intervista a JACQUES RANCIERE di JOSEPH CONFAVREUX.
D: Che sguardo avete sul momento/movimento della Nuit debout?
Rancière: Diciamo innanzi tutto che il mio punto di vista è strettamente limitato: è quello di un osservatore esterno che reagisce semplicemente a quanto evocano per lui i temi e le forme di tale movimento. A prima vista, si può cogliere in questo movimento una sorta di versione francese in miniatura del “movimento delle piazze” che ha avuto luogo a Madrid, New York, Atene o Istanbul. Esso è tollerato sullo spazio che occupa, più che invadere. Ma condivide con queste occupazioni l’idea di restituire alla politica il suo aspetto di sovversione materiale effettiva di un ordine dato degli spazi e dei tempi. Questa pratica ha avuto difficoltà nell’installarsi in Francia, dove il tutto della “politica” è oggi ricondotto alla lotta dei concorrenti per la presidenza della Repubblica. La Nuit debout non riesce a credere a se stessa e a volte assomiglia a una “mezza occupazione”. Tuttavia fa ben parte di quei movimenti che hanno operato una conversione dalla forma-manifestazione alla forma-occupazione. All’occorrenza, ciò ha significato passare dalla lotta contro certe disposizioni della legge sul lavoro a un’opposizione frontale a quella che alcuni chiamano “uberizzazione” del mondo del lavoro, una resistenza contro la tendenza che vorrebbe sopprimere ogni controllo collettivo sulle forme di vita collettive. Al di là delle misure particolari della legge El Khomry, questa in effetti è la posta in gioco. La Loi Travail è apparsa come il culmine di tutto un processo di privatizzazione dello spazio pubblico, della politica, della vita… Il contratto di lavoro è qualcosa che viene negoziato con ogni singolo individuo, ciò che significa ritornare al XIX secolo, prima della nascita delle forme moderne di lotta operaia, ovvero si difende una società fondata sul controllo collettivo e la discussione collettiva, sia della vita che del lavoro? La Nuit debout è apparsa, in tale contesto, come una riduzione su scala francese di qualcosa di singolare che si potrebbe chiamare desiderio di comunità. Abbiamo già conosciuto l’epoca in cui ci si ritrovava dentro strutture collettive potenti al cui interno si conducevano delle battaglie, si trattasse dell’università o della fabbrica. La lotta allora contrapponeva in un medesimo luogo due modi di fare comunità. Ma noi siamo ora al termine di una grande offensiva che alcuni definiscono neo-liberale e che io chiamerei piuttosto offensiva del capitalismo assoluto, che tende alla privatizzazione di tutti i rapporti sociali e alla distruzione degli spazi collettivi in cui due mondi si affrontavano. Contro questa privatizzazione e individualizzazione è nato, e si è sentito fortemente in Occupy Wall Street, un desiderio un po’ astratto di comunità, che ha trovato, per materializzarsi, l’ultimo luogo disponibile, la strada. L’occupazione, un tempo, aveva il suo luogo privilegiato nella fabbrica, dove la comunità operaia affermava il proprio potere sul luogo e sul processo al cui interno subiva il potere padronale e faceva così di quel luogo privato uno spazio pubblico. Essa si pratica oggi nelle strade, nelle piazze, come negli ultimi spazi pubblici dove si può essere in comune, discutere e agire in comune.
D: Nella Nuit debout, sono spesso chiamati in causa la Rivoluzione francese, la Comune o il Maggio ‘68. Che pensate di questa mobilitazione della storia rivoluzionaria, che alcuni giudicano più parodistica che reale?
Rancière: Gli Amis de la Commune hanno effettivamente uno stand a place de la République. Si colloca tuttavia, in continuità con una grande tradizione storica? Bisogna considerare che l’offensiva del capitalismo assolutizzato è raddoppiata da un’intensa controrivoluzione intellettuale, da un’offensiva revisionista nei confronti di tutte le forme della tradizione di sinistra, che sia rivoluzionaria, comunista, anticolonialista o partigiana. Questa controrivoluzione intellettuale si è sforzata di annientare o di criminalizzare ogni elemento di questa tradizione. La Rivoluzione del 1917 è stata ridotta ai campi staliniani, la Rivoluzione francese al Terrore, l’anticolonialismo all’inutile «singhiozzo dell’uomo bianco» e infine la Resistenza agli eccessi dell’epurazione. C’è stato insomma un annichilimento di tutto un passato, operato da persone che, d’altronde, non gessano di gemere sulla “trasmissione” perduta. La volontà di riannodarsi al passato è dunque importante, anche se può sembrare formale e simbolica. I richiami a una storia di lotte e contraddizioni possono inoltre svolgere un ruolo di contrappeso rispetto ai rischi di annacquamento della politica in una specie di fraternità, in un movimento come la Nuit deboutche non si colloca più, come il Maggio ’68, su un solido fondamento di credenze marxiste nella lotta di classe e di conflitti operai.
