di JUDITH REVEL.
Di Sottomissione, di Michel Houellebecq, si è ormai detto e scritto tutto. La Francia rimane quel paese strano in cui, in assenza di qualsiasi tipo di movimento o contestazione politica e sociale, la conflittualità (che pure esiste, senza mai riuscire a prendere forma) si cristallizza altrimenti ed altrove. Per esempio, dentro un testo letterario.
Sottomissione (in Italia uscito per Bompiani), così come dieci anni fa accadde a Le Benevole, di Jonathan Littell, ha letteralmente spaccato la Francia in due. I giornali si sono riempiti di recensioni, editoriali, fondi redazionali, interviste. Ognuno ha dichiarato agli altri da quale parte stava — con o contro Houellebecq. La trasformazione di eventi letterari in fatti sociali e politici è senz’altro vecchia tradizione francese: per secoli, si è chiamata querelle. Tuttavia, oggi, entrano in gioco almeno due fattori inediti.
Il primo riguarda l’apparente bonaccia politica che regna in Francia nonostante l’effetto devastante di una crisi ormai cronicizzata. In Italia, dove i movimenti sono stati sempre, con fortune alterne, lo sfondo sul quale si stagliava la politica, lo «spostamento» del conflitto sociale su un altro terreno
è avvenuto solo in parte. La cultura berlusconiana, con formidabile cinismo, ci ha provato, inventando la televisione come messa in scena spettacolarizzata del litigio — tra amanti o amici, candidati rivali, colleghi, parenti, vicini, e ovviamente politici. Falsi tribunali, agorà improvvisate, conflittualità parodiche, di grado zero, per esorcizzare quella vera, che in ogni momento avrebbe potuto tornare a occupare strade e piazze. In Francia, è stata invece la letteratura a costituirsi come campo dove scendere a sbandierare le proprie convinzioni contro quelle degli altri.
Lingua mediatica
Il secondo fattore è anch’esso molto francese. In Francia, lo spazio pubblico struttura da secoli l’idea stessa della politica — ma il perimetro del «pubblico» è esplicitamente in crisi. Cos’è oggi il pubblico? Cosa continua a farne parte? Cosa ne esce e cosa vi entra? Senz’altro, la religione ne sta uscendo: la laicità, originariamente definita come possibilità di convivenza di tutte le pratiche religiose e dell’ateismo, si sta riorganizzando attorno alla concezione di un pubblico a esclusione assoluta del religioso. Vi entra invece nuovamente, com’era già avvenuto in passato, la letteratura come res publica, contributo alla reinvenzione di una socialità in piena mutazione.
Questo, dunque, il contesto agitato nel quale, due mesi fa, è stato pubblicato Sottomissione.
Tre elementi hanno allora falsato la lettura del testo. Il primo è senz’altro l’onnipresenza di Houellebecq stesso – perché la strategia mediatica scelta da quasi vent’anni dagli editori dello scrittore gira sempre, comunque, più attorno al suo personaggio che al testo effettivamente pubblicato. Meglio: il testo viene venduto come l’emanazione di ciò che Houellebecq rappresenta in sé. Interviste centellinate, bozze del libro in uscita sapientemente diffuse a pochissimi, creazione di un’attesa nella quale si susseguono invece le apparizioni dello scrittore nei media – voce pastosa, dizione lenta eppure capace di accelerazioni improvvise, occhio torvo ma ironico: una sorta di figlio nascosto di Serge Gainsbourg (con un’evidente predilezione per le camicie di jeans largamente aperte sul petto scarno e i mozziconi di sigaretta) e di Céline (per il capello rado e spettinato, e quell’incredibile uso del francese, tra «parigot» e lingua classica, tra «parlata popolare», accento compreso, e grande tra- dizione del realismo letterario ottocentesco). Houellebecq, dunque, trasformato a sua volta in personaggio letterario attraverso la moltiplicazione delle dichiarazioni che alimentano la certezza dell’identità tra l’autore e le sue creature di carta; e perfino cinematografico — nell’agosto 2014 fu, come interprete di se stesso, al centro di un film tv abbastanza riuscito, L’enlèvement de Michel Houellebecq.
Nel caso di Sottomissione, si arriva a una raffinatezza estrema nella confusione. L’avvertimento che chiude il libro segnala per esempio che, a differenza del suo personaggio François, Michel Houellebecq non è mai stato universitario. Si induce quindi il lettore a dedurre che tutto il resto, invece, gli corrisponda in proprio: a parte l’università, François, il personaggio, è dunque Michel, l’autore. Non solo. Da sempre Houellebecq inserisce in permanenza nella propria vita ciò che potrebbe diventare più tardi materia a romanzo. Non che egli viva e poi, successivamente, narri quella vita, che la sua esistenza diventi fonte di scrittura, cosa tutto sommato piuttosto banale. No: la costruzione di sé come personaggio deve necessariamente anticipare e permettere la costruzione dei personaggi come altrettanti piccoli sé. Nel 2001, largamente a monte della polemica sull’Islam che è uno degli elementi-chiave di Sottomissione, Houellebecq dichiarava per esempio che «credere in un solo Dio è una stronzata, non trovo altre parole. E la religione più cretina, comunque, è l’Islam. Quando si legge il Corano, si rimane stecchiti… Stecchiti! La Bibbia, almeno, è bella, perché gli ebrei hanno un incredibile talento letterario […]. L’Islam è una religione pericolosa, fin dalla sua comparsa». Quattordici anni più tardi, François è diventato Michel: parla come lui, pensa come lui. Quindi: Michel, l’autore, è François, il suo personaggio.
