di GIROLAMO DE MICHELE.
Bad boys, bad boys, whatcha gonna do whatcha gonna do? (Bob Marley)
Partiamo dalla fine: un ministro1 che, dopo aver degradato uomini e donne del mondo della scuola come «precari di seconda fascia, area Cobas, e molti studenti. Mi hanno detto [sic!] legati ai collettivi universitari, ai centri sociali di Bologna», li etichetta come «squadristi» (qui; ma leggi l’intervista a una delle insegnanti contestatrici, qui). Fatto sta che senza quei docenti insubordinati, non ci sarebbe stato alcuno ad ascoltare un ministro appena saltato da un partito all’altro senza render conto ai propri elettori attraverso le dimissioni2 e un’inutile suppellettile che risponde al nome di Francesca Puglisi, porcellata in parlamento (attraverso la quota garantita del Porcellum, per l’appunto) senza passare dalle primarie – una che quando va bene tace, e che purtroppo per il proprio partito in genere apre bocca rubando il lavoro ai figuranti dello Zelig Circus3.
A fronte di una «minoranza aggressiva che strilla», una «maggioranza di docenti abulica» e affetta da diffusa inerzia: che, detto nel contesto in cui queste parole sono state pronunciate, suona come una chiamata alle armi, un’ennesima esortazione alla mobilitazione di quei docenti affetti da servitù volontaria (che, con buona pace di Frédéric Lordon, esiste) dei quali si chiede adesso il sostegno attivo. Lo dimostra l’episodio, in tutta franchezza penoso, del tweet col quale il sottosegretario Faraone pretendeva, durante la trasmissione di una puntata di “Presa Diretta”, che fossero intervistati i docenti in base al convincimento politico, quasi esistesse una quota-Renzi de iure.
Ma uno che ne parla bene di questa riforma sulla scuola lo avrete intervistato? @Presa_Diretta
— Davide Faraone (@davidefaraone) 8 Febbraio 2015
Resta che se Renzi, in puro stile Comunardo Niccolai, annuncia l’intenzione di scrivere agli insegnanti per spiegare loro la Buona Scuola, vuol dire che fino ad oggi che i suoi argomenti non hanno avuto presa sulla dura realtà dei fatti.
Ma facciamo qualche passo indietro: perché questo governo aveva scommesso sul consenso di massa che avrebbe sostenuto la Buona Scuola attraverso le consultazioni. Senonché, le consultazioni de visu, quelle in cui ci si guarda in faccia, si sono risolte in una farsa, con audizioni in tempi contingentati (10 minuti a testa quando è andata bene, spesso meno); la consultazione via web è stata un flop – fra 65.000 e 130.000 risposte ai questionari (comprese quelle negative)4, a fronte di una potenziale platea di circa 800.000 insegnanti, 2.600.000 studenti di secondo grado e 16.000.000 di genitori; per arrivare ai Collegi Docenti, nessuno dei quali ha votato una mozione a favore della “Buona Scuola” (neanche quello della first lady, l’Istituto Balducci di Pontassieve).
Le consultazioni sono state un’azione di marketing per vendere un prodotto su cui i consultati potevano esprimere pareri solo su aspetti marginali – sull’arredamento e la tinteggiatura delle pareti, non certo sulla struttura dell’edificio: però, vuoi mettere la novità della scuola del tablet?
Il marketing necessita di slogan. E dunque, accanto alla democrazia in atto, ecco Renzi sbandierare alcune parole d’ordine: una riforma dopo vent’anni di inerzia, la stabilizzazione dei precari, per la prima volta niente tagli, il Piano Scuole Sicure e i 5 mld € per l’edilizia.
Senonché:
1. i precari da stabilizzare sono passati dai 148.000 promessi (quando c’era la consultazione on line da promuovere) ai 100.000 attuali. E non si tratta di concessione, ma di una toppa davanti alla sentenza della Corte Europea che impone l’assunzione dei precari con almeno 3 anni di anzianità, e che quell’assunzione hanno diritto di reclamarla con un ricorso al TAR.