D: Che lettura date dell’esigenza molto “orizzontalista”, senza rappresentanti né leader, portata avanti dalla Nuit debout?
Rancière: Bisogna collocarla nel contesto dell’orrore sempre crescente che la politica ufficiale può ispirare. Per il 15-M di Madrid, la grande parola d’ordine indirizzata a chi allora faceva campagna era: «Voi non ci rappresentate». Ma ciò corrisponde anche al discredito delle avanguardie politiche rivoluzionarie, ancora molto potenti nel 1968. Le assemblee attuali reagiscono contro le assemblee che abbiamo conosciuto nel Maggio ‘68 e dopo, manipolate dai gruppuscoli. Dobbiamo capire il richiamo a quanto significa eguaglianza, comprese le sue forme più materiali. Ma, oltre a ciò, fa problema l’ideologia del consenso, con quell’idea che tutti devono essere d’accordo e una feticizzazione della forma assemblea, che sarebbe soltanto il luogo dove ciascuno dovrebbe poter parlare.È una preoccupazione, d’altronde, condivisa da molti che sono coinvolti nel movimento: un’assemblea popolare non deve essere soltanto un’assemblea dove ognuno viene, a turno, a esprimere il proprio problema o la sua rivolta e battersi per la causa militante che gli è particolarmente cara. Nuit debout, come tutte le occupazioni del medesimo genere, per un verso raccoglie individui desiderosi di ricreare il comune, per l’altro anche quella moltitudine di militanze parziali, specializzate, che si sono sviluppate nello stesso contesto di privatizzazione della vita pubblica e di rigetto di ogni “avanguardia”. È importante che il diritto di ogni voce sia affermato, ma un’assemblea deve poter decidere su qualsiasi cosa e non semplicemente proclamare “siamo tutti eguali”. Un’assemblea deve dunque manifestarsi con decisioni, con lotte, non solo essere una figura formale dell’eguaglianza. Certo, è importante materializzarla spazialmente. Nel 1848 era stato proposto uno schema di assemblea in cui i rappresentanti avrebbero dovuto stare di sotto, mentre al di sopra stavano migliaia di uomini del popolo per sorvegliarli. L’aspetto propriamente materiale della politica egualitaria è dunque molto importante. Ma l’agire de la libertà e dell’eguaglianza non può assumere semplicemente la forma di un’assemblea in cui ognuno ha libertà di parola. L’eguaglianza è un processo di verifica, un processo di invenzione, non semplicemente una fotografia della comunità. Resta il problema di inventare delle azioni, delle parole d’ordine, affinché l’eguaglianza si metta in marcia. Un’assemblea egualitaria non è dunque un’assemblea consensuale, neppure se la nozione di consenso si colloca al cuore di tutti i movimenti che occupano le piazze. Mi ricordo dello choc sperimentato, una volta che ero stato invitato a parlare in un’università occupata dagli studenti di Amsterdam, davanti al grande striscione che proclamava: “Consensus. No leaders”. La lotta contro le gerarchie è una cosa, l’ideologia del consenso un’altra. Contestare i leader e la gerarchia, certo, ma ciò non significa che tutti siano d’accordo e che non si possa intraprendere nulla se non con l’accordo di tutti.
D: Dobbiamo allora ridefinire il concetto di democrazia, dopo aver visto nel caso di Finkielkraut [il filosofo neo-liberale espulso dalla piazza – n.d.t] che il termine generava divisioni interpretative: consenso o conflitto?
Rancière: L’episodio Finkielkraut ha squalificato la Nuit debout solo nelle cerchie in cui, comunque, era già squalificata. Che sarebbe successo se Finkielkraut fosse ripartito senza che nessuno gli avesse prestato attenzione? I vari Joffrin e Onfray, invece di strillare al totalitarismo, avrebbero sogghignato: ecco questi terribili rivoluzionari! Non hanno neppure osato interpellare Finkielkraut! Tutto ciò non ha importanza. Il problema sta altrove. Democrazia vuol dire che nel seno stesso del popolo democratico ci sono posizioni che entrano in conflitto fra loro, non semplicemente che si succedono al microfono uno che parla di marxismo, un secondo che evoca i diritti degli animali e un terzo che evoca la situazione dei migranti. Servono vari tipi di assemblea, uno in cui ognuno può dire quel che vuole, perché ne può scaturire qualcosa di inatteso, ma soprattutto altri in cui ci si domanda: “Che si sta facendo e cosa si vuol fare”? Il problema della democrazia è di arrivare a costituire la volontà di un popolo. Con quali parole d’ordine si decide che si farà popolo, che si può costruire un collettivo democratico? Attualmente abbiano la sensazione di essere in una specie di spazio di soggettivazione, ma senza che si instauri davvero una soggettivazione collettiva. Per questo occorrerebbe che esistessero altrove dei forti movimenti sociali e soprattutto che tutti i giovani, che vivono come al margine della comunità nazionale, costituissero, anche loro, dei collettivi, per dire quello che vogliono. Negli anni ‘80, ci fu quella marcia per l’eguaglianza cui parteciparono i giovani dell’emigrazione, iniziativa in seguito recuperata, manipolata, annientata, come tutte le energie inghiottite dalla menzogna “socialista”. Oggi è assai difficile rimettere in marcia l’eguaglianza. Non è che abbia più immaginazione di altri, ma penso che quello è il problema. Si ha spesso l’idea che, maggiore è l’oppressione, maggiore sia la resistenza. Però le forme di oppressione che ci governano non creano resistenza ma scoraggiamento, disgusto verso se stessi, il sentimento di essere incapaci di fare checchessia. Allora si può pure dire che la Nuit debout funziona a circuito chiuso e si culla di illusioni, ma uscire dallo scoraggiamento resta fondamentale.
