, al di là dell’immaginetta che ne fa solo il “cantore” della natura disciplinare delle istituzioni totali (espressione che, non a caso, preferisce non usare), vedremmo come il gioco tra gestione complessiva della popolazione e individualizzazione dei rischi produca continuamente i suoi effetti di soggettivazione. La società punitiva disciplina la forza lavoro, costruendone il soggetto; ma continuamente la socializza, producendo resistenze collettive e la necessità di allargare il campo del governo, di fuoriuscire dalla disciplina e di elaborare nuove razionalità di governo. La storia della progressiva medicalizzazione segue lo stesso ritmo: ben lontana dall’essere una lineare storia di cattura, produce crescita di resistenza e soggettività collettiva, come mostra la vicenda dell’Health Service inglese, che, nato dentro la logica del governare, gestire e migliorare la forza lavoro, deve continuamente rimodulare il rapporto tra individualizzazione della salute e intervento politico di programmazione e normalizzazione. Ma, lasciando per ora Foucault, potremmo trovare dispiegato nella storia del sistema sanitario italiano, con forza ancora più evidente, questo campo di tensione. L’appropriazione di saperi e pratiche dentro le lotte operaie hanno costituito una forza trasformativa e conflittuale, che ha connotato la politica sanitaria pubblica, mettendo sempre in tensione la stessa definizione di “pubblico” con la natura “statale” del sistema sanitario, fino a costruire, attorno alla soglia tra fabbrica e territorio, nodi di effettivo contropotere dentro/contro lo stesso sistema sanitario. L’irruzione del movimento femminista introduce l’autodeterminazione nel cuore delle politiche sanitarie. Il movimento di deistituzionalizzazione, con Basaglia, si farà architrave del processo “riformistico” (Giorgi, 2020): allo stesso tempo, e significativamente, la sottolineatura della natura di classe della lotta contro il manicomio, spesso messa tra parentesi o ridotta a una sorta di pedaggio pagato allo spirito dei tempi nelle ricostruzioni storiche, è un punto su cui Basaglia non cederà mai, fino a ritornarci anche dopo la riforma come chiave di resistenza ai tentativi di normalizzazione e di “chiusura della contraddizione”, che lo psichiatra veneto individuerà immediatamente come il vero rischio aperto dall’approvazione della legge 180.
Il processo di reindividualizzazione della salute, e il rilancio della natura gestionale e assicurativa del welfare sanitario, imposto dal neoliberalismo, a partire dalla fine degli anni Settanta, diventa incomprensibile nel suo senso se lo si considera separatamente da questa dimensione di accumulo di forze e di apertura di contraddizione nel cuore dello stato sociale: una risposta necessaria all’impossibilità di contenere dentro le logiche del controllo sociale la fortissima socializzazione della forza lavoro prodotta all’interno degli stessi dispositivi di “presa in carico” e gestione della vita.
Questo punto è cruciale, ed è proprio quello cancellato dalle raffigurazioni troppo lineari della storia del controllo sociale: il passaggio dalle discipline alla governamentalità neoliberale non è un processo di trasformazione tutto interno alle modalità di governo. Non è una sorta di autocritica o di “indebolimento” del governo: la rimodulazione delle razionalità del potere è resa necessaria dalla “indisciplina” delle soggettività. Il neoliberalismo non scalza la programmazione welfaristica per una sorta di esaurimento della forza di quest’ultima, ma perché la programmazione non contiene più, non ridisciplina, la produzione di soggettività che dentro il welfare si è sviluppata.
La sanità (collettiva) deve essere ricondotta a salute perché la vita eccede i margini del modello produttivo all’interno della quale i sistemi sanitari erano stati pensati per gestirla. Se la società del controllo (a spira di serpente, diceva Deleuze) sostituisce la società delle discipline (a buchi di talpa) è perché la talpa ha scavato bene, e ha distrutto i suoi buchi.