2. i mancati tagli e i nuovi investimenti sono finanziati con nuovi tagli: oltre al miliardo previsto per le assunzioni dei precari ricavato da tagli per 1.26 mld € in altri settori dell’istruzione, nascosti fra le pieghe della Legge di Stabilità ci sono:
– il Fondo dell’autonomia tagliato di 90 mln € nel triennio 2015-2017;
– il Fondo di Funzionamento delle Istituzioni Scolastiche tagliato del 25%;
– 8 mln € tagliati in tre anni cancellando 90 coordinatori provinciali dei progetti sportivi;
– 118 mln € in tre anni tagliati cancellando circa 2000 fra tecnici e personale ATA;
– 240 mln € risparmiati sugli esoneri per i vicepresidi;
– 95 mln € risparmiati in tre anni eliminando i distacchi dei docenti presso gli uffici scolastici regionali e provinciali;
– il blocco dei contratti, e conseguente blocco dei salari, fermi al 2006, dei lavoratori della scuola protratto per tutto il 2015: la cifra sottratta ai lavoratori della scuola in questi anni equivale a quella stanziata per l’edilizia scolastica (così, non essendo tale cifra tarata sulle necessità reali, si capisce come è stata calcolata).
3. C’è voluto l’ennesimo crollo dell’ennesimo soffitto su studenti e insegnanti per costringere il sottosegretario Faraone a riconoscere, il 14 aprile scorso (qui), che i 3.9 mld per la sicurezza5 «sono, sì, una boccata di ossigeno, ma non sono sufficienti», ne servirebbero almeno 12 – NB: a “Porta a Porta” Renzi aveva detto che «ci vogliono 3 miliardi per mettere a posto tutto» (qui, al minuto 1:18:50).
Per non parlare (infatti non se ne parla) della drammatica carenza di personale A.T.A., anch’esso oggetto di tagli ai tempi di Gelmini, e per il quale non è prevista alcuna nuova assunzione. Dice: ma si parlava di sicurezza, non di bidelli. Infatti: con una media di bidelli di circa 2 per plesso scolastico, quale sorveglianza è assicurata nel caso di ingresso nella scuola di uno psicolabile, o peggio?
Ma soprattutto: i vent’anni di inerzia non sono mai esistiti, giacché prima con Moratti Brichetto Arnaboldi, e poi con Gelmini (nel mezzo, il celestinoquinto Fioroni, ignaro fra gli ignavi), sono stati riformati tutti gli ordini di scuola. E su queste controriforme e ordinamenti la Buona Scuola non incide in alcun modo: tutto quello che Renzi promette, accadrà (se poi accadrà) all’interno dei margini fissati da Moratti Brichetto Arnaboldi e Gelmini. E, come vedremo, anche da Brunetta.
Entriamoci dentro, in questa Buona Scuola (senza dimenticare il caschetto, visto il flop del Piano Scuole Sicure)6.
La porta d’accesso, come indica un bravo studioso di cose scolastiche, è il metodo: che è anche il merito. Il presidente del Consiglio «ha deciso con cinismo e spregiudicatezza di scaricare le responsabilità sul Parlamento, al quale è stato rivolto un vero e proprio ricatto: se non sarà in grado di approvare il disegno di legge in tempi brevissimi si assumerà la responsabilità di compromettere l’assunzione di centomila precari e di impedire che, finalmente, la scuola “cambi verso”, e a quel punto il governo sarà costretto – suo malgrado, naturalmente – a sostituirsi a un organo inaffidabile e inadempiente adottando un decreto legge»7.
Lo strumento del decreto legge, peraltro, è di fatto sostituito da quello della legge delega, che riguarda un novero enorme di materie (copincollo dal capo VII art. 21 del ddl, così Giannini e Puglisi capiscono che l’ho letto):
a) riordino delle disposizioni normative in materia di sistema nazionale di istruzione e formazione.
b) rafforzamento dell’autonomia scolastica e dell’ampliamento delle competenze gestionali, organizzative ed amministrative delle istituzioni scolastiche.
c) riordino, adeguamento e semplificazione del sistema per il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento nella scuola secondaria per l’accesso alla professione di docente, in modo da renderlo funzionale alla valorizzazione del ruolo sociale del docente, nonché delle modalità di assunzione a tempo indeterminato del personale docente ed educativo per renderlo omogeneo alle modalità di accesso al pubblico impiego.