D: Che pensate dell’idea di scrivere una costituzione e di preparare un’assemblea costituente?
Rancière: Il disinteresse per le forme della vita pubblica istituzionale in nome di una pretesa radicalità rivoluzionaria ha sicuramente contribuito alla smobilitazione delle energie. È dunque importante riaffermare fino a qual punto lo stato in cui ci troviamo è una conseguenza della disastrosa costituzione del V Repubblica e dell’anestesia di ogni vita politica e dell’imputridimento degli spiriti che essa ha prodotto nel lungo termine. Un movimento anti-V Repubblica, anti-presidenzialista, è dunque una necessità. Del pari, il richiamo a certe verità provocatorie sulla democrazia, come l’estrazione a sorte è ciò che essa implica: la de-professionalizzazione della vita politica. Ma, per un verso, l’appello alla Costituente si accompagna spesso a ideologie “civiche” piuttosto banali e “repubblicane” un po’ “rigide”. Ma soprattutto non bisogna immaginarsi di uscire dalla putredine attuale soltanto redigendo una buona costituzione. Redigere una costituzione è importante quando lo fanno persone cui non lo si domanda, che non hanno “qualità” per farlo Ma è altrettanto importante che ciò avvenga in un processo di lotta in cui le parole non sono ricette per una felicità futura ma armi nel presente. Sarebbe bene, per esempio, che le costituzioni “redatte dai cittadini” si iscrivessero in processi di lotta effettivi contro l’ordine costituzionale vigente, che servissero, per esempio, a gettare scompiglio nelle famose “grandi primarie democratiche” [iniziativa pseudo-civica per organizzare primarie a sinistra per designare il candidato alle presidenziali del 2017 –n.d.t.]. La gente per bene strillerebbe all’offesa alla democrazia, ma ciò produrrebbe una discussione sul senso stesso della parola democrazia che potrebbe essere utile. Il nocciolo del problema è che bisogna immaginarsi forme di vita politica che, allo stesso tempo, siano integralmente eterogenee rispetto a questa vita politica ufficiale integralmente confiscata da una classe di professionisti che si riproduce indefinitamente – situazione che in Francia ha raggiunto un livello senza pari nell’Europa occidentale – e tuttavia capaci di affrontarla secondo le loro forme e la loro agenda propria.
D: Che fare dell’accusa di omogeneità sociologica mossa alla Nuit debout?
Rancière: All’inizio il Maggio ’68 era un movimento di un piccolo gruppo di studenti “piccolo-borghesi”. E ha prodotto la dinamica dello sciopero generale che ha finito per trasformarlo, con la convergenza sulla Sorbona di molteplici forme di lotta che scoppiavano qua e là. Bisogna ricordarsi del ruolo di modello svolto per l’occupazione stessa della Sorbona dallo sciopero con occupazioni e sequestri che allora si svolgeva da varie settimane nella fabbrica di Sud-Aviation a Nantes. La Nuit debout, a sua volta, arriva dopo il giudizio simbolico che ha condannato a pene di reclusione, per gli stessi fatti, alcuni operai della Goodyear. Arriva in un contesto di delocalizzazione delle imprese, chiusura di fabbriche, disfatte operaie e criminalizzazione delle forme di resistenza. Non può beneficiare della dinamica sociale che abbiamo conosciuto nel Maggio ’68. Certo, occorrerebbero dei movimenti Nuit debout o dei movimenti di altro tipo dovunque, specialmente nei quartieri che si sono rivoltati nel 2005. Si può sempre rimproverare al popolo di place de la République di essere dei liceali, dei giovani precari o degli individui che rappresentano solo se stessi. Occorre però farsi carico dello stato generale di quello che qui si chiama politica. In una Francia resa amorfa dall’offensiva cosiddetta neo-liberale, dalla frode socialista e da un’intensa campagna intellettuale contro tutta la tradizione sociale militante, non ci si può contentare di ridurre la Nuit debout al fatto che questo movimento non rappresenti sociologicamente granché. Affinché tale movimento vada più lontano, dovrebbe inventare parole d’ordine che lo facciano esplodere oltre se stesso. Ci si può forse impadronire della congiuntura pre-elettorale per creare non una “primaria della vera sinistra”, ma una mobilitazione molto forte contro il sistema presidenziale. Ci si potrebbe immaginare che un simile movimento vada a parare non solo a dichiarazioni sul fatto che non si voterà più socialista, ma a qualcosa come un movimento per la non-presidenza o per la soppressione della presidenza della Repubblica.
