di CARMELO PALLADINO.

il valutatore deve comunicare al valutato la valutazione / oppure farsene una ragione e suicidarsi / ma tu chi sei? cosa vuoi? cosa valuti? / ma chi sei? cosa vuoi? cosa valuti? / va bene lo ammetto: odio il capitalismo
(Lo stato sociale, Cromosomi, in Turisti della democrazia, 2012)

Se c’è una parola che ricorre in modo costante per i corridoi dei vari disegni di legge, delle scuole e dei media è valutazione. Gli insegnanti non vogliono essere valutati. Gli studenti devono essere valutati. Gli Istituti scolastici pure. Il dirigente anche. Pare che i docenti commettano un peccato gravissimo: non accettano la reciprocità di un atto – il valutare – insito nella loro professione: essi infatti, nella concezione neoliberista dell’istruzione, sono i valutatori per antonomasia. Il loro compito sembra debba limitarsi a questo (come lo stesso accento posto sulle prove Invalsi testimonia): devono produrre dati e con essi confrontarsi, oggettivare il proprio operato in numeri rendendo così misurabile il profitto degli allievi. Non a caso la vituperata riforma Gelmini ebbe tra i suoi punti chiave la sostituzione del giudizio con il voto nei primi due cicli di scuola (primaria e secondaria di I grado), punto mai messo in discussione dai governi successivi. Forse è proprio per questo che lo sciopero degli scrutini in corso desta tanto malumore e da più parti viene tacciato di essere “inaccettabile”, “irresponsabile” o addirittura “criminale”;1 i professori si rifiutano di compiere l’unico atto che gli è moralmente richiesto, misurare cioè il sapere dei propri studenti. Lo sciopero “classico”, è evidente, ha un’accettazione politica diversa e a nessuno verrebbe in mente di attaccarlo in modo così duro. In fondo cosa succede? Semplicemente gli studenti sono privati dell’apprendimento per uno o al massimo due giorni, niente in confronto al rimandare, più o meno per la stessa quantità di tempo, il momento dello scrutinio. Se vivessimo in un Paese a cui stesse a cuore l’educazione dei propri cittadini esso desterebbe più disagio, e invece, poiché quanto interessa è il numero, il mero dato, è l’incrociare le braccia quando bisogna mettere i voti che viene reputato riprovevole.

valutazione_agnese_renziÈ bene dirlo ad alta voce: sul tema della valutazione non è ammessa la presunzione di innocenza politica. In questi anni sono stati molti gli studiosi che se ne sono occupati e altrettanto numerosi i documenti critici nei confronti della direzione intrapresa che sono emersi.2 Infatti ciò che gli industriali europei dell’ERT e, in Italia, Confindustria, Compagnia San Paolo, la potente lobby di TREELLE e, last but not least, la Fondazione Agnelli richiedono da sempre è proprio questo, una valutazione quantitativamente misurabile di tutti i componenti dell’ambito Istruzione.3

L’organizzazione degli imprenditori italiana [Confindustria] si coordina anche con altre 6 organizzazioni europee simili per varare un documento, Per una scuola di qualità (Londra 2000)4 che compendia tutto ciò che l’impresa vuole dalla scuola: autonomia organizzativa, didattica e gestionale [nella Riforma Berlinguer i pochi soldi arrivavano dal MIUR, sostenere l’autonomia gestionale vuol dire sostenere la privatizzazione della scuola pubblica, ndr]; standard nazionali di conoscenze e competenze; un ente indipendente per la valutazione di ogni singola scuola e del complesso; finanziamento pubblico guidato dalla domanda; competizione; tecnologie informatiche e multimediali; saper fare; flessibilità del lavoro docente; docenti estremamente preparati ed in continua formazione; maggior ruolo per il dirigente; integrazione scuola impresa con l’impresa che indirizza gli studenti, con stage aziendali e per studenti e per insegnanti.5

