Di MARCO BASCETTA

C’è uno schema ossessivamente sbandierato dalla Lega e da Fratelli d’Italia, da cui Berlusconi prende le distanze, ma che il nuovo governo e le forze che lo sostengono, sia pure con toni e intenti opposti, intimamente condividono. Si tratta della contrapposizione tra le regole e i dispositivi della democrazia parlamentare (con i suoi fondamenti costituzionali) e la cosiddetta «piazza».

Un termine privo di preciso significato che può spaziare dai fedeli che ascoltano l’Angelus alla sagra degli strozzapreti, dai comizi di partito ai raduni degli alpini.

Ad ogni buon conto, questa contrapposizione abbandonata a se stessa nella sua fumosa semplicità è assai pericolosa. Converrà allora esaminare la «piazza» nelle sue diverse emergenze.

PER LA DESTRA SIGNIFICA sostanzialmente la tribuna di un capo e la sua pubblica acclamazione. Gli fanno da contorno la mobilitazione di qualche isolato di quartiere contro gli «intrusi» di turno e manifestazioni di carattere strettamente corporativo. Si tratta dell’antitesi netta a quello che intendiamo per movimento sociale, poiché non contemplando in alcun modo principi di autorganizzazione, lo scopo di queste mobilitazioni è consegnare le leve del comando nelle mani di un potere salvifico chiamato a sconfiggere il disagio sociale e i suoi presunti responsabili.

In buona sostanza la «piazza» della destra consiste in una permanente campagna elettorale. Gli umori che circolano in un simile contesto possono anche essere molto diffusi, ma piuttosto incapaci di pratiche sociali, non possono che confluire nel voto o condizionare (anche pesantemente) la politica attraverso i sondaggi che, più o meno fondatamente, li rilevano. Fanno eccezione, circoscritta, le azioni di stampo squadrista della destra estrema.

Ma se la prima messa in scena da smontare è quella di una destra che vive e agisce nella società contro la cittadella del «palazzo», non altrettanto agevole è far dimenticare un centrosinistra impegnato nel presidiare il potere costituito. Il quale non consta solo della Costituzione e delle regole democratiche, ma comprende anche spaventosi squilibri, sfruttamento e limitazioni di libertà.

IL TRACOLLO delle socialdemocrazie in tutta Europa è diretta conseguenza di un posizionamento sempre più appiattito sullo stato di cose esistente e sui soli aspetti formali della democrazia piegati alla «governabilità». Quando si invoca «discontinuità» è alla propria storia recente che bisognerebbe guardare prima di tutto.

La risposta, tanto stucchevole quanto vuota è «tornare nei territori». In genere quelli in cui è imminente un voto. A fare cosa? Propaganda elettorale naturalmente. «Ascoltare i cittadini» più che altro per calibrare efficacemente le promesse. Anche qui siamo ben lontani da un radicamento nell’esperienza dell’agire sociale e nelle sue diverse forme di espressione.

Il movimento 5stelle, a dispetto del suo nome, un movimento non lo è mai stato o, comunque, non lo è più da un bel pezzo. Sebbene abbia partecipato ad alcune esperienze di lotta (tutte sistematicamente abbandonate) si è presto trasformato in una organizzazione gerarchica impegnata soprattutto nella ricerca del consenso elettorale (prima con il mito infantile del 51 per cento, poi con la conversione alla tattica).

Seppure alcune sue tematiche si avvicinavano a quelle portate avanti dai movimenti, non ha esitato a stravolgerle come nel caso del cosiddetto «reddito di cittadinanza», guardando agli umori elettorali dominanti, fomentati, fra l’altro, da altre forze in campo.

MA NON È POI UNA QUESTIONE di tematiche. Essere movimento significa conseguire risultati senza passare necessariamente attraverso una rappresentanza parlamentare. Le Ong sono scese in mare senza aspettare che si formassero governi «non nemici». E non basta certo la piattaforma Rousseau per colmare il divario tra la società e la politica dei partiti. Non perché costituisca un elemento di disturbo nel delicato meccanismo della democrazia parlamentare, bensì perché rappresenta una simulazione burlesca della democrazia diretta.

Dunque, nessuna delle componenti che sostengono il governo, e men che meno il presidente del consiglio, dispongono degli strumenti per sgombrare il capo da quella contrapposizione tra «piazza» e «palazzo» che finirà col giovare alla destra e alla sua propaganda. Neanche attraverso un programma di riforme (anche volendo dimenticare gli orrori che si sono celati nel corso degli anni dietro questa formula) calato dall’alto, sia pure «ascoltando i cittadini».

Per sconfiggere il «senso comune» (non parlerei ancora in questo caso di egemonia culturale) frustrato e incattivito che muove a grandi passi verso la decrescita infelice della democrazia e la sua riscrittura autoritaria è necessaria l’azione di altri soggetti, quelli capaci di coltivare il terreno extraparlamentare, di organizzare lotte, occupare spazi fisici e culturali, trasformare in istituzione le proprie conquiste sul campo.

L’occasione è propizia per costringere i governanti ad avventurarsi nella «discontinuità» che predicano. Se non saranno i movimenti ad attraversare il varco che si apre, se l’ascolto dei partiti sarà rivolto solo agli elettori, allora la «piazza» sarà occupata dalle barricate contro zingari e migranti e il «palazzo» tornerà a essere abitato dalla peggiore destra.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 19 settembre 2019

Download this article as an e-book