D: Le Nuits debout possono consentire di uscire dalla cappa di piombo post-attentati, simbolizzata da una place de la République reinvestita dalla parola e dalla lotta dopo che era diventata un mausoleo?
Rancière: Non bisogna chiedere troppo a questo movimento. Ma è vero che uno dei suoi elementi significativi è la trasformazione di una gioventù in lutto in una gioventù in lotta, anche se tale trasformazione non è agevole. Quando si va a place de la République, si vede che molto lentamente, tutt’intorno alla statua, dei simboli di lotta collettiva vengono a sovrapporsi alle espressioni del lutto. È difficile da realizzare a causa della controrivoluzione intellettuale che è riuscita a separare la gioventù da tutta una tradizione di lotta sociale e di orizzonte politico. Tipica di tutti i movimenti di piazza è stata la difficoltà di identificarsi in quanto portatori di potenza di avvenire e di proporre delle soggettivazioni collettive, delle identità da lavorare e trasformare contro le identità imposte, come hanno potuto esserlo dei collettivi operai o dei collettivi di donne. Ciò è ancor più vero in Francia, a causa della cappa di piombo ideologica creata da questa controrivoluzione intellettuale. In Grecia esistono potenti movimenti autonomi, che hanno creato luoghi di vita, di sapere o di cura. In Spagna, intorno alla lotta contro gli sgomberi, si è formato un collettivo che oggi regge il municipio di Barcellona. Movimenti e forme di organizzazione di questa ampiezza non esistono in Francia e il movimento Nuit debout è orfano delle basi di lotta che hanno potuto essere mobilitate altrove.
D: Anche se resta la sensazione che, con Nuit debout, si verifica qualcosa che manifesta una potenza di invenzione che rinnova certi modi di pensare della sinistra radicale?
Rancière: Non si sa di preciso cosa passa per la testa delle persone che si incrociano a place de la République. Vi si riscontrano cose molto disparate. Ma è vero che vi si trova un’esigenza democratica opposta alle vecchie solfe sulla “democrazia formale” come semplice apparenza che copre il dominio economico borghese. L’esigenza di democrazia “reale e subito” ha il merito di rompere con una logica di denuncia, che pretende di essere radicale ma produce di fatto una sorta di quietismo in ultima analisi reazionario, del tipo: comunque il Capitale è la causa di tutto e tutti questi che si agitano in nome della democrazia non fanno che mascherare il suo dominio e rafforzare la sua ideologia. Ma evidentemente si perde il profitto, se si riduce la democrazia alla forma assembleare. La democrazia è faccenda di immaginazione.
D: Siete sensibile alla circolazione della parola, dello scritto, delle narrazioni nelle Nuits debout?
Rancière: Ci sono in effetti molte parole che circolano, anche se non sempre di una ricchezza indimenticabile. Alcuni vengono a recitare i loro poemi, ma raramente si tratta di una poesia che crea uno choc di novità. Allo stesso tempo, si vedono persone che non parlavano mai e che osano parlare in questo posto e dunque è significativo, anche se, per quanto se ne possa capire, questa circolazione della parola è meno ricca di quanto si era colto nel Maggio ’68. Per un verso, la forma assemblea permette a più persone di raccontare le loro storie. Per l’altro, si ha l’impressione di stare al di qua della fioritura di slogan e immagini multiple che, in molte manifestazioni recenti, aveva sostituito i grandi striscioni unitari di una volta. Per dirla meglio, il problema è che il desiderio di comunità egualitario non freni la potenza d’invenzione egualitaria.
D: Gli iniziatori della Nuit debout vogliono convergere con i sindacati nella prospettiva del Primo Maggio. Come valutate tale proposta?
Rancière: La “convergenza delle lotte” è un po’ la versione del grande sogno del Maggio ‘68, la saldatura fra studenti e operai. All’epoca ciò si era materializzato con il corteo studentesco in direzione di Billancourt. Oggi Billancourt è raso al suolo e la Sorbona è un posto dove si entra solo con una carta magnetica. La faccenda è stata dibattuta nel breve spazio intercorrente fra place de la République et la Bourse du travail [la sede sindacale a rue Château d’Eau – n.d.t.], in preparazione delle sfilate del Primo Maggio. In ogni caso, la questione della convergenza delle lotte dipende dalla questione della natura di queste lotte.