Non è dietrologia, nossignori, e nemmeno complottismo, sono fatti scritti nero su bianco, non è nemmeno necessario interpretarli. Basta confrontarli e non sottrarsi all’evidenza. No, non può esserci presunzione di innocenza alcuna. In Italia però, al contrario della maggioranza degli Stati europei, suddetta operazione non riesce facilmente, qui la tradizione pedagogica che passa dalla Costituzione a don Milani, a Lodi è ben radicata e i docenti sanno molto bene che l’importante non è misurare, bensì incuriosire, accogliere, accompagnare, educare. Pertanto, affinché gli obiettivi europei possano essere raggiunti anche da noi, è stato necessario negli anni mescolare le carte etimologiche della parola misurazione affinché diventasse sinonimo di valutazione, a sua volta confusa semanticamente – e qui la radice ha aiutato – con valore. Vali solo se sei valutato. Altrimenti non hai valore, nel senso che non sei misurabile, quindi non hai alcuna valuta, pardon, alcun merito. Ma questa è un’altra storia (o quasi).
E allora da più di quindici anni assistiamo ai tentativi di innesto nella scuola italiana della cosiddetta “cultura della valutazione” che, a partire dal famoso “concorsaccio” proposto da Luigi Berlinguer nel 1999 e respinto dagli insegnanti in modo così netto da provocare addirittura le dimissioni del ministro, passa sia attraverso la trasformazione del Centro Europeo dell’Educazione (CEDE) in Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo dell’Istruzione e della Formazione (INVALSI)6, sia attraverso le sperimentazioni del VSQ-Valutazione per lo Sviluppo della Qualità delle Scuole, del Valorizza e del VALeS, arrivando alla definitiva istituzione del Sistema Nazionale di Valutazione (SNV).7 A dimostrazione della centralità della questione, basti pensare che quest’ultimo e giovanissimo ente procederà dritto per la sua strada anche qualora la Buona Scuola di Renzi dovesse naufragare tra le proteste della piazza e le beghe del Parlamento, se è vero che entro luglio – secondo quanto previsto dal relativo regolamento, DPR 28 marzo 2013, n. 80, dalla Direttiva del 18 settembre 2014, n. 11 e dalla Circolare Ministeriale del 21 ottobre 2014, n. 47 – ogni scuola dovrà produrre il proprio Rapporto di autovalutazione (RAV), sulla base del quale poi predisporre, da brava bambina, il rispettivo piano di miglioramento.8

Nel caso del sapere misurabile degli alunni siamo tutti d’accordo: sanno allora do loro 8 (o 9 o 10); non sanno do loro 2 (o 3 o 4). Non contano l’impegno profuso, non conta il punto di partenza, non conta il processo messo in atto. Conta il risultato. O no? D’altronde il punto d’arrivo degli Invalsi o delle prove comuni per competenze è proprio questo, creare uno standard e attenervisi. E c’è poco da obiettare che sono solo test atti a fotografare lo status del sistema d’istruzione, sono le vere e proprie colonne portanti della valutazione erta a sistema, la cui capacità di “retroagire” sull’intero processo di insegnamento è sotto gli occhi di tutti, almeno da quando, con il DPR 122/2009, la Prova Invalsi fa parte dell’esame di terza media e contribuisce, assieme alle altre prove scritte, al colloquio orale e al giudizio di idoneità, a determinarne il voto finale.9 Non solo, anche le tanto auspicate programmazioni comuni d’Istituto vanno in questa direzione: a prescindere dalle classi che ci si trova davanti è necessario fissare dei modelli uniformi, questa è la direzione da tenere.