d) riordino delle modalità di assunzione e formazione del dirigente scolastico nonché del sistema di valutazione dello stesso conseguentemente al rafforzamento delle proprie funzioni.
e) adeguamento, semplificazione e riordino del diritto all’istruzione e alla formazione degli alunni e degli studenti con disabilità e bisogni educativi speciali (BES).
f) adeguamento, semplificazione e riordino della governance della scuola e degli organi collegiali.
g) revisione dei percorsi dell’istruzione professionale, nel rispetto dell’articolo 117 della Costituzione, nonché ai fini del raccordo con i percorsi dell’istruzione e formazione professionale.
h) semplificazione del sistema formativo degli istituti tecnici superiori.
i) istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita fino ai sei anni, costituito dai servizi educativi per l’infanzia e dalle scuole dell’infanzia statali, al fine di garantire a tutti i bambini e le bambine pari opportunità di educazione, istruzione, cura, relazione e gioco, superando disuguaglianze e barriere territoriali, economiche, etniche e culturali, nonché al fine di garantire la conciliazione tra tempi di vita, di cura e di lavoro dei genitori, la promozione della qualità dell’offerta educativa e della continuità tra i vari servizi educativi e scolastici e la partecipazione delle famiglie.
l) rendere effettivo il diritto allo studio su tutto il territorio nazionale nel rispetto delle competenze delle regioni in materia.
m) adeguamento, semplificazione e riordino della normativa concernente gli ausili digitali per la didattica e i relativi ambienti.
n) revisione, riordino e adeguamento della normativa in materia di istituzioni e iniziative scolastiche italiane all’estero.
o) adeguamento della normativa in materia di valutazione e certificazione delle competenze degli studenti, nonché degli esami di Stato anche in raccordo con la normativa vigente in materia di certificazione delle competenze.
Tradotto in due parole: su tutti questi argomenti – didattica, diritto allo studio, disabilità, assunzione e valutazione del personale, valutazione degli apprendimenti, governance della scuola – il ddl non contiene alcunché, se non l’enunciazione della scatola vuota nella quale, una volta ottenuta la delega, il governo sarà autorizzato a mettere qualsivoglia contenuto senza alcun passaggio o controllo da parte del Parlamento (e del Presidente della Repubblica, che immagino ci sia ancora – il Presidente, voglio dire).
Dice Renzi: «la scuola è delle famiglie, non dei sindacati». Come se la scuola fosse di qualcuno, e non di tutti; come se fosse un oggetto di cui si può sancire possesso, e conseguente alienazione (infatti…); come se anche gli insegnanti, essendo padri (tipo me, per esempio) e madri, non fossero, oltre che insegnanti, famiglia (e non famigli, o famuli); come se questa solfa della famiglia non fosse una bischerata da ciellini. Ma al netto delle bischerate: dov’è scritto, all’interno di questa lista di “faremo, faremo, faremo” senza alcun contenuto specifico, che questa riforma difende gli interessi delle famiglie?
Quanto alle riserve di ordine costituzionale sull’uso della legge delega, lascio volentieri, in nota, la parola a Boarelli8, e non perché i suoi argomenti siano di poco rilievo – anzi: ma ve ne sono di ancor maggiore gravità.
Dentro questa lunga teoria di scatole vuote c’è tutto ciò che attiene alla didattica e al suo esercizio. Vale a dire che in questo ddl non si parla di scuola, non si parla di didattica, non si parla di istruzione: non se ne parla perché queste cose verranno scritte dopo. Non si parla neanche delle tanto sbandierate meritocrazia, perché anche su questo si delibererà dopo.
E allora, di cosa stiamo parlando?
Di tre cose: di decostituzionalizzazione, di autoritarismo, e di valutazione.