30 AVRIL 2016 | PAR JOSEPH CONFAVREUX, Mediapart
Auteur de La Mésentente, du Partage du sensible, de La Nuit des prolétaires, de La Haine de la démocratie ou encore de La Méthode de l’égalité, le philosophe Jacques Rancière analyse, pour Mediapart, ce que peut signifier le mouvement « Nuit Debout » dans le contexte politique et intellectuel présent, à la lumière de son travail sur l’histoire, la démocratie et l’égalité.
Quel regard portez-vous sur le moment/mouvement de la Nuit debout ?Disons d’abord que mon point de vue est strictement limité : il est celui d’un observateur extérieur qui réagit simplement à ce qu’évoquent pour lui les thèmes et les formes de ce mouvement. À première vue, on peut saisir dans ce mouvement une sorte de version française en miniature du « mouvement des places » qui a eu lieu à Madrid, New York, Athènes ou Istanbul. Il est toléré sur l’espace qu’il occupe, davantage qu’il ne l’envahit. Mais il partage, avec ces occupations, le souci de rendre à la politique son aspect de subversion matérielle effective d’un ordre donné des espaces et des temps. Cette pratique a eu du mal à venir en France où le tout de la « politique » est aujourd’hui ramené à la lutte des concurrents à la présidence de la République. La Nuit debout a du mal à croire en elle-même et ressemble parfois à une « demi-occupation ». Mais elle fait bien partie de ces mouvements qui ont opéré une conversion de la forme-manifestation à la forme-occupation. En l’occurrence, cela a voulu dire passer de la lutte contre certaines dispositions de la loi sur le travail à une opposition frontale à ce que certains appellent « l’ubérisation » du monde du travail, une résistance face à cette tendance qui voudrait supprimer tout contrôle collectif sur les formes de vie collective.Au-delà des mesures particulières de la loi El Khomry, c’est en effet cela qui est en jeu. Cette « loi Travail » est apparue comme l’aboutissement de tout un processus de privatisation de l’espace public, de la politique, de la vie… Le contrat de travail est-il quelque chose qui se négocie pour chaque individu, ce qui signifie revenir à la situation du XIXe siècle avant la naissance des formes modernes de lutte ouvrière, ou bien défend-on une société fondée sur le contrôle collectif et la discussion collective, de la vie comme du travail ?
La Nuit debout est apparue, dans ce contexte, comme une réduction à l’échelle française de quelque chose de singulier que l’on pourrait appeler un désir de communauté. Nous avons connu l’époque où l’on se trouvait dans des structures collectives puissantes au sein desquelles se menaient des batailles, que ce soit au sein de l’université ou de l’entreprise. La lutte alors opposait dans un même lieu deux manières de faire communauté. Mais nous sommes parvenus au terme d’une grande offensive, que certains appellent néolibérale, et que je nommerais plutôt l’offensive du capitalisme absolu, qui tend à la privatisation absolue de tous les rapports sociaux et à la destruction des espaces collectifs où deux mondes s’affrontaient.
Contre cette privatisation et cette individualisation, on a vu naître, et on l’a senti très fortement dans “Occupy Wall Street”, un désir un peu abstrait de communauté qui a trouvé, pour se matérialiser, le dernier lieu disponible, la rue. L’occupation, jadis, avait son lieu privilégié dans l’usine où la collectivité ouvrière affirmait son pouvoir sur le lieu et le processus au sein desquels elle subissait le pouvoir patronal et faisait ainsi de ce lieu privé un espace public. Elle se pratique maintenant dans les rues, sur les places, comme dans les derniers espaces publics où l’on peut être en commun ; discuter et agir en commun.
Dans la Nuit debout, la Révolution française, la Commune ou Mai-68 sont souvent convoqués. Que pensez-vous de cette mobilisation de l’histoire révolutionnaire, que certains jugent plus parodique que réelle ?
Les Amis de la Commune ont effectivement leur stand place de la République. Se situe-t-on, pour autant, dans la continuité d’une grande tradition historique ? Il faut bien voir que l’offensive du capitalisme absolutisé s’est doublée d’une intense contre-révolution intellectuelle, d’une offensive révisionniste par rapport à toutes les formes de la tradition de gauche, qu’elle soit révolutionnaire, communiste, anticolonialiste ou résistante. Cette contre-révolution intellectuelle s’est efforcée de réduire à rien, voire de criminaliser, tous les éléments de cette tradition. La révolution de 1917 a été réduite aux camps staliniens, la Révolution française à la Terreur, l’anticolonialisme à l’inutile « sanglot de l’homme blanc » et finalement la Résistance aux excès de l’épuration. Il y a donc eu une grande annulation de tout un passé, opérée par des gens qui par ailleurs ne cessent de gémir sur la « transmission » perdue.