Lasciar morire. Il “fallimento” necropolitico del neoliberalismo
Il governo neoliberale reagirà reindividualizzando la vita. Si afferma inizialmente proprio captando l’energia che ha rotto la programmazione “statale” e quanto di disciplinare essa continuava a imporre. Ma resta l’imperativo di far vivere e lasciar morire. La sua crisi costitutiva sta esattamente nel fatto, che provando a rompere la socializzazione della forza lavoro per ricondurla alla misura imposta dall’estrazione di valore del capitale, potenziare la vita diventa in ultima analisi impossibile. In senso letterale: pur prendendo su di sé l’imperativo di far vivere, non può che lasciar morire. Se c’è una tremenda carica necropolitica, nel neoliberalismo, è proprio in questa sua “mancata presa”, in questa crisi radicale dell’equilibrio tra governo e potenziamento della vita (e della forza lavoro), una crisi che il neoliberalismo comincia a far propria, assumendo sempre più esplicitamente al suo interno gli elementi di violenza. Lo abbiamo visto nel Mediterraneo: l’abbandono alla morte diventa anche pubblicamente pronunciabile e rivendicabile come strumento di regolazione delle migrazioni.
Attenzione però a non confonderci: nessun ritorno dell’antico diritto sovrano di morte. Qui non è in questione una concentrazione di potere di decisione (ancora una volta: incantarsi sulla storia “sovrana” del potere e sulla sua “essenza” confonde le idee). Questo aspetto necropolitico emerge piuttosto dal fallimento della capacità di governo, dalla sua impossibilità a gestire e moltiplicare le forze della cooperazione sociale, le energie delle soggettività. Lo scrisse benissimo in questo modo Alessandro Pandolfi:
“Il ridimensionamento dell’omogeneizzazione amministrativa e la crisi dei programmi distributivi e assistenziali della biopolitica, conducono a un punto di indifferenza le precedenti relazioni del potere con la vita e la morte. In questa terra politica di nessuno sembrano fondersi il vecchio diritto premoderno di “far morire o di lasciar vivere” e il più recente potere “di far vivere o di respingere nella morte” (Pandolfi, 1978, p. 18).
È l’impotenza ad assicurare insieme estrazione capitalistica e mantenimento delle strutture di base di riproduzione della vita a rendere necropolitico il neoliberalismo. Ancora una volta, si presenta la disgiunzione che abbiamo inseguito: il ritirarsi di ogni capacità programmatica non produce l’assoggettamento integrale delle soggettività, ma al contrario, l’impossibilità di ricondurle alla logica governamentale. Nel momento in cui si attaccano le stesse infrastrutture di riproduzione della vita, in realtà diventa evidente l’autonomia di queste infrastrutture. L’equilibrio tra programmazione e individualizzazione gira a vuoto ancora una volta non per l’esaurimento della forza della cooperazione sociale, ma proprio per la sua centralità, sulla quale non si assicura più capacità di governo. Il mondo ricco di attitudini, di esperienze, di intelligenza collettiva sul quale il neoliberalismo ha cercato di imporsi come un contromovimento, come un esercizio simultaneamente di captazione e di rovesciamento, si scopre esposto all’abbandono, all’incapacità di progetto, e insieme alla violenza mortifera che ne consegue, ma allo stesso tempo acquista tutta la sua autonomia.
La disconnessione: istituzioni come contropoteri
L’esperienza della pandemia ci ha messo davanti agli occhi esattamente questo paesaggio: l’incapacità del modello neoliberale di governare la vita, la sua violenza nel ristabilire un comando impossibile, e, insieme, l’autonomia e la forza delle strutture di autoprotezione sociale. Il tentativo delle versioni più violente e ciniche del neoliberalismo di affermare il lasciar morire in tutta la sua crudezza è durato lo spazio di un mattino: il suo nome è stato “immunità di gregge”, cioè apologia completa e esplicita del darwinismo sociale, ha ritardato l’intervento di controllo epidemico, e ha lasciato ben presto il posto a un tardivo intervento di controllo. Si è aperto così un conflitto chiarissimo: da un lato, la capacità di autotutela collettiva delle persone, e le lotte, in fabbrica, nella sanità e nel welfare, per affermare il primato della riproduzione sociale, della vita e delle sue strutture fondamentali; dall’altro il tentativo di ristabilimento della priorità del sistema produttivo. Un campo di lotte segnato non più dal semplice rapporto potere-resistenza, ma dal costituirsi delle resistenze in un campo di autonomia, di fronte alla incapacità dell’esaurita programmazione statuale di assicurare protezione.
