di MIGUEL MELLINO.
Il rapporto tra ricordo e memoria è sempre conflittuale. Ce lo ricordava anche un bergsoniano come Gilles Deleuze nel suo lavoro sul cinema: la memoria è ciò che il ricordo non riesce a contenere. La memoria, al contrario del ricordo, è un flusso informe e incontrollabile; un magma impersonale e collettivo, esterno a noi, incapace di scorrere tranquillo entro argini artificiali. La memoria è agita dal desiderio, non tollera quindi alcuna condizione-Stato: non ha essenza né tempo né origine, poiché è sempre riattivata dal presente; irrompe quindi come rottura, come conflitto verso tutto ciò che le si oppone.
Questa contrapposizione deleuziana torna utile per inquadrare il recente Briganti o emigranti (ombre corte), a cura di Orizzonti meridiani, una rete che collega ricercatori e diverse soggettività politiche dedita alla conricerca, all’inchiesta teorico-politica militante. Si può dire infatti che Briganti o emigranti, sin dal titolo, sia un prodotto di un (eterno) dirompente ritorno della memoria subalterna del Sud tra le crepe di un ricordo nazionale italiano sempre meno «egemonico» e sempre più in rovine, ovvero sempre più vuoto, rituale, istituzionale e autoritario.
Un ricordo che può certo ancora usufruire del potere interpellante di quelli che Althusser chiamava gli «apparati ideologici dello stato», ma che non riesce più ad addomesticare una memoria meridionale popolare e ribelle; una memoria che si è fatta sempre più insistentemente resistenza attiva e insorgenza, lotte di riappropriazione dal basso, come mostrano le mobilitazioni sul ciclo dei rifiuti o quelle più recenti contro il «biocidio»; si tratta di un’intelligenza collettiva che alcuni saggi del volume propongono di interpretare, a partire da quello che possiamo chiamare il Gramsci foucaultiano e meridiano di Partha Chatterjee, come una vera e propria «politica dei governati».
Confini e flussi
Sta qui uno dei principali elementi di interesse di questo lavoro collettivo: nel proporre una lettura dei numerosi movimenti che hanno attraversato in questi anni le terre del Sud come effetti di una «memoria meridionale altermoderna», di un’alternativa politica meridiana, espressione della cooperazione sociale tipica del meridione e della sua ricchezza soggettiva, del tutto incapace di abitare quella «sala d’attesa della storia» – per riprendere qui il noto enunciato critico di Chakrabarty – in cui l’ha confinata dal momento stesso dell’unificazione il discorso (del ricordo) egemonico nazionale.
Tuttavia, porre i movimenti meridionali sul flusso della memoria, non significa qui alcuna nostalgia del passato: anzi, significa soprattutto spezzare l’ordine gerarchico imposto dalla costruzione discorsiva della «questione meridionale», smascherare il suo architrave concettuale e politico – passato e presente – come mera «violenza epistemica» a danno del meridione stesso.
Nella (ri)lettura meridiana e postcoloniale del passato e del presente del mezzogiorno che ci propone Briganti o emigranti questo punto emerge con assoluta chiarezza: la «questione meridionale» come dispositivo di governo del Sud non è stata che una variante locale o nazionale dell’immaginario storicistico del coloniale occidentale.
La memoria dello sterminio del brigantaggio, del razzismo antimeridionale costitutivo dello stato unitario e post-unitario, dello stato d’eccezione permanente come strategia necessaria di «incivilimento» e «modernizzazione» del meridione, delle lotte di resistenza delle popolazioni meridionali, non appare qui rivolta all’indietro, ma lanciata verso il futuro, ovvero come immaginazione teorica e politica di un altro modo di stare e abitare il mondo; come un’immaginazione «altra» e alternativa non soltanto al tradizionale regime statale sviluppista di regolazione delle condotte, bensì all’attuale governance neoliberista delle soggettività, delle culture, dei saperi e dei territori.
Al di là della pluralità di sguardi che lo compongono, dunque, Briganti o emigranti può essere certamente inserito, a pieno titolo, nel sempre più folto campo degli «studi postcoloniali sull’Italia».
Tuttavia, è bene precisare, se guardiamo a questa particolare correnti di studi, che si tratta di un lavoro in un certo senso atipico. In effetti, buona parte dell’originalità del testo sta soprattutto, oltre che nell’offrire un’intera sezione dedicata a casi specifici di «inchiesta politica-territoriale» a carico di diversi collettivi ed esperienze militanti, nel suo prendere corpo a partire da una combinazione assai singolare di diverse prospettive teoriche: il marxismo gramsciano (non tanto nella sua versione più tradizionale in Italia, bensì nella traduzione proposta da autori come Guha, Stuart Hall e Chatterjee), operaismo e post-operaismo (interessante la ripresa e riattualizzazione di un classico come Stato e sottosviluppo (1972), di Ferrari Bravo e Serafini), gli studi foucaultiani sulla governa mentalità e la biopolitica, gli studi postcoloniali (in particolare Orientalismo di Said), e gli studi subalterni indiani.
