di GIROLAMO DE MICHELE. [⇒ english]

Con due volumi collettivi, Effetto Italian Thought (a cura di Enrica Lisciani-Petrini e Giusi Strummiello, pp. 268, € 22) e Decostruzione o biopolitica? (a cura di Elettra Stimilli, pp. 142, € 18) prende l’avvio un ambizioso progetto collegato alla collana “Materiali IT” della casa editrice Quodlibet, che vorrebbe «rendere conto dell’importanza assunta nel panorama filosofico internazionale dal pensiero italiano contemporaneo (“Italian Theory” o “Italian Thought”)».
Il disegno, in stretta correlazione con la produzione filosofica di Roberto Esposito, può essere sintetizzato lungo tre direttrici. In primo luogo, un tentativo di definire in modo più stringente il campo della “Italian Theory“, sorto a partire dal successo in ambito internazionale di un certo numero di pensatori italiani, in prevalenza afferenti al cosiddetto post-operaismo: l’Italian Thought sembra voler focalizzare, pur senza esclusioni preconcette, l’attenzione sulla produzione filosofica che si riconosce erede dell’operaismo trontiano e si interseca con la ricerca del “secondo” Foucault biopolitico.

Al tempo stesso, l’Italian Thought ambisce a un confronto con altre tradizioni del pensiero contemporaneo dalla vocazione pratico-politica, in particolare il post-strutturalismo francese, all’interno del quale viene impostata una scelta di amicizie che sembra privilegiare la ricerca di Michel Foucault rispetto al decostruzionismo derridiano e al pensiero di Deleuze.
Infine, l’Italian Thought ambirebbe a un’estensione storica, recuperando al proprio interno quella vasta parte della tradizione nazionale che pone la attenzione al tema del linguaggio e alla vocazione pratico-politica del pensiero: a costruirsi, insomma, una genealogia che da Dante, attraverso Machiavelli, Bruno e Vico, giunge fino a Mazzini, Gramsci e Croce, e infine Pasolini. Una “filosofia della ragione impura”, per usare le parole di Remo Bodei, cui viene demandato il compito di tracciarne una prima mappa.

È proprio l’orientamento verso la prassi a consigliare una via preferenziale nel confronto tra Derrida e Foucault (e Agamben): con equilibrate parole Simona Forti, dopo aver rimarcato che «in nessun caso la vita può essere sottratta ai dispositivi che la catturano, la allontanano e la dividono da se stessa, semplicemente perché per Derrida è una bestemmia pensare a una vita integra, salvata dal suo continuo differire, dalla morte», conclude che

Non è tra biopolitica e decostruzione che si gioca la partita, ma, ancora oggi, il discrimine è da vedersi tra una filosofia che ritiene di poter esaltare la potenza della vita per scongiurare il potere della morte e una filosofia che rimane convinta della loro inevitabile coappartenenza.

Con tono quasi affettuoso, Esposito sembra così prendere congedo da quella decostruzione che «è stata la nostra giovinezza» per riconoscere che «oggi, in un mondo che cade a pezzi, la decostruzione non basta più». E rilanciare la sfida in «quell’estremo fuori che ci ha indicato Foucault». Una scelta di campo che sembra condivisibile, alla luce degli esiti di alcuni decostruzionisti italiani verso una condivisione acritica e cinica del terreno sicuritario.