Cette volonté de renouer avec le passé est donc importante, même si cela peut paraître formel et symbolique. Ces rappels à une histoire de luttes et de contradictions peuvent aussi jouer un rôle de contrepoids face au risque de dilution de la politique dans une sorte de fraternité new age, dans un mouvement comme Nuit debout qui ne se situe plus, comme celui de Mai-68, sur un fond assuré de croyance marxiste en la lutte des classes et les conflits ouvriers.
Quelle lecture faites-vous de l’exigence très horizontaliste, sans représentants ni leaders, portée par la Nuit debout ?
Il faut la situer dans un contexte qui est celui de l’horreur toujours grandissante que peut inspirer la politique officielle : pour le 15-M de Madrid, le grand mot d’ordre, adressé à ceux qui faisaient alors campagne, était : « Vous ne nous représentez pas. » Mais cela correspond aussi à un discrédit des avant-gardes politiques révolutionnaires qui étaient encore très puissantes en 1968. Les assemblées actuelles réagissent contre ces assemblées qu’on a connues, en Mai-68 et après, manipulées par des groupuscules. On est bien obligé de comprendre ce rappel de ce que peut signifier l’égalité, y compris sous ses formes les plus matérielles. Mais, au-delà de ça, ce qui pose question, c’est l’idéologie du consensus, avec l’idée que tout le monde doit être d’accord et une fétichisation de la forme assemblée, qui serait seulement le lieu où chacun devrait pouvoir parler.
C’est un souci qui est partagé d’ailleurs par beaucoup de gens impliqués dans le mouvement : une assemblée populaire ne doit pas être seulement une assemblée où chacun vient, à son tour, exprimer son problème ou sa révolte et plaider pour la cause militante qui lui est particulièrement chère. Nuit debout, comme toutes les occupations du même genre, rassemble d’une part des individus désireux de recréer du commun mais aussi cette multitude de militantismes partiels, spécialisés, qui se sont développés dans le même contexte de privatisation de la vie publique et de rejet des « avant-gardes ». C’est important que le droit de toute voix soit affirmé, mais une assemblée doit pouvoir décider de quelque chose et non simplement proclamer « on est tous égaux ».
Une assemblée doit donc se manifester par des décisions, des luttes et non simplement par une figuration formelle de l’égalité. Il est assurément important de la matérialiser spatialement. En 1848, il y avait eu une proposition d’assemblée dans laquelle les représentants seraient tous en dessous, avec, au-dessus d’eux, des milliers de gens du peuple pour les surveiller. L’aspect proprement matériel de la politique égalitaire est donc important. Mais l’agir de la liberté et de l’égalité ne peut pas prendre simplement la forme d’une assemblée où chacun aurait sa liberté de parole. L’égalité est un processus de vérification, un processus d’invention, ce n’est pas simplement une photographie de la communauté. Le problème demeure d’inventer des actions, des mots d’ordre, pour que l’égalité se mette en marche.
Une assemblée égalitaire n’est donc pas une assemblée consensuelle, même si la notion de consensus se situe au cœur de tous les mouvements qui occupent des places. Je me souviens du choc éprouvé une fois où j’avais été invité à parler dans une université occupée par les étudiants à Amsterdam devant la grande banderole qui proclamait : « Consensus. No leaders ». La lutte contre les hiérarchies est une chose, l’idéologie du consensus en est une autre. Contester les leaders et la hiérarchie, bien sûr, mais cela ne signifie pas que tout le monde soit d’accord et qu’on ne fasse quelque chose qu’à la condition que tout le monde soit d’accord.
Cela suppose-t-il de redéfinir ce qu’on entend par démocratie, alors qu’on a vu avec l’épisode Finkielkraut qu’il y avait division sur ce qu’on mettait dans ce terme : du consensus ou du conflit ?
L’épisode Finkielkraut n’a disqualifié la Nuit debout que dans les milieux où, de toute façon, elle était disqualifiée d’avance. Que se serait-il passé si Finkielkraut était reparti sans que personne ne fasse attention à lui ? Les Joffrin, Onfray et consorts, au lieu de crier au totalitarisme, auraient ricané : regardez ces terribles révolutionnaires ! Ils n’ont même pas osé interpeller Finkielkraut ! Tout ça n’est pas bien important. Le problème est ailleurs.
La démocratie, cela veut dire, au sein même du peuple démocratique, des positions qui entrent en conflit les unes avec les autres et pas simplement la succession au micro d’une personne qui vient parler du marxisme, d’une deuxième qui évoque les droits des animaux et d’une troisième qui rappelle la situation des migrants. Il faut plusieurs types d’assemblées : des assemblées où chacun puisse dire ce qu’il veut, parce qu’il peut aussi y surgir quelque chose que l’on n’attendait pas, mais surtout des assemblées où l’on se demande : « Qu’est-ce qu’on fait là et qu’est-ce qu’on veut ? » Le problème de la démocratie est d’arriver à constituer la volonté d’un peuple. Sur quels mots d’ordre décide-t-on qu’on va faire peuple, qu’on peut construire un collectif démocratique ?
