Di UGO ROSSI

Poche voci critiche hanno evidenziato il conflitto istituzionale che si è venuto a creare con la pubblicazione del Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri (Dpcm) del 18 ottobre in cui il governo nazionale, tra gli altri provvedimenti adottati per fronteggiare la nuova fase di emergenza sanitaria, ha demandato ai sindaci e dunque ai Comuni la facoltà di proclamare il cosiddetto “coprifuoco” dopo le 21 nelle aree urbane più congestionate, in particolare delle medie e grandi città. La reazione dell’Anci, l’associazione che rappresenta i Comuni, e le prese di posizione dei sindaci – fatte pochissime eccezioni (come il sindaco di Trieste) – hanno unanimemente rigettato l’attribuzione di questa prerogativa da parte del governo nazionale. Dopo esser stati letteralmente silenziati durante la prima fase dell’emergenza sanitaria, messi da parte dal dualismo Governo-Regioni, i Comuni si sono comprensibilmente ribellati nel vedersi attribuiti funzioni puramente repressive di controllo dell’ordine pubblico. A ben vedere, però, lo scontro istituzionale che si è brevemente aperto tra governo nazionale e associazione dei Comuni ha portato alla luce la forma assunta fin dal marzo scorso dalla governance dell’emergenza sanitaria: un dualismo tra governo nazionale e Regioni che ha del tutto estromesso non solo i Comuni ma le più ampie comunità locali dalla gestione dell’emergenza. Nella primavera scorsa, le comunità locali si ripresero di propria iniziativa lo spazio negato loro dalla governance ufficiale a guida statale e regionale mettendo in campo iniziative di solidarietà e mutualismo dal basso a beneficio delle persone e dei nuclei familiari che in quella fase erano maggiormente in difficoltà e si sentivano abbandonate.

Il ruolo dominante acquisito dalle Regioni nella gestione dell’emergenza sanitaria è diretta conseguenza del processo di decentramento di essenziali funzioni pubbliche come la sanità, i trasporti e in parte l’istruzione alle amministrazioni regionali con le riforme costituzionali cosiddette “federaliste” dei primi anni 2000. Non solo in Italia, il decentramento regionale dell’assistenza sanitaria è da intendersi come una misura di depotenziamento della sanità pubblica in senso neoliberale, con l’aziendalizzazione delle strutture sanitarie (esemplificato dal passaggio dalle Usl, unità sanitarie locali, alle Asl, aziende sanitarie locali) e lo spazio sempre più ampio assegnato agli attori economici privati nel funzionamento del sistema sanitario. La conseguenza di questo processo negli anni scorsi è stato il peso preponderante attribuito agli investimenti di denaro pubblico in grandi infrastrutture ospedaliere, che ha fatto da contraltare al disinvestimento operato per i presidi sanitari di base, diffusi sul territorio, sia a livello di quartiere nelle grandi e medie città, sia nei piccoli centri e nelle aree periferiche. Molto si è detto in questi mesi a proposito delle storture del modello business-oriented della sanità in Lombardia, ma lo stesso può dirsi del sistema sanitario nelle altre regioni italiane. Nel pieno dell’emergenza sanitaria, i medici impegnati in prima linea nell’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo – allora epicentro dell’epidemia – pubblicarono un articolo illuminante in un’importante rivista medica internazionale nel quale richiamavano la necessità di porre al centro della strategia di contrasto all’epidemia la medicina territoriale e la cura domiciliare dei pazienti in chiave preventiva. Sebbene in gran parte ignorato dai mass media ufficiali, quell’intervento aprì uno squarcio di luce sulla necessità di immaginare un modello a forte radicamento sociale e territoriale di gestione dell’emergenza sanitaria, radicalmente diverso da quello tecnocratico-centralistico proposto dal binomio Governo-Regioni. I mesi successivi hanno tuttavia totalmente disatteso le speranze di chi si attendeva una politica di rilancio della medicina territoriale e di più ampio coinvolgimento delle comunità locali. L’approccio dominante è rimasto sostanzialmente invariato dalla prima esplosione dell’epidemia nel marzo scorso all’attuale seconda fase di crescita tumultuosa dei contagi e dei ricoveri ospedalieri. I risultati di questa continuità istituzionale sono stati ben presto evidenti. Nella Regione Campania, nei giorni scorsi i principali dirigenti della sanità regionale hanno ammesso apertamente che il sistema è ormai già prossimo al collasso.