Il riferimento al «mondo a pezzi» introduce la tonalità politica che anima la proposta di Esposito, e al tempo stesso innerva il suo confronto con Toni Negri. A fronte della «prima grande crisi politica della globalizzazione», lo «sgretolamento del paradigma imperiale determina uno sfaldamento anche delle due categorie, che dialetticamente ne derivano, di “moltitudine” e di “comune”». Negri peccherebbe di eccessivo ottimismo nell’ipotesi che il capitalismo cognitivo determini le condizioni del suo superamento: un positivo che, come per Deleuze, si basa su un’ontologia radicalmente affermativa, ed esclude «la determinazione legata alla realtà del negativo». Il disegno di Esposito si configura così come una sorta di “secondo operaismo” che recupera al proprio interno Hobbes e una dialettica del negativo che oscilla fra il giovane e il maturo Hegel. In ogni caso Hegel: non Marx.
Ed è qui che si aprono i problemi, come Negri mette in luce nella sua replica. Problemi che nascono sin dalla delimitazione del campo, giacché già parlare di post- o secondo operaismo è una scelta in qualche modo orientata verso l’accettazione della separazione fra prassi militante e pensiero operata da Tronti all’indomani di Operai e Stato; non a caso Negri direbbe che in realtà c’è sempre stato un solo operaismo, dal quale Tronti e altri hanno preso congedo. Una scelta fatta propria, negli anni Ottanta, da quella “costola destra” del Centauro che, in parallelo col pensiero debole, pur nella diversità dei padri putativi (Schmitt e Hobbes per gli uni, Heidegger per gli altri), ricondussero il pensiero dal terreno delle lotte nel più rassicurante recinto dell’Accademia, con buona pace di Lisciani-Petrini, che crede di ravvisarvi (riferita al pensiero debole) «una salutare dissacrazione di tutta una serie di procedure intellettuali sclerotizzate». Fatto è che i concetti di Negri non sono deduzioni dialettiche, ma figure del reale: il comune non scaturisce dalla mente del filosofo, ma è «il prodotto di un agire comune». Così come una lettura delle lotte nell’epoca del capitalismo cognitivo “dall’interno” e non dalla superficie dei libri, mostra come sia tutt’altro che pacifica, liscia e priva di conflitti la sussunzione del patrimonio cognitivo e inventivo da parte del capitalismo finanziario: ma quello di «trasformare l’egemonia tendenziale del lavoratore cognitivo in potenza attuale, trasversale di tutta la classe dei lavoratori» (compito che, con buona pace dei populisti odierni, coinvolge l’intera società messa al lavoro) è, per l’appunto, un compito politico, non un’impresa concettuale. Che richiede una militanza organizzata sul piano globale, piuttosto che una “teoria” (o un “pensiero”) nazionale: altrimenti la vocazione alla prassi finisce per reintrodurre il peggior Gramsci, quello togliattizzato, e con lui la vocazione dell’intellettuale a farsi mosca cocchiera, piuttosto che a sporcarsi le mani nella prassi.

Da qui una serie di altre perplessità: ha senso irrobustire l’albero genealogico fino a includervi Croce (mentre risuona assordante l’assenza di Leopardi e del femminismo italiano), accomunando pensatori sovversivi e pensatori interni all’egemonia delle classi dirigenti nazionali? Ha senso, a fronte della pluralità di intersezioni filosofiche nelle quali, con un positivo eclettismo sempre orientato dalla stella polare marxiana, provengono Negri e l’operaismo (senza prefissi), ridurre il campo delle possibili alleanze, rinunciando alla produttività del costruttivismo deleuzeano e ignorando la figura di Guattari, al quale si devono le pagine di riflessione linguistica nelle opere “comuni”?
Ha senso, se ciò cui si mira è la coerenza teorica, piuttosto che il rischio di una reale impurità: ma se alla fine, col negativo dialettico si finisce per approdare dalle parti di Žižek e Lacan, il gioco vale ancora la candela? Che il problema dell’Edipo sia superato dalla società del controllo (così Bazzicalupo), è davvero pacifico? O non è piuttosto vero che le forme del controllo manifestano una produzione di significanti dispotici – dunque di quell’Edipo che è prodotto – che proprio Deleuze, nel suo fulminante scritto sulla società del controllo, intravede, collegando la riflessione di Foucault (senza numeri ordinali) ai temi dell’Alti-Edipo e di Mille piani?

In definitiva, ciò che appare è che sia quantomeno opinabile che questo ambito di pensiero – costruito attorno alla riflessione di Roberto Esposito – abbia gambe e testa adeguate al compito che si prefigge: compito troppo vasto per essere svolto sul solo piano della teoria senza rimboccarsi, in tutti i sensi, le maniche.

questa recensione è stata pubblicata sul manifesto del 2 gennaio 2018

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