A. La valutazione: in assenza di contenuti (chi, come cosa, su quali criteri, in quali sedi, con quali conseguenze si valuterà?), diventa un valore in sé. Parafrasando il vecchio Kerouac: l’importante è valutare, non importa come. È la scuola dei “devoti della misurazione”, il cui centro non è la “testa ben fatta”, ma l’esistenza di test che premiano «una forma peculiare di intelligenza analitica, apprezzato dai gestori e dalle imprese del settore finanziario che non vogliono che dipendenti pongano domande scomode o verifichino le strutture e gli assiomi esistenti: vogliono che essi servano il sistema. Questi test creano uomini e donne che sanno leggere e far di conto quanto basta per occupare posti di lavoro relativi a funzioni e servizi elementari. I test esaltano quelli che hanno i mezzi finanziari per prepararsi ad essi, premiano quelli che rispettano le regole, memorizzano le formule e mostrano deferenza all’autorità. I ribelli, gli artisti, i pensatori indipendenti, gli eccentrici e gli iconoclasti – quelli che pensano con la propria testa – sono estirpati» (Chris Hedges, qui)9.
Il dogma dei devoti della misurazione consiste nel negare l’esistenza di processi storici e sociali, o di soggetti collettivi e classi sociali, e considerare al loro posto solo entità atomiche quali gli individui, in quanto portatori di bisogni, di idee, di malattie, di conoscenze: la ratio dell’homo œconomicus, che è alla base di tutti i processi della valutazione. E su queste entità atomiche si costruiscono programmi di ingegneria sociale sotto l’egida di parole d’ordine quali efficienza, meritocrazia, problem solving, all’ombra delle quali ogni manifestazione soggettiva del valore come valore d’uso – che cosa so, cosa sono in grado di fare, quali forme di relazione posso instaurare con quel che so? – è mistificata nella forma oggettiva del valore economico, cioè di scambio – quanto vale sul mercato questa conoscenza?
Ma è bene ricordare che i processi interni alla scuola accadono anche in quella società con la quale, piaccia o non piaccia, la scuola è in rapporto osmotico. È il modo in cui il potere si esprime nella società globale, sottraendo spazi di vita e di libertà.
B. L’autoritarismo: ovvero, l’onnipotenza tirannica del dirigente scolastico. «Autonomia non significa autogestione», ha chiosato Renzi: dando ad intendere che l’alternativa al dirigente-tiranno sia l’autogestione (il che è retoricamente efficace, ma logicamente scorretto e moralmente disonesto), o forse che fino a oggi nella scuola ci sarebbe stata una sorta di autogestione. Ora, premesso che il dirigente eletto dai docenti è una cosa che esiste non nella Cuba di Fidel o nel Venezuela di Chavez, ma in Germania – ad oggi il dirigente scolastico, che è nominato dall’apparato aministrativo (un po’ come il prefetto è nominato dal ministro degli interni):
nomina, senza consultare i docenti il vicepreside, i collaboratori e lo staff (cioè l’intero governo della struttura); presiede il Collegio Docenti ed è membro del Consiglio d’Istituto, con amplissimi poteri de facto di indirizzarli e condizionarli; è responsabile dell’assegnazione delle cattedre e della distribuzione dell’orario, con la possibilità di attuare un mobbing di fatto nei confronti dei docenti “indocili” – fra i quali le RSU, cioè l’unico organo di controllo effettivo del proprio potere. È, insomma un Leviatano in sedicesimo rispetto ai propri sottoposti grazie alla riforma dei dirigenti pubblici10, che ne ha rafforzato i poteri in un quadro di privatizzazione della dirigenza pubblica attraverso atti datoriali-gestionali nell’esercizio della capacità del datore di lavoro privato: il dirigente-manager che amministra la scuola come fosse un’azienda ortofrutticola, e attua un vero e proprio pactum subjectionis fra sé e gli altri lavoratori della scuola, cui fa da pendant l’annunciato annichilimento degli organi collegiali, che vorrebbe sancire la fine di ogni residuo di collegialità e di discussione pubblica. Ancora la legge-Brunetta ha privato il lavoratore subordinato di alcuni gradi inteermedi di ricorso avverso alle decisioni del dirigente, contro il quale di fatto può ricorrere solo avventurandosi per via giudiziaria (con tutto quello che ciò comporta, anche in termini economici). Il tutto, con un salario che è due-tre volte quello di un insegnante.
