di GIROLAMO DE MICHELE.
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In una nota, Adorno commentava la tragica vicenda di Rolan Pelzer, un suo allievo suicidatosi che aveva lasciato la salma alla sezione di anatomia per non far pesare sulla famiglia in povertà i costi del funerale; il cadavere sfracellato era però stato rifiutato perché non era possibile sezionarlo. Mentre ciò accadeva, un’assemblea studentesca discuteva la quota di rappresentanti negli organi accademici. Questa istantanea che fissa l’incapacità di riconoscere l’orrore e di cessare, al suo cospetto, la conta dei pidocchi da parte di sedicenti rivoluzionari può essere presa ad emblema dello stato di cose che ha messo in moto l’Operazione Mediterranea: la consapevolezza che non era possibile rimanere inerti o indifferenti.
Ci sono momenti nei quali il freddo ragionamento deve cedere il passo all’indignazione; momenti che segnalano l’emergere di un di più etico che sopravanza le determinazioni sociali ed economicistiche, e fa emergere «quel tessuto di norme ed obblighi, di valori e di affetti, che definisce ciò che si può tollerare e ciò che intollerabile, ciò che si può fare e ciò che non si può fare» (Amendola su Fassin, qui): un’economia morale della rivolta, che scompagina la cosiddetta ragione umanitaria, ridefinendola come resistenza a partire dal sentimento dell’intollerabile. Quel di più etico rinvia alla stessa sostanza dell’umanità degli esseri come un’eccedenza, nello stesso modo in cui il comune eccede i beni comuni; è la lingua italiana stessa a dircelo, nell’acuta distinzione tracciata dal Tommaseo fra umanità e genere umano: «il secondo dice l’insieme degli uomini considerati come razza comune; umanità è la persona formata dal genere umano; la vita di lui nello spazio e nel tempo. Il genere umano può scemare più o meno; l’umanità è indivisibile e immortale». Nel salvataggio degli esseri umani sulla frontiera mediterranea – Saving Humans – si esprime un valore simbolico che valorizza il mero fatto materiale del soccorso. Umanità, così intesa, dice l’essenza stessa dell’essere umano: quell’essere generico che è in potenza di essere, che ha la potenza di creare e trasformare il mondo. Una potenza sempre passibile di sfruttamento, di assoggettamento; ma anche, sempre in grado di determinare processi di soggettivazione, di riappropriazione della potenza espropriata. Nel suo trovarsi nella zona comune fra la vita e la morte – non nuda vita, ma concreta presenza in un luogo e un tempo –, nel quale il massimo dell’impotenza (la vicinanza con la morte) si coniuga al massimo della potenza (un’intera vita contenuta nel suo diritto al futuro) il migrante dice qualcosa di essenziale sull’umano e sulla sua potenza. Il femminismo ha saputo insegnarci che l’essere umano non viene dal nulla, come sosteneva un cattivo esistenzialismo, ma dal concreto corpo della madre: il migrante a rischio della vita ricorda alle anime belle compassionevoli e a quelle che distolgono lo sguardo con benaltrismi consolatori, l’orrore di un presente da distruggere.
Ma non solo: perché considerare il Mediterraneo una frontiera, uno spazio dove le coste si fronteggiano, popolato e attraversato al suo interno – come sempre è stato –, significa negarne la ridefinizione di confine (e di fortezza per gli Stati che vi si affacciano). Dunque, resistere e rovesciare la moltiplicazione dei confini, delle gerarchie, delle segmentazioni, in una battuta il confinamento del comune (Mezzadra-Neilson) per riportare le lotte di confine dai margini al centro delle nostre vite politiche.
Infine, c’è qualcosa di simbolico nella stessa data di partenza della Mare Jonio nel giorno di san Francesco: la figura del povero che evoca il predicatore che «per denunciare la povertà della moltitudine, ne adottò la condizione comune e vi scoprì la potenza ontologica di una nuova società» (Negri-Hardt). Il povero è determinato dalle restrizioni delle pratiche in cui si danno desideri, voleri, aspirazioni: patisce la limitazione della capacità di avere aspirazioni (Appaduraj), ma al tempo stesso è orientato dalla propria condizione verso la resistenza e la protesta. La pretesa di un aumento della propria capacità di avere aspirazioni comporta l’analoga pretesa non di essere tollerato in cambio dell’integrazione, ma di un riconoscimento come alterità: non più migrante, ma straniero residente che nel suo rapporto non identitario con la terra dischiude, nell’assunzione dell’estraneità, un coabitare» che allude a «un modo altro di essere al mondo e a un altro ordine mondiale» (Di Cesare).
questo testo è stato pubblicato sul manifesto del 12 ottobre 2013