valutazione_lorenzaAspettate però: è vero o non è vero che con la legge 170/2010 chi soffre di disturbi dell’apprendimento deve avere un piano didattico personalizzato? È vero o non è vero che con il DM 27/12/2002 i consigli di classe devono individuare i Bisogni Educativi Speciali e creare per loro una programmazione individualizzata? È vero, certo, peccato che, per quanto concerne i quiz di cui sopra, le prove dei suddetti DSA o BES o disabili certificati con 104 vengano letteralmente cestinate,10 ovvero la fotografia viene ritoccata con photoshop. Ciò che interessa ai Ministero & co. non è quindi utilizzare uno strumento (assai discutibile11) per comprendere la realtà e apportare le migliorie necessarie, bensì acquisire dati al fine di…? Già, a cosa servono? Servono a punire gli studenti non adeguati (si veda sempre l’esame conclusivo delle scuole di I grado), a condizionare la didattica degli insegnanti12 e a erogare fondi diversificati a seconda dei risultati, nonché a valutare (per ora solo implicitamente) i docenti e (esplicitamente) i dirigenti. Inoltre, visto che gli oneri per lo Stato devono rimanere ridotti all’osso, il medicalizzare la didattica creando, per chi non è considerato “normale” (leggi standard), categorie apposite è un modo sia per risparmiare sugli insegnanti di sostegno sia per attribuire al singolo professore il fallimento sociale a cui, con il modello di scuola proposto, si va incontro. Se qualche alunno non ce la fa, se la scuola non promuove l’inclusione costituzionale, se la disparità cognitiva è evidenziata da scarsi risultati scolastici, allora la colpa non è di una cattiva politica, bensì solo dei cattivi insegnanti. È per questo che vanno puniti e consegnati al pubblico ludibrio. Certo, si dirà che tutti devono essere valutati e, nella società del controllo, il vero problema è proprio questo: non si può accettare che qualcuno svolga un mestiere non misurabile. Ecco la pecca morale dell’insegnante agli occhi esterni. I soggetti vanno oggettivati. Non sta bene dirlo ma si pensa. Lo pensano i genitori (accontentati da Renzi perché inseriti nel Comitato di valutazione), gli studenti (anche loro, nelle scuole secondarie, nel suddetto Comitato), il preside (che, in quanto dirigente, sa dividere la pula dal grano e quindi scegliere i propri docenti). Ma chi può dare, facendo anche appello alla propria memoria, una definizione esatta del bravo docente? Se siamo onesti con noi stessi sappiamo che ciò non è possibile, è – e ora si gridi – soggettivo. E con ciò non si vuole semplificare un dibattito in corso da anni, si vuole invece porre l’accento sulla finalità della valutazione, venduta da anni come necessaria per il nostro bene e in realtà utile soltanto a chi vuole un modello di società competitiva, dove la scuola cessa di essere organo democratico e diventa azienda, così come prospettata, nel 1995, dall’ERT.

La responsabilità della formazione deve, in definitiva, essere assunta dall’industria. Sembra che nel mondo della scuola non si percepisca chiaramente quale sia il profilo dei collaboratori di cui l’industria ha bisogno. L’istruzione deve essere considerata come un servizio reso al mondo economico. I governi nazionali dovrebbero vedere l’istruzione come un processo esteso dalla culla fino alla tomba. Istruzione significa apprendere, non ricevere un insegnamento.13

Non fingiamo che, nella scuola che vogliamo, la valutazione così intesa sia sostenibile. Una volta selezionati e formati i docenti, il Ministero dovrebbe proporre – memore dei successi della scuola elementare pre-Gelmini – non la misurazione/punizione, ma un modello cooperativo dove la compresenza (e non l’organico funzionale!) diventa sinonimo di crescita reciproca, dove ore in più per la programmazione comune di classe, in tutti gli ordini e gradi, siano il luogo della ricerca e dell’azione, dove il risultato a cui tendere non sono dati ma nomi e cognomi degli alunni nel loro percorso educativo:

La scuola italiana non funziona nella misura in cui non funziona la nostra società. Per i miei figli vorrei una scuola in cui fosse anzitutto abolito il voto. Una scuola dove ogni giorno tutti interrogassero tutti, compreso l’insegnante anzi lui per primo. Una scuola di collaborazione. Una scuola che non fosse un tribunale ma un posto d’incontro per imparare, come tutti abbiamo bisogno di imparare, da tutti. (Luciano Bianciardi, Il fuorigioco mi sta antipatico)

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  1. «Il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini da parte sua definisce “inaccettabile” il blocco e aggiunge: “La protesta, se si fa, si deve fare con altri strumenti e non condizionando un momento cruciale del percorso scolastico”». «Un’iniziativa del genere sarebbe irresponsabile perché colpirebbe unicamente studenti e famiglie”. Così il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti». «Lo sciopero degli scrutini? È un atto criminale, che produce danno alla scuola e alla sua utenza, che quindi meriterebbe punizioni esemplari verso chi lo adotta. È questa la sintesi della conferenza stampa allestita l’11 giugno a Palazzo Madama sul disegno di legge 1934 dall’associazione studentesca StudiCentro, alla presenza dei capogruppo di maggioranza Ettore Rosato (PD) e Maurizio Lupi (AP)» [qui]. 

