di SAVERIO ANSALDI.
L’iscrizione dello “stato d’emergenza” nella Costituzione della Quinta Repubblica francese appena approvata dal Senato e già pubblicata sul Journal Officiel (la “Gazzetta Ufficiale”) il 16 febbraio 2016 si presta a diverse considerazioni. In effetti, le modifiche apportate alla Costituzione del 1958 prevedono, all’articolo I, che lo “stato d’emergenza” sia dichiarato per due motivi : “in caso di pericolo imminente conseguente a gravi attacchi all’ordine pubblico oppure in caso di eventi che presentanto, per la loro natura e gravità, la caratteristica di pubblica calamità”. L’articolo 2 afferma che “lo stato d’emergenza è istituito per decreto dal Consiglio dei Ministri”. L’articolo 6 prevede la “dissoluzione per decreto in consiglio dei ministri delle associazioni o gruppi che partecipano alla realizzazione di atti che portano un pregiudizio grave all’ordine pubblico o le cui attività facilitano o incitano nel commettere tali atti”. Tale articolo prevede una deroga : “le misure prese sulla base del presente articolo sono effettive anche al termine dello stato di emergenza”. L’emergenza può quindi essere prolungata anche alla fine delle condizioni che l’hanno istituita, vale a dire allorché il governo in carica ritiene che non esistano più minacce concrete alla sicurezza e all’ordine pubblico.
Si potrebbe qui riprendere una riflessione quanto mai pertinente sul problema giuridico della “misura” come tecnica di governo. Gli articoli che modificano la Costituzione francese del 1958 “istituendo” lo stato d’emergenza non fanno che confermare quello che i giuristi di scuola foucaultiana ci spiegano ormai da anni con le loro analisi. Potremmo anche fornirne una lettura contro-hobbesiana : come ha giustamente rilevato Giorgio Agamben in articolo apparso su Le Monde qualche settimana fa, lo stato d’emergenza rappresenta un passaggio dallo stato di diritto allo “stato di sicurezza”. Mentre infatti per Hobbes il contratto che fonda la sovranità implica non solo la paura indotta dalla guerra di tutti contro tutti ma anche la sua limitazione statuale in vista della sicurezza collettiva, lo “stato di sicurezza” si legittima al contrario con la paura. Il fine del contratto diventa così l’istituzione della paura e la sua reiterata prosecuzione attraverso il funzionamento quotidiano del diritto stesso. La sicurezza istituita dalla paura si transforma qui nel nome e nella pratica della relazione sociale, disattivata da ogni forma politica – depoliticizzata nel suo farsi e nel suo stesso esserci.
Nel complesso tali considerazioni colgono nel segno. Ma forse dimenticano alcuni aspetti di una realtà specifica alla Francia e soprattutto alle istituzioni della Quinta Repubblica che si rispecchiano nella Costituzione del 1958. L’istituzione dello “stato di sicurezza” sembra infatti rispondere più alla minaccia di una dissoluzione interna che alla possibilità di attacchi terroristici all’ordine pubblico. Quello che sembra emergere ad una lettura puntuale degli articoli (17 in tutto) che iscrivono lo stato d’emergenza nella Costituzione del 1958 è infatti il tentativo di liquidare con ogni mezzo, politico, giuridico e poliziesco, istituzioni pubbliche ormai completamente svuotate dalle loro funzioni di (presunta) integrazione sociale. Lo stato di emergenza rappresenta la presa di coscienza definitiva, dalla parte delle élites francesi, della fine del mito della “Repubblica” in grado di integrare le differenze, le disuguaglianze e le ingiustizie e di poterle resprimere nella forma pacificata del contratto sociale. Esso è il corrispettivo di una liquidazione economica già avviata due anni fa dal cosidetto “patto di responsabilità”, vale a dire dal “sussidio” a fondo perduto di 50 miliardi di euro in tre anni concesso dal governo presieduto da Manuel Valls al capitale pubblico e privato in cambio di un ipotetico reinvestimento sul lavoro. Adesso è giunto il momento per les élites del Paese di difendere il bottino, con le unghie e con i denti.
Un esempio può illustrare il funzionamento di tale dispositivo. Christophe Granger, storico contemporaneista dei movimenti sociali, ha chiaramente messo in luce nel suo ultimo saggio, La destruction de l’Université française (La fabrique Éditions, 2015) gli effetti devastanti dell’azione combinata fra le diverse “riforme” dell’Università e i “sussidi” contributivi concessi alle imprese dal “patto di responsabilità”. Le “grandes écoles” pubbliche ma soprattutto private (Business Schools, Facoltà di Scienze Politiche) sono finanziate per più del 40% da fondi statali, malgrado il costo esorbitante delle rette annuali richieste ai loro iscritti (i quali devono spesso indebitarsi con le banche per poterle pagare). Il “patto di responsabilità” prevede inoltre una defiscalizzazione per le aziende che investono in attività di ricerca. Di fatto, questa defiscalizzazione è semplicemente messa a bilancio senza un reale investimento e si trasforma quindi in una manovra contabile che favorisce l’evasione fiscale. Risultato? Le strutture private di insegnamento e di ricerca si accaparrano tutti in fondi pubblici mentre i fondi privati che dovrebbero rientrare nelle casse dello Stato per essere reinvesiti nelle università semplicemente non esistono. In tal modo, scrive Granger, “le scuole private, servendosi di queste riforme, hanno prima di tutto distrutto per quel che restava dell’università”. Non ci sono quasi più borse di studio per gli studenti (la maggior parte degli studenti francesi le ottenevano fin dal primo anno), il personale amministrativo è quasi interamente precario, assunto con contratti a tempo determinato spesso non rinnovabili, fra gli insegnanti stessi i titolari sono ormai sempre meno numerosi, sostituiti da ricercatori con contratti a termine. Senza parlare delle condizioni delle strutture stesse (aule, uffici, materiale didattico), ormai all’abbandono, e del deficit sistemico nei bilanci annuali degli atenei, anch’esso ormai periodicamente in rosso.
Lo “stato di emergenza” si transforma in tal senso in un governo del reale (l’espressione è di Granger) che si confonde con le nuove tecniche di assoggettamento delle pratiche comuni al movimento incessante delle riforme neoliberali. Da tale punto di vista, esso è una guerra condotta con la “forza dell’ordine” dalle élites nazionali contro ogni forma di vita comune garantita dalle vecchie istituzioni della Quinta Repubblica. Ma è proprio qui che appare forse la possibilità di considerare l’emergenza non come una chiusura definitiva ma come un’apertura verso un progetto politico innovativo. Nel caso dell’università, sarebbe illusorio pensare di far ritorno ad una realtà ormai consegnata al passato. “È ormai tempo di immaginare un’altra cosa”, ci suggerisce Granger. È sulla soglia di questa progettualità data dentro l’emergenza che si tratta di costruire nuove modalità istituzionali, nuove condotte di lotta e nuove forme di esodo. In queste stesse istituzioni colpite dall’emergenza (in primis scuole, università, ospedali), in queste strutture svuotate delle loro antiche prerogative, è possibile immaginare altri percorsi che facciano divenire altre pratiche di vita, di lavoro e di conoscenza. Si tratta in altri termini di far giocare fino in fondo il doppio senso del termine emergenza : non quello che rimanda alla paura e al suo governo ma quello che si costituisce attraverso uno sperimentare che diventa un fare altro, al fine di rendere un simile processo sempre più visibile e praticabile. La moltiplicazione di tali processi di sperimentazione rappresenta forse una delle condizioni indispensabili per l’invenzione di nuove istituzioni comuni.