di MARTINA TAZZIOLI.
Diavata refugee camp, sette chilometri nella periferia nord di Salonicco. Uno dei tre militari di guardia all’ingresso si avvicina, indicando un gruppo di ragazzi siriani fuori dalla tenda: “tutti questi vogliono andare in Europa, non stare in Grecia, ma l’Europa non li lascia passare”. L’Europa, dopo la chiusura della rotta balcanica e la pressione dell’UE sulla Grecia affinché registri tutte le persone che arrivano via mare, si è fatta decisamente più distante. Per i migranti, prima di tutto, per i quali la Grecia non è l’Europa che si aspettano; e per i cittadini greci stessi, che assistono alla presenza crescente di agenzie europee negli spazi-frontiera del Paese dispiegate per controllare che la polizia nazionale non lasci passare sul territorio migranti in transito senza identificarli e bloccarli. Diavata, dove attualmente vivono 2500 persone, è uno dei 51 refugee camps greci, aperti nei primi mesi di quest’anno dove sono stati trasferiti, tra gli altri, dopo lo sgombero di Idomeni, donne, uomini e bambini che erano rimasti bloccati in seguito alla chiusura della frontiera.
La Grecia dei campi, a partire dalle infrastrutture e dalle tende in cui sono alloggiati i richiedenti asilo, è stata finanziata per lo più da UNHCR e dall’Internal Security Fund dell’ UE. A Diavata, come ad Oreokastro e negli altri campi della Grecia del nord, si attende. Alcuni aspettano di essere “ricollocati” altrove in Europa; altri invece si trovano semplicemente in un’attesa indeterminata, nella speranza che il confine macedone si apra di nuovo o di riuscire in qualche modo a passare senza lasciare le impronte in Grecia. Nonostante il nome, “relocation camp”, indichi una certa omogeneità nella composizione della popolazione migrante, gli spazi-frontiera interni al territorio greco funzionano, secondo la matrice “hotspot”, come centri di divisione e differenziazione che assegnano a ciascuno il proprio livello di “legittimità geografica”, o la propria “geographical limitation” come la definisce la responsabile UNHCR di Salonicco. La prima decisiva partizione avviene sulla base della nazionalità: siriani, iracheni, yemeniti e eritrei possono fare domanda per la cosiddetta “relocation”, che prevede che sia un altro stato membro europeo ad esaminare la loro domanda di asilo e, eventualmente, a conferire la protezione internazionale. Tutte le nazionalità restanti, tra cui pakistani e afgani, restano invece esclusi in partenza e possono soltanto chiedere asilo in Grecia. Tuttavia, rientrare nei criteri di idoneità per la relocation non significa automaticamente averne diritto. Nelle ultime settimane organizzazioni e avvocati greci hanno riportato la notizia di dinieghi sempre più frequenti da parte degli stati membri nei confronti di alcune delle persone selezionate per essere ricollocate. “Security reasons”, conferma la coordinatrice di EASO – l’Agenzia europea di supporto all’asilo – è la motivazione che gli stati possono mobilitare per negare la relocation a casi singoli; e questo è ciò che è finora avvenuto con Francia e Paesi Bassi, che hanno chiesto di intervistare alcuni dei candidati ritenuti “sospetti”.
Il confine della nazionalità come criterio di partizione escludente è a sua volta soggetto alle alterazioni dei confini temporali che caratterizzano la logica del controllo dell’“hotspot approach” europeo e che sono all’opera ben oltre i nove hotspot ufficialmente presenti in Europa. In Grecia i confini temporali come strumento di governo della mobilità sono ancor più visibili che in Italia. Un fitto calendario delle date degli arrivi via mare e delle procedure di identificazione determina le geografie future che l’UE attribuisce ai e alle migranti: la relocation è valida solo per coloro che sono entrati in Grecia prima del 20 marzo; gli iracheni verranno esclusi dalla relocation a partire dalla fine di luglio; la procedura della pre-registrazione si effettua solo per i richiedenti asilo arrivati tra il primo gennaio 2015 e il 20 marzo 2016.