  2. Qui solo alcuni dei testi sulla valutazione pubblicati in questi anni: Cesp, I test Invalsi; A. Dal Lago (a cura di), All’indice. Critica della cultura della valutazione, “aut aut”, 360/2013; G. De Michele, La scuola è di tutti, Minimum fax, Roma, 2010, pp. 150-156; G. De Michele, Quale valutazione per quale scuola?; S. Di Fresco, M. Vescovi, L’arrestabile ascesa della scuola delle competenze; G. Gabrielli, I devoti della misurazione; S. Tusini, L’ossessione della valutazione. La scuola pubblica tra quiz INVALSI, declino della didattica e nuovo Sistema Nazionale di Valutazione; V. Pinto, Valutare e punire, Cronopio Edizioni, Napoli, 2013. 

  3. N. Hirtt, L’Europa, la valutazione, il profitto

  4. VOI (Austria), DA (Danimarca), MEDEF (Francia), BDA (Germania), CONFINDUSTRIA (Italia), VNO-NCW (Paesi Bassi), CBI (Regno Unito), Per una scuola di qualità, Documenti Confindustria, 2000. 

  5. R. Renzetti, La fine della scuola: il mondo dell’impresa e la Confindustria. Si vedano anche Compagnia San Paolo, Treelle, “Rapporto di ricerca sulla sperimentazione ministeriale Valorizza per individuare e premiare gli insegnanti che si distinguono per un generale e comprovato apprezzamento professionale all’interno di ogni scuola”, qui, e Fondazione Giovanni Agnelli, La valutazione della scuola. A che cosa serve e perché è necessaria in Italia, Rapporto di ricerca, Febbraio 2014, qui

  6. Un’ampia sintesi dell’evoluzione normativa relativa all’Invalsi si trova in Antonio Pileggi, L’INVALSI e la valutazione del sistema scolatico italiano

  7. Il DPR 28 marzo 2013, n. 80 ne sancisce il regolamento. A questo proposito si veda il Portale Valutazione del SNV. 

  8. Per ciò che riguarda il RAV si rimanda ai seguenti link: 1 e 2. Certo, sarebbe davvero interessante se i collegi dei docenti decidessero di boicottare la compilazione di questo documento, perché a giudicare dalla reazione seguita alla diserzione delle prove Invalsi di maggio, c’è da scommettere che la cosa farebbe letteralmente impazzire il manovratore. E, a questo proposito, pare che qualcuno si stia attrezzando

  9. «Riflettendo sui problemi della riforma della scuola, mi sono fatto le seguenti opinioni, che mi accingo a dare come risultato. La prima è che i programmi scolastici è quasi inutile scriverli. Occorre invece capire bene come devono essere fatte le prove al termine dei cicli; e quindi strutturare delle prove: saranno poi queste a retroagire su tutto l’insegnamento». T. De Mauro, L’uso della parola, in CIDI (a cura di), La scuola nella società della conoscenza, Bruno Mondadori, 1999, p. 80. Come è stato giustamente notato, con queste parole «De Mauro aveva soprattutto indicato la strada per scavalcare l’opposizione del popolo della scuola pubblica alla aziendalizzazione e mercificazione della istruzione, non ricorrendo più a mega-riforme inutili, ingombranti e impopolari ma, appunto cambiando semplicemente le prove finali dei diversi cicli di studio in modo che esse potessero automaticamente “retroagire” su tutto l’insegnamento. Si può dire che da qui nascano le fortune delle prove Invalsi e il processo di penetrazione della scuola-quiz nell’istruzione pubblica, anche se all’epoca ben pochi ci fecero caso». P. Bernocchi, Invalsi, scuola quiz ed eutanasia dei docenti, in Cesp, I test Invalsi, cit., pp. 26-27. 

  10. I dati possono essere inseriti solo «a condizione che le misure compensative e/o dispensative siano concretamente idonee al superamento della specifica disabilità o dello specifico disturbo», qui

  11. Cfr. Prove Invalsi, proviamo a ragionare non solo con le crocette, qui

  12. M. Barone, Invalsi, come inciderà sulla libertà di insegnamento, qui

  13. ERT, L’istruzione per gli europei. Verso la società della conoscenza, Marzo 1995.