Actuellement, on a le sentiment d’être dans une sorte d’espace de subjectivation, mais sans qu’une subjectivation collective ne s’instaure véritablement. Cela supposerait sans doute que des mouvements sociaux forts existent ailleurs et notamment que tous les jeunes qui vivent comme en marge de la communauté nationale constituent, eux aussi, des collectifs, pour dire ce qu’ils veulent. Dans les années 1980, il y avait eu cette marche pour l’égalité, à laquelle ont participé des jeunes issus de l’immigration, qui a ensuite été récupérée, manipulée, anéantie, comme toutes les énergies englouties par le mensonge « socialiste ». C’est très difficile aujourd’hui de remettre en marche l’égalité. Je n’ai pas plus d’imagination que personne, mais je pense que c’est là que le problème se pose. On garde encore souvent l’idée que, plus il y a d’oppression, plus il y a de résistance. Mais les formes d’oppression qui nous gouvernent créent non pas de la résistance, mais du découragement, un dégoût à l’égard de soi-même, le sentiment qu’on est incapables de faire quoi que ce soit. Alors on peut bien dire que la Nuit debout fonctionne en vase clos et se berce d’illusions, mais sortir du découragement demeure fondamental.
Que pensez-vous de cette thématique d’écrire une constitution et de préparer une assemblée constituante ?
Le désintérêt pour les formes de la vie publique institutionnelle au nom d’une prétendue radicalité révolutionnaire a assurément contribué à la démobilisation des énergies. Il est donc important de répéter à quel point l’état dans lequel nous nous trouvons est une conséquence de la désastreuse constitution de la Ve République et de l’anesthésie de toute vie politique et du pourrissement des esprits qu’elle a produite sur le long terme. Un mouvement anti-Ve République, anti-présidence est donc une nécessité. Et, de même, le rappel de certaines vérités provocantes sur la démocratie, comme le tirage au sort et ce qu’il implique : la déprofessionnalisation de la vie politique.
Mais, d’une part, l’appel à la Constituante est souvent accompagné d’idéologies « citoyennes » un peu plates et d’idéologies « républicaines » un peu raides. Mais surtout il ne faut pas imaginer qu’on va sortir de la pourriture oligarchique actuelle simplement en rédigeant une bonne constitution. Rédiger une constitution est important quand c’est fait par des gens à qui on ne le demande pas, qui n’ont pas « qualité » pour le faire. Mais c’est aussi important quand c’est pris dans un processus de lutte où les mots sont non pas des recettes pour un bonheur futur mais des armes dans le présent. Ce serait bien par exemple que ces constitutions « rédigées par les citoyens » s’inscrivent dans des processus de lutte effectifs contre l’ordre constitutionnel existant, qu’ils servent par exemple à mettre la pagaille dans les fameuses « grandes primaires démocratiques ». Les gens en place hurleraient au déni de démocratie, mais cela créerait une discussion sur le sens même du mot démocratie qui pourrait être utile.
Le fond du problème est qu’il faut imaginer des formes de vie politique qui, à la fois, soient entièrement hétérogènes par rapport à cette vie politique officielle entièrement confisquée par une classe de professionnels qui se reproduit indéfiniment – une situation qui a atteint en France un niveau sans égal dans l’Europe occidentale –, et pourtant capables de l’affronter selon leurs formes et leur agenda propres.
Que faire du reproche d’homogénéité sociologique adressé à la Nuit debout ?
Au départ, Mai-68 était un mouvement d’un petit groupe d’étudiants « petits-bourgeois ». Et il a entraîné la dynamique de la grève générale qui l’a transformé lui-même, avec la convergence sur la Sorbonne des multiples formes de lutte qui éclataient çà et là. Il faut se souvenir du rôle de modèle joué pour l’occupation même de la Sorbonne par la grève avec occupation et séquestration qui avait alors lieu depuis plusieurs semaines dans l’usine de Sud-Aviation à Nantes. La Nuit debout, elle, arrive après le jugement symbolique condamnant à des peines de prison ferme, pour les mêmes faits, des ouvriers de Goodyear. Elle arrive dans ce contexte de délocalisation des entreprises, de fermeture des usines, de défaites ouvrières et de pénalisation des formes de résistance. Elle ne peut bénéficier de la dynamique sociale qu’on a connue en Mai-68. Bien sûr qu’il faudrait des mouvements Nuit debout ou des mouvements d’un tout autre type partout, et notamment dans les quartiers qui se sont révoltés en 2005.
On peut toujours reprocher aux gens place de la République d’être des lycéens, des jeunes précaires ou des individus qui ne représentent qu’eux-mêmes. Mais c’est l’état général de ce qu’on appelle ici politique qu’il faut prendre en compte. Dans une France rendue amorphe par l’offensive dite néolibérale, la supercherie socialiste et une intense campagne intellectuelle contre toute la tradition sociale militante, on ne peut se contenter de renvoyer Nuit debout au fait que ce mouvement ne représente pas grand-chose sociologiquement.