Per avere un posto letto in una delle tende o dei containers nei campi è necessario effettuare la pre-registrazione, procedura istituita nel mese di aprile che da un lato rende le persone temporaneamente non-deportabili in Turchia, e dall’altro funziona come strumento di censimento della popolazione migrante in Grecia. Con la pre-registrazione si viene inseriti in una lista di attesa prima di essere chiamati dal Greek Asylum Service per la registrazione ufficiale come richiedente asilo. È un’attesa che secondo le stime di UNHCR potrà durare anche un anno. Chi rifiuta di effettuarla resta fuori dal campo, dal posto letto e dall’accesso a servizi igienici e sanitari. Per questo fuori dalla recinzione di Skaramagas, situato nei pressi di un oleificio all’estrema periferia di Atene, si è formato un campo fuori dal campo, fatto da tende igloo da campeggio di migranti, in gran numero famiglie, che temono che la pre-registrazione possa bloccarli definitivamente in Grecia. Al campo “ufficioso” di Helleniko, la partizione compiuta dall’umanitario-poliziesco è spazialmente ben marcata tra due edifici: i non-registrati vengono ammassati nell’ex-aeroporto, sotto le ironiche scritte “partenze internazionali”, e i registrati vengono invece collocati nello stadio da hockey dell’impianto olimpico. Tuttavia, la lunga attesa protratta senza garanzie, tra la fase della pre-registrazione e quella della registrazione, è diventato un importante margine di manovra per i migranti in Grecia per restare prendendo tempo, e senza rimanere intrappolati dal regolamento Dublino. Infatti, durante la pre-registrazione le autorità greche si limitano a raccogliere i dati personali (nome, cognome, nazionalità, data di nascita) senza prendere le impronte come avviene invece durante la registrazione. Per coloro che sono riusciti a sfuggire all’identificazione al momento dell’arrivo sulle isole, questo lasso di tempo di attesa diventa modo per riorganizzarsi e cercare di attraversare il confine macedone.
La Grecia dei campi è certamente l’effetto più visibile e immediato sul territorio greco della chiusura a catena delle frontiere lungo la rotta balcanica e, insieme, dell’accordo UE-Turchia firmato lo scorso 18 marzo. Da spazio di transito la penisola ellenica è stata trasformata in spazio di contenimento e luogo di pre-selezione e partizione della mobilità e degli arrivi. Similmente, molte delle zone di transito, dove i migranti trascorrevano poche ore prima di ripartire verso nord, come ad esempio il terminal 1 del porto del Pireo, sono diventate in poche settimane luoghi di controllo, identificazione e attesa. La concomitanza di questi due chiusure – il corridoio balcanico, e la rotta Turchia-UE – ha contribuito ad aumentare la popolarità del canale della relocation, istituito dall’ UE nel maggio del 2015 e rifiutato nei primi mesi da molti dei migranti potenzialmente idonei. “Rileggendo quanto accaduto nell’ultimo anno”, commentano dal quartier generale di EASO ad Atene, “la relocation era stata presentata inizialmente ai migranti come modo per una continuazione sicura del percorso migratorio; ma la maggioranza di coloro che arrivavano preferivano proseguire in autonomia. Solo dopo aver realizzato, a fine marzo, di essere bloccati in Grecia e senza alternative i siriani hanno optato in massa per la ricollocazione”. Relocation che, peraltro, procede a ritmi da piccoli numeri, con 2400 migranti trasferiti a oggi dalla Grecia sui 66 000 previsti.
I migranti che in questo momento si trovano nella Grecia continentale sono per lo più arrivati prima dell’accordo UE-Turchia, e sono riusciti dunque a lasciare le isole greche pochi giorni dopo lo sbarco. Coloro che invece sono detenuti attualmente negli hotspot di Lesbo, Chios, Samos, Leros e Kos sono arrivati dopo lo spartiacque del 18 marzo, e da allora sono bloccati sulle isole, anche se molti di loro dichiarati non-deportabili avendo fatto domanda di asilo. Gli hotspot, anche se certamente molto più inaccessibili dei campi sulla terra ferma, non sono tuttavia mere barriere concentriche di filo spinato ma infrastrutture le cui maglie di apertura e chiusura vengono costantemente riadattate. Mentre fino al mese di maggio l’hotspot di Moria a Lesbo funzionava a porte totalmente chiuse e a nessuno dei detenuti era permesso uscire, adesso ai migranti arrivati da più di 25 giorni sull’isola viene concesso di lasciare la struttura durante il giorno.