Queste “competenze” (comprese quelle economiche) sono ancor di più “qualificate e potenziate in relazione al ruolo centrale che [il dirigente] assume nella gestione della scuola” (art. 7 ddl), senza che l’aumento del potere – con la conseguente diminuzione dei diritti dei lavoratori – sia controbilanciata: lo squilibrio del balance fra diritti e doveri (che sarebbe anche scritto nella Costituzione, ma tant’è…) è il segno distintivo dell’autoritarismo. Basti pensare al potere di assumere i docenti, avendo al tempo stesso quello di licenziarli (o di non rinnovarne, dopo tre anni, l’incarico): il che equivale a introdurre il contratto a tutele crescenti (o meglio: eventuali) nel pubblico impiego11; al potere di selezionare i docenti-collaboratori, attuando uno scatto di carriera de facto; alla determinazione dei docenti meritevoli di incentivo economico in base a criteri stabiliti dal dirigente stesso.
Dice Giannini perché così Renzi le ha raccontato (mentre Puglisi annuisce): «Un preside12 che sbaglia perderà l’indennità e poi il ruolo, la valutazione li riguarda da vicino». Peccato che questo testo di legge non dica affatto ciò: sulla base dei criteri di «riordino delle modalità di assunzione e formazione [assunzione e formazione: NON “dispensa dal servizio” o “restituzione al ruolo di provenienza”, come invece per gli insegnanti all’art. 9)] dei dirigenti scolastici […] la dirigenza scolastica è valutata sulla base dei criteri e delle modalità di scelta dei docenti che lo stesso dirigente scolastico ha adottato [si, state leggendo bene: il grassetto è mio], nonché sulla base dei miglioramenti conseguiti dalla scuola con riferimento in particolare alle azioni poste in essere per il contrasto alla dispersione scolastica e alla valutazione degli apprendimenti» (art. 21 d).
Ciò che si disegna è un meccanismo perverso nel quale fra i servi mal pagati si incentiva una gara al tempo stesso orizzontale a porre laccio e inciampo al collega vicino, e verticale nel dimostrarsi servente e servile in massimo grado: nella quale la libertà d’insegnamento viene svenduta per una differenza salariale che farebbe schifo allo stesso Iscariota.
C. La decostituzionalizzazione: quattro anni or sono scrivevo (qui)13 che «La scuola non è immune (e perché mai dovrebbe esserlo?) da quel processo di decostituzionalizzazione che si riassume in alcuni tratti che valgono per il tutto come per le parti, sul globale come sul locale: “una tendenza alla progressiva sovrapposizione tra regole e tecniche di matrice americana e diritto globale”; un “lavoro di decostruzione e di ricostruzione dei sistemi giuridici particolari [che] procede attraverso networks organizzativi orizzontali indipendenti dall’autorizzazione o dalla delega sovrana; risponde in tempi brevissimi a interessi business driven; “spacchetta” lo Stato e ne utilizza i poteri domestici di normazione e di sanzione in termini di implementazione dei principi del rule of law“; infine, il moltiplicarsi di “prassi di gestione extragiuridica e extraistituzionale dei problemi” anche attraverso “agenzie non delegate che alimentano flussi multilaterali di governance e che contrastano vigorosamente con l’unità sistematica dell’ordinamento”. Come nei diversi segmenti interni all’orizzonte globale, anche nel piccolo orticello dell’istruzione (intesa tanto come trasmissione che come produzione) la vita viene catturata all’interno di dispositivi o apparati: quegli apparati di cattura di cui hanno dato una pionieristica descrizione Deleuze e Guattari in Mille Plateaux. Le successive ricerche di Michel Foucault in direzione di una descrizione critica della società del controllo, hanno fornito importanti strumenti di approfondimento e di eversione rispetto alle dinamiche di questi apparati».