Pour que ce mouvement aille plus loin, il faudrait qu’il puisse inventer des mots d’ordre qui le fassent exploser au-delà de lui-même. Il y a peut-être la possibilité de se saisir de la conjoncture pré-électorale pour créer non pas une « primaire de la vraie gauche », mais une mobilisation très forte contre le système présidentiel. On pourrait imaginer qu’un tel mouvement aboutisse non seulement à des déclarations sur le fait qu’on ne votera plus jamais socialiste, mais à quelque chose comme un mouvement pour la non-présidence, ou la suppression de la présidence de la République.
Les Nuits debout peuvent-elles permettre de sortir de la chape de plomb post-attentats, symbolisée par une place de la République réinvestie par la parole et la lutte alors qu’elle était devenue un mausolée ?
Il ne faut pas trop demander à ce mouvement. Mais il est vrai qu’un de ses éléments significatifs est la transformation d’une jeunesse en deuil en jeunesse en lutte, même si cette transformation n’est pas aisée. Quand on va sur la place de la République, on voit que c’est très lentement que, autour de la statue, des symboles de lutte collective viennent se superposer aux expressions du deuil. C’est difficile à mettre en place en raison de la contre-révolution intellectuelle qui a réussi à séparer la jeunesse de toute une tradition de lutte sociale et d’horizon politique. Le propre de tous les mouvements des places a été la difficulté à s’identifier en tant que porteur de puissance d’avenir, et à porter des subjectivations collectives, des identités à travailler et à transformer contre les identités imposées, comme ont pu l’être des collectifs ouvriers ou des collectifs de femmes.
Cela est encore plus vrai en France, en raison de la chape de plomb idéologique créée par cette contre-révolution intellectuelle. En Grèce, il existe des mouvements autonomes puissants, qui ont créé des lieux de vie, de savoir ou de soins. En Espagne, autour de la lutte contre les expulsions de logements, a convergé un collectif qui occupe aujourd’hui la mairie de Barcelone. Des mouvements et des formes d’organisation de cette ampleur n’existent pas en France, et le mouvement Nuit debout est orphelin des bases de luttes qui ont pu être mobilisées ailleurs.
Même si demeure le sentiment qu’avec la Nuit debout, il se passe quelque chose qui manifeste une puissance d’invention renouvelant certaines manières de penser de la gauche radicale ?
On ne sait pas exactement ce qu’il y a dans la tête des personnes qui se mêlent sur la place de la République. On y trouve énormément de choses disparates. Mais c’est vrai qu’on y trouve une exigence démocratique qui s’oppose à la vieille ritournelle sur la « démocratie formelle » comme simple apparence couvrant la domination économique bourgeoise. L’exigence de démocratie « réelle et maintenant » a le mérite de rompre avec cette logique de dénonciation qui prétend être radicale mais produit en fait une sorte de quiétisme, finalement réactionnaire du genre : de toute façon, c’est le Capital qui est la cause de tout, et ces gens qui s’agitent au nom de la démocratie ne font que masquer sa domination et renforcer son idéologie. Mais évidemment le profit est perdu si on ramène la démocratie à la forme de l’assemblée. La démocratie est affaire d’imagination.
Êtes-vous sensible à la circulation de la parole, de l’écrit, des récits dans les Nuits debout ?
Il y a effectivement beaucoup de paroles qui circulent, même si elles ne sont pas toujours d’une richesse inoubliable. Des gens viennent dire leurs poèmes, mais c’est rarement une poésie créant un choc de nouveauté. En même temps, on voit des gens qui ne parlaient jamais et qui osent parler à cet endroit et c’est donc significatif, même si, pour ce qu’on peut en saisir, cette circulation de la parole est moins riche que ce qu’on avait perçu en Mai-68. D’un côté, la forme assemblée permet à plus de gens de venir raconter leur histoire. De l’autre, on a l’impression d’être en deçà de la floraison de slogans et d’images multiples qui, dans beaucoup de manifestations récentes, avait remplacé les grandes banderoles unitaires d’antan. Plus profondément, la question est que le désir de communauté égale ne freine pas la puissance d’invention égalitaire.
Les initiateurs de la Nuit debout veulent converger avec les syndicats dans la perspective du 1er Mai. Comment regardez-vous cette proposition ?
La « convergence des luttes », c’est un peu la version du grand rêve de Mai-68, la jonction entre étudiants et ouvriers. À l’époque cela s’était matérialisé par le cortège étudiant en direction de Billancourt. Aujourd’hui Billancourt est rasé et la Sorbonne est un lieu où l’on ne pénètre qu’avec une carte. Aussi l’affaire s’est-elle débattue dans le court espace qui s’étend entre la place de la République et la Bourse du travail, autour de la préparation des défilés du 1er Mai. En tout état de cause, la question de la convergence des luttes est dépendante de la question de la nature de ces luttes.