La precisione di Foucault, negli interventi degli ultimi anni della sua vita, ci segnala il campo che si è aperto dal fallimento del neoliberalismo: che non significa, beninteso, presunto superamento o esaurimento, ma incapacità di governo, minaccia di violenza e di esposizione alla morte. È un campo che è tutto nel segno della disconnessione tra l’intensificazione delle capacità delle soggettività e le relazioni di potere che le attraversano: è una relazione che si dà ormai quantomeno come intransitiva, se non come (potenzialmente) antagonistica.
“Se è vero che il disagio attuale mette in discussione tutto quello che può essere associato all’autorità istituzionale statale, allora le risposte non arriveranno da coloro che gestiscono questa autorità: dovrebbero essere date, invece, da coloro che intendono controbilanciare la prerogativa statale e costituire dei contropoteri.” (Foucault, 1978, p. 28)
Che è esattamente quello che vediamo all’opera nella pandemia.
Se quindi abbandoniamo le letture lineari e continuiste, incentrate sulla coppia controllo/sovranità, e, una volta tagliata la testa al re, riattiviamo quanto ci proviene dalle letture conflittuali (e materialiste!) del controllo sociale, possiamo mettere a tema la prospettiva del recupero della capacità di invenzione istituzionale proprio da parte delle forze della cooperazione sociale: non più dentro un rapporto simmetrico potere/resistenza, ma esattamente nella rottura, o almeno nello squilibrio non recuperabile, di questo rapporto. Se una capacità di governo può essere reinventata, ora sta tutta dalla parte della cooperazione sociale. Sicurezza, controllo, governo sono stati erosi dalla logica neoliberale: ma possono essere recuperati e trasformati non più dal lato del potere, e neppure da quello della resistenza al potere, ma dentro le capacità di autonomia delle soggettività e nel cuore della riproduzione sociale. Il fatto che i movimenti politici globali che attraversano e animano le lotte siano movimenti ecologisti e femministi, indica molto chiaramente quali soggetti possono oggi reinventare istituzioni in grado di proteggere la vita.
Bibliografia
Gilles Deleuze, Felix Guattari, Maggio ’68 non c’è stato, in Gilles Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti, Einaudi, Torino, 2010
Michel Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità I, Feltrinelli, Milano, 1978
Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Einaudi, Torino, 1976
Michel Foucault, La nascita della politica sociale, in Id., Archivio Foucault 2, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano, 1997
Chiara Giorgi, La sanità da riscoprire. Le radici politiche del Servizio Sanitario Nazionale, https://www.euronomade.info/?p=13126
Alessandro Pandolfi, L’etica come pratica riflessa della libertà. L’ultima filosofia di Foucault, in M. Foucault, Archivio Foucault III, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano, 1978
Foucault, Un sistema finito di fronte a una domanda infinita, in M. Foucault, Archivio Foucault III, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano, 1978
“Istituzioni, controllo e sicurezza: muoiono dal lato del governo, rinascono come contropoteri della cooperazione”, Pubblicato nel blog Studi sulla questione criminale online, al link: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2020/06/05/istituzioni-controllo-e-sicurezza-muoiono-dal-lato-del-governo-rinascono-come-contropoteri-della-cooperazione/
Traduzione in francese: http://tlaxcala-int.org/article.asp?reference=29129&fbclid=IwAR0z9eAHSje-Pi5791TxYFnwbkUmRMOf3sma2dvHkJJTRAe8ZCInfP4R_Kg