Di ROBERTO CICCARELLI

I libri del segretario dell’Unicobas Stefano D’Errico (La scuola distrutta, Mimesis, pp. 640, euro 30), quello curato da Sergio Colella, Dario Generali, Fabio Minazzi (La scuola dell’ignoranza, Mimesis, pp. 280, euro 24) e di Anna Angelucci e Giuseppe Aragno (Le mani sulla scuola, Castelvecchi, pp. 192, euro 17) fanno emergere un lavoro critico sull’ideologia e gli esiti delle «riforme» neoliberali che hanno trasfigurato l’istruzione e la ricerca.

LA CONTEMPORANEITÀ di queste uscite è l’esito di una militanza pluriennale condotta in convegni, seminari, campagne a difesa della scuola pubblica, con alterne fortune. L’invito è leggerli singolarmente, e in maniera incrociata, perché coniugano l’autocritica dei docenti consapevoli di essere attori di un processo che contrastano e la ricerca di una fortiniana verifica dei poteri capace di rovesciare la visione del mondo imposta dalla «valutazione totalitaria», così definita da Rossella Latempa in un saggio de La scuola dell’ignoranza.
Per critica della valutazione gli autori intendono questo: trasformazione dell’essere umano, e non solo dell’economia, attraverso la politica del «management per obiettivi»; amministrazione della vita attraverso la somministrazione di premi e punizioni; rovesciamento dell’idea di forza lavoro nel suo opposto di «capitale umano»; il paradosso di una liberazione che coincide con l’auto-sfruttamento. Contraddizioni in cui agonizza la soggettività contemporanea.

QUESTI LIBRI sono utili per istruire un’indagine sulle cause che hanno prodotto una subalternità politica diffusa. Ha pesato il collateralismo di una parte maggioritaria dei sindacati, ma anche la frammentazione degli altri. Emerge nella cronaca spigolosa e dettagliata di D’Errico che parte da uno dei momenti più alti del sindacalismo di base: la mobilitazione contro la riforma che portava il nome di Luigi Berlinguer, radicalmente avversato e alla fine dimessosi da ministro di un governo di «centrosinistra» nel 2000.

Questa non è l’unica causa, è uno degli effetti. Il problema è culturale e interessa il senso della resistenza che si è espressa anche contro la «Buona scuola» di Renzi e del Pd nel 2015. Più che sconfitta, scrive Giovanni Carosotti ne La scuola dell’ignoranza, è stata aggirata da un cambio di strategia. Non più riforme di sistema, ma leggi-ombrello che modificano la prassi senza il consenso di docenti. Oggi non si procede solo per leggi, ma per atti amministrativi. Il governo manageriale dell’esistenza evita il conflitto, moltiplica le burocrazie, istituisce una premialità individuale discrezionale, elimina l’idea di cooperazione a favore della competizione, favorisce la subalternità culturale e la credenza nell’insuperabilità del presente. Si aderisce a un sistema di potere che si contribuisce a costruire, anche se si resta in profondo disaccordo con i principi che lo fondano. È la contraddizione che accresce l’infelicità dominante.

PERNO DI QUESTA STRATEGIA è il concetto di «autonomia». Inflazionata parola baule, allude a una libertà coniugata con l’uguaglianza. Questi testi dimostrano come il principio sia stato rovesciato nel suo opposto, portando alla perdita di senso critico, di linguaggio e indipendenza. L’autonomia è servitù: questo è il contenuto della rivoluzione conservatrice di cui siamo ostaggi.
La decostruzione dell’ideologia dominante può incorrere in un equivoco. Si lamenta la perdita di «cultura» nella scuola neoliberale rispetto a quella della Costituzione. Ma c’è mai stato un periodo in cui la cultura è stata considerata un valore in sé, al netto di quanto enunciato nell’idealismo dei programmi scolastici? Per di più oggi nella scuola dell’«alternanza scuola-lavoro», basata sugli apriori classisti gentiliani: da una parte l’élite, sempre più ristretta e in crisi, dall’altra la massa intesa come dequalificata? È lecito dubitarne.

Ne La scuola dell’ignoranza il saggio di Emilio Amatulli coglie il problema: una scuola non complice della produzione di soggettività servili si ribella contro l’ignoranza di Stato. Tuttavia, anche in una società ideale, continuerà a muoversi nell’ignoranza. L’ignoranza non è il vuoto, è il primo grado della conoscenza di cui parla Baruch Spinoza. Va trasformata nella consapevolezza del non sapere. Degli studenti e dei discenti. In essa può emergere un desiderio infinito che non si esaurisce in ciò che si può fare.

Democrazia a scuola, hanno scritto Jacques Rancière o Ivan Illich, è mettere in gioco i ruoli sociali, i saperi consolidati. Una scuola che insegna a fare a meno della scuola in una società che celebra il parossismo della «formazione continua», ovvero il lavoro di chi cerca un lavoro precario per mestiere. La rinnovata attualità dell’esortazione a «farla finita con l’obbedienza» si spiega con il desiderio di sottrarsi a questo strazio per maturare un’esistenza libera dai ricatti nella società autoritaria del mercato. Questa è l’utopia della scuola pubblica.

LA «DISTRUZIONE» della scuola denunciata in questi libri indica la progressiva corrosione di una tensione politica, non il rimpianto di un liceo classico d’élite o della scuola degli anni Sessanta, Settanta o Ottanta. È una precisazione necessaria perché l’attuale dibattito tra meritocrati e nostalgici dell’umanesimo occulta le conseguenze delle «riforme» e imprigiona la scuola in un’illusione retrospettiva postmoderna. Se nella scuola di cinquant’anni fa, diversamente autoritaria rispetto a quella attuale, sono maturati spazi di libertà è stato grazie al conflitto, non al consensuale riconoscimento di una superiore missione civilizzatrice. La democrazia è stata portata a forza nelle aule dagli studenti, dai docenti, dagli operai e dalle donne in una dura battaglia contro il classismo, tutt’altro che vinta. Quel conflitto era l’espressione di una critica della scuola come istituzione repressiva, di classe, un «apparato ideologico di Stato» che aveva – e ha – lo scopo di riprodurre una forza lavoro funzionale alla divisione capitalistica del lavoro.

Se prima alla scuola è stato riconosciuto il mandato di formare diversamente operai specializzati e quadri nella produzione fordista, oggi si cerca di plasmare forza lavoro per la produzione just-in-time e la vita precarizzata nell’economia postfordista e finanziarizzata, scrivono Anna Angelucci e Giuseppe Aragno ne Le mani sulla scuola.

In questo passaggio storico è cambiato il ruolo sociale attribuito al conflitto. Ora sembra appannaggio di pochi sopravvissuti alla competizione. Questi libri ricordano, gramscianamente, che il conflitto è una virtù collettiva. Serve ad affermare una condizione comune contro l’egemonia che considera la scuola un’istituzione totale e un’agenzia del capitale umano. Non mancano gli strumenti, né la consapevolezza, per tornare a praticarlo.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 21 febbraio 2020.

Rimandiamo qui all’appello Disintossichiamoci: un appello per ripensare le politiche della conoscenza

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