Sulla strada che fiancheggia l’hotspot tre bar mobili funzionano da luogo di ritrovo dei migranti con permesso di uscita, degli attori europei come Frontex ed EASO preposti a sorvegliare le autorità greche, e degli innumerevoli turisti dell’umanitario, che decidono di trascorrere giorni o settimane nell’hotspot di Moria come volontari fornendo cibo e vestiti. Un turismo, quello dell’umanitario, che solo in parte riesce a compensare il calo dell’80% di turisti stagionali sull’isola causato dal ricordo degli arrivi in massa delle imbarcazioni di migranti lo scorso anno. L’estate in corso registra invece un bollettino degli arrivi in caduta sostanziale, a causa delle operazioni di pattugliamento e respingimento da parte della Guardia Costiera turca, con una media di tre imbarcazioni a settimana a fronte delle 1400 persone che sbarcavano ogni mese lo scorso inverno. Intrappolati a Moria, o comunque sull’isola, a causa del corridoio verso Atene chiuso dopo l’accordo UE-Turchia, alcuni dei migranti detenuti nell’hotspot hanno deciso di rientrare in Turchia, attraverso canali di smuggling in direzione inversa, o di rivolgersi all’ Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM) per far ritorno nei paesi di origine – eccezione fatta per i siriani. Non è un caso, del resto, che il numero dei “ritorni volontari” dalla Grecia in questi primi sei mesi dell’anno (3400) eguagli quello dell’intero 2015, quando i migranti che sbarcavano sulle isole greche riuscivano a proseguire il viaggio senza troppi impedimenti. Sull’isola di Chios la temporalità del controllo e i meccanismi di detenzione sono a uno primo sguardo meno serrati che a Lesbo. Nell’hotspot situato su una collina a una decina di chilometri dalla città principale, nell’ultimo mese i migranti sono lasciati anche qui liberi di uscire durante il giorno e chi rifiuta di dormire all’interno viene collocato nei campi cittadini di Souda e di Dipethe, in mezzo ai negozi del centro. Le procedure di relocation iniziate a Lesbo in Aprile, a Chios sono state avviate solo il mese scorso, e sulle altre isole-hotspot il ritmo delle identificazioni che parte da Moria sembra sentirsi ancora meno. A essere minori sono anche gli arrivi rispetto a Lesbo, l’isola più grande tra le cinque e storicamente con maggiori rapporti con la Turchia, oltre che l’isola più facilmente raggiungibile per le rotte degli smugglers.
La Grecia dei campi e degli hotspot ci mostra un’ulteriore declinazione, rispetto a quelle già esistenti nel Mediterraneo, del governo militare-umanitario della mobilità così come delle funzioni poliziesche degli attori dell’umanitario. Ai militari viene richiesto di fornire cibo e acqua nei campi, molto spesso collaborando direttamente con UNHCR e con altre organizzazioni come Danish Relief Council o EuroRelief. Mentre le agenzie europee, Frontex ed Easo, svolgono compiti di polizia, non tanto diretta bensì nella forma di una pressione ravvicinata e costante sulle autorità greche per assicurarsi che le impronte prese vengano inviate nel database Eurodac; ma oltre a questo gli attori UE sono presenti nei campi e negli hotspot in vece di autorità umanitarie, preposte a stabilire le condizioni di ammissibilità di ciascun migrante alla procedura di asilo. Di fatti, in virtù del principio del “paese terzo sicuro” con cui la Turchia viene definita nell’accordo siglato con l’UE, le domande di asilo possono essere respinte dimostrando che la persona in questione non sarebbe in pericolo nel caso in cui venisse rinviata in territorio turco, in quanto paese su cui ha transitato. Spetta dunque a EASO effettuare una pre-selezione all’interno degli hotspot tra gli ammissibili e i non ammessi alla procedura di asilo. Le organizzazioni umanitarie internazionali, tra cui collaborano, tacitamente complici delle partizioni escludenti che avvengono all’interno degli hotspot, o attivamente, come la nota Medicins du Monde, che all’interno dell’hotspot di Moria è presente nel momento in cui vengono identificati i nuovi migranti arrivati e decide chi tra loro ricade sotto la categoria di “soggetto vulnerabile”.
L’ormai celebre City Plaza Hotel di Atene, che ospita 400 migranti da ormai tre mesi, rappresenta in qualche modo l’ anti-campo, in cui né alle ONG né tantomeno alle autorità governative è permesso entrare, e dove lo spazio rifugio sovverte la funzione di luogo di contenimento, cattura e identificazione. Insieme all’esperimento del City Plaza, le espressioni di solidarietà nei confronti dei migranti in transito o bloccati nel paese sono ben visibili anche nei piccoli paesi della regione della Macedonia, come se, alcuni attivisti sostengono, il sentimento anti-europeo si fosse tradotto in un’alleanza inaspettata con i rifugiati di guerra. 52 000 è il numero di uomini, donne e bambini attualmente arenati in Grecia, con l’Unione europea che finanzia i centri per la loro detenzione protratta a tempo indeterminato. Eppure nessuna spettacolarizzazione degli arrivi e delle presenze dei migranti. Al contrario, i migranti sul territorio si trovano narrativamente spettacolarizzati e spazialmente invisibilizzati: la tattica predominante nella gestione delle molteplicità migranti sembra in questo momento essere quella della dispersione e delle partizioni escludenti. We want to go to Europe and not to stay here, è lo slogan condiviso dai migranti nella Grecia dei campi; a cui una ragazza afgana nell’ aeroporto-campo di Helleniko aggiunge but where is Europe? Is everywhere like this?