Vale a dire, che su un piano generale dello studio dei dispositivi di potere si tratta non di chiedersi, con malcelato stupore (come capita ad alcuni pensatori contemporanei) come mai lo Stato sia sopravvissuto al sorgere degli apparati di disciplinamento e controllo, come mai non si sia sciolto (per la gioia di qualche liberale “tutto chiacchiere & David Friedman”) nella governance, ma di afferrare la profondità delle trasformazioni generate dalla governamentalizzazione dello Stato, dal suo essere attraversato da processi di disciplinamento e soggettivazione. Al limite, se il nome “Stato” sia ancora adeguato a denotare un’istituzione che privatizza e decostituzionalizza il lavoro, rinunciando a qualsivoglia mascheramento della propria reale subalternità al capitale (finanziario); che trasforma il momento elettorale in una mera conta delle mani privando il (fu) cittadino di ogni reale potere di scelta dei propri rappresentanti; che appiattisce sull’esecutivo il potere legislativo; che trasforma il diritto all’istruzione (costituzionalmente garantito) in una sorta di tessera a punti valida per l’acquisizione di (pseudo)-tecniche di problem solving, rimuovendo ogni riferimento alla dimensione critica della presa di coscienza dei problemi14: in definitiva, un’istituzione che dismette il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini (art. 3 c. 2 Cost.), e per la quale il nome “Stato” ha al più un valore connotativo o performativo di tipo retorico.
Torniamo al punto di partenza, cioè alla fine. Se Giannini, che ha evidenti problemi col senso delle parole, non ne trova altre attingendo alla propria scienza – «Insegno linguistica da tempo e non trovo altro termine» –, se non “squadristi”, “minoranza aggressiva”, “maggioranza abulica e inerte”, vuol forse dire che non ha le competenze e le conoscenze adatte a ricoprire l’incarico accademico, e meglio farebbe a cambiare mestiere. Come sempre, si tratta per un verso di riconnettere le parole alle cose, e per altro di recuperare – attraverso le opportune prassi, se necessario, perché no?, “aggressive” – il senso perduto di parole come “lotta”, “sciopero”, “resistenza”, “dignità”, “democrazia”. Ma anche – esistono, tocca nominarli – “nemico”, “servo” e “crumiro”15: parole disgustose all’udito e alla lingua, perché disgustosi alla vista e all’olfatto sono gli oggetti che esse designano, e che non valgono forse il valore di uno sputo.
D’altronde, maggio è mese di raffreddori primaverili e di fastidiosi catarri, dei quali è buona norma igienica liberarsi.
Ministro, non ministra: al neutro, genere che si addice alle funzioni, giacché di null’altro che d’una ossequiosa funzionaria si parla. ↩
Un istituto noto persino ai papi, grazie al quale ci si può permettere una buona birra. ↩
Ad esempio quando appoggiò la legge 953 Aprea-Ghizzoni, salvo fare marcia indietro; quando si schierò a favore del finanziamento alle private nel referendum di Bologna, salvo perderlo; quando ha irriso al numero dei partecipanti al referendum bolognese, salvo ignorare che erano molto di più di quelli che hanno partecipato alle primarie del suo partito; o quando ha degradato la proposta di Legge d’Iniziativa Popolare a «un vecchio testo di legge che fu consegnato nelle mani dell’allora presidente della Camera Fausto Bertinotti», salvo ignorare che a sostenere la LIP c’è un numero di sostenitori forse superiore a quello dei favorevoli nella consultazione on line de La Buona Scuola (vedi nota 4): insomma, l’incarnazione del concetto plautino di persona – O quanta species, cerebrum non habet. ↩
In realtà il numero dei partecipanti al questionario è tutt’altro che certo: la sera dell’11 novembre, a tre giorni dalla fine della consultazione, Renzi dichiara a “Porta a Porta” che i partecipanti sono 65.000 (qui, dal minuto 1:41:50); il 15 novembre a consultazione chiusa il numero, secondo il ministro Boschi, è cresciuto a 100.000 (un record paragonabile solo alla volta che Nikka Costa scalò la hit parade nella settimana di Ferragosto, con i negozi di dischi chiusi); un mese dopo, il ministero ne dichiara 130.000 (qui, slide 11 e 12), salvo confondere volentieri questo numero con quello dei partecipanti in generale (207.000), aggiungendo anche quelli che non hanno partecipato al questionario. In questa grandine di numeri che si moltiplicano come i pani e i pesci a Betsàida, ne manca uno: non potendo essere tutti favorevoli, quanti sono i contrari? ↩