C’è stata poi la tremenda coincidenza della data di pubblicazione del libro (di cui si parlava comunque da settimane) con la strage di “Charlie Hebdo”, il 7 gennaio scorso. Coincidenza trasformata seduta stante in un ulteriore elemento di marketing editoriale, con la decisione immediata, annunciata a suon di trombe mediatiche, di interrompere la promozione del libro e di mettere in salvo il suo autore in un posto protetto.
Un altro elemento, infine, è stato quello di leggere Sottomissione a partire da un unico (e sempre esclusivo) punto di vista, cioè ritagliando nel testo ciò che, più di ogni altro, doveva teoricamente spiegarne la sostanza. A seconda dei casi, l’odio per l’Islam, la terribile misoginia, l’ambiguità religiosa, la scrittura allo stesso tempo «piatta» e magnifica, il cinismo, la denuncia del liberalismo, il genio, la falsità, la condiscendenza, etc. Poche letture hanno individuato il testo per quello che è: un tessuto complesso, volontariamente costruito su linee divergenti, in cui il lettore viene letteralmente fatto rimbalzare, e sostenuto da una scrittura a sua volta doppia: incredibilmente classica (Houellebecq ha letto Flaubert e Maupassant, non a caso il suo personaggio è specialista di Huysmans) e, a tratti, violentemente volgare.
Il sesso per esistere
Proviamo invece a prendere le cose diversamente. In Sottomissione niente invoglia, niente possiede attrattività o suscita passione. Il lavoro di ricerca del protagonista (studioso di letteratura e universitario) nasce da un certo malinteso e si nutre della noia che egli riconosce provare alla lettura di Huysmans, al quale ha dedicato la sua carriera. L’amore potrebbe forse nascere dall’efficacia del sesso, ma a metà del libro François non riesce più a provare desiderio neanche quando le donne rispondono ai requisiti stabiliti da lui (giovanissime, in minigonna e pronte a farsi sodomizzare). Il cibo che François consuma viene ordinato da un servizio di catering. Il ritiro spirituale che egli tenta, sempre sul modello di Huysmans, per tornare a scrivere produce solo noia abissale e senso del vuoto. E la conversione finale all’Islam – diventato nel frattempo religione di Stato – viene legittimata dal bisogno del personaggio (ovviamente attribuito prima ai musulmani stessi) di poter giustificare la poligamia: giovanissime mogli adolescenti per il sesso, mogli quarantenni per fare da cuoche e tenere in ordine la casa.
Ora, al di là dei cliché che l’islamofobia primaria, la profonda misoginia e l’odio qualunquista di Houellebecq per l’università possono partorire, intrecciandone gli elementi (per esempio una rettrice universitaria lesbica butch, specialista di gender studies, ma che non disdegna giovani studiosi maschi rampanti per esprimere le sue fantasie di dominazione; oppure una giovanissima amante del protagonista, dal culo sempre aperto (sic), e che finirà per emigrare in Israele; oppure ancora delle «vergini in burqa» che assistono alle sue lezioni universitarie, e più tardi, un’adolescente con t-shirt «Hello Kitty» rosa e ombelico scoperto, in realtà moglie-bambina del neo-ministro musulmano all’insegnamento universitario, etc.), colpisce un universo nel quale l’unico piano di consistenza rimasto intatto sia la scrittura in quanto tale. Perché, bisogna dirlo, Sottomissione sfoggia una scrittura rara, senza nessun amore per artifici e fronzoli, ma di un’eleganza e un’efficacia sbalorditive. Forse sta in questo la sua particolarità: una grande scrittura costruita sul vuoto di tutto il resto – non un vuoto del mondo, come vorrebbe farci credere, ma un vuoto di idee, gioie, socialità, progetti, piaceri e rabbie, indignazioni e volontà, insomma di vita. Un vuoto che è quello di Houellebecq stesso, reso merce vivente e scrivente.
Un tessuto dell’inconsistenza
Allo scrittore rimane allora solo la possibilità di scrivere la sua inconsistenza attribuendola a ciò che lo circonda: il liberalismo (denunciato ma interiorizzato senza grandi stati d’animo), la religione (odiata ma ammirata, inseguita prima attraverso la conversione cattolica di Huysmans, poi attuata con la conversione cinica del protagonista all’Islam), le donne (mostruose o abbandoniche), il cinismo politico (legittimo se teso a salvarsi banalmente la pelle).
La letteratura è piena di piccoli Oblomov innamorati del proprio letto e di molti uomini senza qualità pronti a cavalcare il mondo come si presenta – ma Oblomov amava teneramente il suo divano pieno di cuscini e godeva allegramente della sua pigrizia, e Ulrich, proprio perché senza qualità, era aperto a tutte le sperimentazioni morali e intellettuali del suo tempo. Con Houellebecq irrompe sulla scena un altro personaggio: François, l’uomo senza passioni né gioie, doppio di carta di Houellebecq l’autore-merce.
Sapevamo che la storia fosse perfettamente in grado di partorire mostruosi fratellini di Lacombe Lucien, come nell’omonimo film di Louis Malle, offerti nella loro disperazione a quelli che promettono riscatto e vendetta per le umiliazioni subite. Non sapevamo invece – e forse Houellebecq ce lo insegna oggi – che la mercificazione del proprio desiderio di scrivere partorisce la letteratura del vuoto, e che lo stile, seppur formidabile, sempre più difficilmente copre la scomparsa di sé nella ragnatela del marketing letterario. Quella è la sottomissione vera, che le false evidenze del libro cercano invano di mascherare.
questa recensione è stata pubblicata sul manifesto il 18 marzo 2015