È precisamente questa singolare combinazione di sguardi a dare al testo una certa uniformità sotterranea, consentendogli allo stesso tempo di andare oltre uno dei limiti più marcati degli studi postcoloniali, italiani e non: il loro eccessivo situarsi su una dimensione prettamente estetica e/o letteraria, la loro afferenza a quello che possiamo chiamare il mero «campo delle rappresentazioni». Dalla lettura di Briganti o emigranti, al contrario, emerge un approccio all’ordine del discorso, per dirla con Foucault, non soltanto in quanto mero «sistema di rappresentazioni», bensì come «insieme di politiche materiali» di governo. Mi pare che è proprio a partire da questa concezione che possa essere interpretata la proposta di un nuovo «materialismo geografico», come metodo di decostruzione e ricostruzione delle soggettività meridiane, presente in alcuni dei saggi del volume. In questo senso, si può dire Briganti o emigranti lanci un nuovo programma di ricerca teorica e politica postcoloniale sul mezzogiorno.
Prospettive rovesciate
Ma se la ricerca di un orizzonte politico meridiano altermoderno non sta a significare, come si è detto, alcuna nostalgia per il passato, essa non insegue nemmeno la rivendicazione di un qualsiasi particolarismo locale, regionale o identitario.
Su questo punto Briganti o emigranti traccia un confine più o meno netto con la prospettiva promossa, ad esempio, dal «pensiero meridiano» di Franco Cassano e altri. Porre gli attuali movimenti del Sud lungo la traccia di una «memoria meridiana altermoderna» significa schiudere la politica di riappropriazione integrale della vita che li sottende alla costruzione materiale del comune; sottolineare
l’inflessione meridiana di queste nuove soggettività politiche territoriali non equivale, dunque, a promuovere alcuna chiusura regionalistica, bensì a mettere in luce il rovesciamento dei dispositivi di sfruttamento del capitalismo neoliberale attuato dalle lotte dei movimenti del Sud a partire da una singolarità storica specifica. Si tratta di una strategia che assume un’importanza «ricompositiva» del tutto particolare alla luce del conflitto sempre più aspro tra la Ue dell’austerity, della precarizzazione e della razzializzazione dei Pigs e i movimenti del Sud dell’Europa.
Come a dire che il contributo politico dell’Europa mediterranea alla risoluzione della crisi europea non può passare attraverso spinte autonomiste o localiste, bensì dalla ripresa del discorso sull’Europa a partire da quello che possiamo chiamare una «rottura meridiana» improntata al comune.
Saperi «irregolari»
Come suggerito dal Deleuze da cui siamo partiti, la memoria porta con sé la stessa immanenza sovversiva del moderno. L’irruzione della memoria interrompe la linearità cronologica del tempo, apre a temporalità sincroniche e molteplici e finisce così per dissolvere o disattivare il ricordo contenuto e trasmesso dagli archivi. La memoria, prima o poi, finisce per far vacillare ogni sembiante. Se negli archivi storici non troviamo alcuna traccia della subalternità, come avvertiva Gayatri Spivak nel suo saggio più noto, questo accade perché essi – i saperi dominanti – sono governati dalla logica del ricordo. La memoria, invece, come suggerisce Guha, è sempre subalterna, poiché apre alla storicità (allo spazio-tempo reale e autonomo dei subalterni) e chiude alla Storia (dello Stato-nazione). Nel suo La Storia ai limiti della Storia del Mondo (2002), per esempio, egli si chiedeva come stare dentro la storia intesa come storicità, ovvero non come storia dello Stato ma delle masse o della gente comune? Era proprio a partire da questo interrogativo che la categoria gramsciana di subalterno aveva cominciato a caricarsi di senso in India, fino a sfociare nella «politica dei governati» di Chatterjee.
Briganti o emigranti sembra aver raccolto anche questa sfida posta dagli storici dei subaltern studies ai saperi coloniali occidentali, gettandone i primi lineamenti in Italia: si tratta di una sfida cruciale per l’ulteriore sviluppo di una prospettiva marxiana degli studi postcoloniali italiani.
Questa recensione è stata pubblicata su il manifesto il giorno 20 giugno 2014 con lo stesso titolo.