Puglisi il 10 febbraio ne aveva dichiarati 5, di miliardi – ma tant’è, Puglisi è Puglisi, come Sanremo è Sanremo. ↩
Sarò cinico: ma ho portato in sicurezza una classe durante un terremoto attraverso una scala di sicurezza esterna con l’accesso ingombro, e ho mantenuto calma sufficiente per non ottemperare all’invito a tornare in classe e riprendere le lezioni; e tutto questo con uno stipendio inferiore a quello delle sempre lodate forze dell’ordine “che rischiano la vita ogni giorno”: posso permettermelo, il sarcasmo – mica chiedo il diritto di tortura e pestaggio. ↩
Mauro Boarelli, La cattiva scuola, qui. Dello stesso in precedenza La “buona scuola” e i cattivi maestri, qui. ↩
«Sullo strumento della delega, la Costituzione è molto chiara: “L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principî e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti” (art. 76). In questo caso, non solo l’oggetto non è delimitato (è la scuola, tutta intera, ad esserne investita), ma neanche i “principî e criteri direttivi” sono specificati. Il lungo elenco che dovrebbe definirli con precisione è in realtà una pura e semplice articolazione (e quindi una ulteriore espansione) delle materie delegate. La combinazione tra un disegno di legge sotto ricatto governativo e una delega in bianco senza confini mostra ancora una volta il lucido disegno di trasferire il potere legislativo al Governo. Stavolta questo esercizio di stravolgimento dell’ordinamento istituzionale raggiunge un’intensità e un’estensione smisurate su uno dei terreni più delicati per la formazione civile e la coesione sociale: la scuola pubblica». ↩
In realtà stiamo adottando, in nome del frame del “non possiamo essere gli unici in Europa” la mela bacata che altri paesi cominciano a rifiutare, e che nondimeno ci viene offerta. Fare una torta di mele per riciclare le mele che stanno andando a male può essere indice di parsimonia: offrirla agli ospiti è senz’altro segno di scarso rispetto ed evidente maleducazione. ↩
Decreto Brunetta 150/2009, in attuazione della legge delega 15/2009, e successiva circolare 88/2010. ↩
«Ad esempio: che atteggiamento avrà un dirigente di fronte a un docente critico nei confronti dei test Invalsi, dal momento che quello stesso dirigente è chiamato in modo sempre più stringente a rendere conto al Ministero dei risultati della sua scuola sulla base di quei test e del sistema di valutazione predisposto dallo stesso istituto? Non sarà spinto a reclutare il maggior numero possibile di insegnanti che quel sistema condividono o accettano passivamente? Non sarà preferibile per lui avere al suo fianco docenti che collaborino perché la valutazione dell’istituto e i risultati dei test degli studenti siano positivi, docenti che per raggiungere questi obiettivi siano disponibili anche a orientare la loro didattica verso l’addestramento ai test? È un esempio tra i tanti possibili, ma va diritto al cuore del problema: il nuovo sistema di reclutamento mette in pericolo la libertà di insegnamento», Boarelli, La cattiva scuola. ↩
Leggi: dirigente. Giannini insegna linguistica e dirige l’istruzione, ma non sa che i presidi non esistono più da 17 anni. ↩
Applicando al contesto scolastico quanto Sandro Chignola aveva esposto in un seminario, qui. Ho poi ripreso questi temi qui. ↩
Per capirci: problem solving è la capacità di costruire una diga o una galleria, capacità critica il capire cosa esse diga o galleria comportano in termini di equilibrio ecologico, ecosistemi sociali e via dicendo – tipo, la differenza fra il costruirle o meno sul Vajont o in Val di Susa. ↩
Post scriptum: A proposito dei quali, ad articolo già pubblicato, apprendo che 4 dirigenti scolastici «lanciano il movimento #iononsciopero». Ci sono arrivati solo ora, a leggere che l’art. 7 del ddl recita: «Al fine di riconoscere e valorizzare le specificità che caratterizzano i compiti ed il profilo professionale dei dirigenti, a decorrere dall’anno scolastico 2015/2016, il Fondo unico nazionale per la retribuzione della posizione, fissa e variabile, e della retribuzione di risultato dei dirigenti scolastici, è incrementato di un importo pari a euro 12 milioni per l’anno 2015 e a euro 35 milioni annui a decorrere dall’anno 2016» – ma alla fine l’hanno scoperto. ↩