È possibile dunque immaginare una rinnovata centralità dei territori e delle società locali nella gestione dell’emergenza sanitaria? La storia recente insegna che l’attivismo delle comunità locali può svolgere un ruolo fondamentale nelle fasi di più profonda crisi economica e sociale per ricostruire il legame sociale collettivo e infondere un senso di speranza nel futuro. All’indomani della crisi finanziaria del 2008-09, i governi nazionali dei paesi più colpiti, come l’Italia e gli altri paesi dell’Europa meridionale, misero in campo politiche di tagli alla spesa pubblica che si adeguavano supinamente ai diktat finanziari imposti dalla cosiddetta Troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale). In Italia, il governo Monti fece da battistrada nel nuovo corso di austerità, operando un dimagrimento drastico del settore pubblico, con la chiusura di tribunali e, per l’appunto, di piccoli ospedali e presidi sanitari sparsi sul territorio ritenuti superflui. Intere comunità si ritrovarono spossessate di essenziali servizi pubblici, a cominciare da quelli a tutela della salute. Furono inoltre drasticamente tagliati i trasferimenti di risorse statali agli enti locali e in particolar modo ai Comuni. Molti Comuni, travolti da un indebitamento senza precedenti, scoprirono di essere sull’orlo del collasso finanziario. Il duro colpo inferto dalle politiche d’austerità alla autonomia e all’operatività degli enti locali non impedì tuttavia, anzi si può dire che stimolò il nascere di un diffuso movimento a difesa dei beni comuni e del potere decisionale delle comunità locali. Come a Barcellona in Catalogna, a Jackson nel Mississippi e in altre città d’Europa e di altri continenti, le città e la mobilitazione delle comunità locali riuscirono a offrire in quella fase un’alternativa concreta alla politica di “lacrime e sangue” dei governi nazionali. Nell’estate del 2016, mentre nel mondo dilagava la reazione nazional-populista con l’ascesa di Trump negli Stati uniti e il voto per la Brexit in Gran Bretagna, Barcellona ospitò un grande convegno mondiale delle fearless cities che chiamava a raccolta attivisti dei beni comuni e amministratori locali impegnati quotidianamente in politiche e campagne di “costruzione di reti di rifugio e speranza” per i più vulnerabili. Altri incontri locali e internazionali si sono svolti negli anni successivi in angoli diversi del pianeta, consolidando la proposta di un nuovo municipalismo dal basso, democratico e radicalmente alternativo all’ortodossia neoliberale dominante così come all’emergente populismo nazionalista e sovranista.

Può la crisi economico-sociale innescata dalla pandemia del Covid-19 rappresentare un’occasione di rilancio del movimento neo-municipalista?  Anche se pochi lo ricordano, il nostro ordinamento, in particolare la legge istitutiva del sistema sanitario nazionale del 1978 e il decreto legislativo sugli enti locali del 1998, attribuisce al sindaco la funzione di “autorità sanitaria locale” in grado di intervenire in occasione di emergenze sanitarie e di igiene pubblica. Come si è detto, tali attribuzioni sono state completamente disattese durante la prima fase dell’emergenza sanitaria e lo sono ancora oggi durante la nuova fase emergenziale che si va prospettando, a causa del dominio incontrastato esercitato dal binomio Governo-Regioni nella gestione dell’emergenza sanitaria.

Gli esiti fallimentari sul piano sanitario della governance vigente devono essere colti come un’opportunità per avanzare un modello alternativo, a forte radicamento comunitario e territoriale, di gestione della crisi sanitaria. Ma per far questo è vitale il contributo dei movimenti sociali, delle attiviste e degli attivisti che in questi mesi sono stati in prima fila nel movimento di solidarietà dal basso che si è sviluppato nelle nostre città. Le tecnologie di comunicazione digitale di cui oggi disponiamo offrono un sostegno fondamentale nella costruzione di reti civiche e territoriali nell’emergenza, aggirando le limitazioni al contatto fisico imposte dall’epidemia.  I movimenti sociali devono rivendicare ascolto e potere di incidere sui processi decisionali, esercitare pressione sui sindaci e sui consigli comunali e, laddove esistono, sulle municipalità di quartiere affinché facciano sentire la loro voce in maniera incisiva con il governo nazionale e le amministrazioni regionali per una radicale inversione di rotta nella gestione dell’emergenza in corso. La timidezza mostrata in questi mesi dalle amministrazioni comunali può essere superata soltanto grazie a un movimento dal basso impegnato a rivendicare una reale “democrazia della cura”: accessibilità alla cittadinanza dei dati epidemiologici, centralità della medicina territoriale, sostegno concreto alle iniziative spontanee di solidarietà e mutualismo, possono essere i capisaldi di una gestione dal basso, democratica dell’emergenza in corso.

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