di MARCO ASSENNATO.

 

Benché già alla fine degli anni Cinquanta, Giulio Carlo Argan avesse qualificato il Movimento Moderno e le sue strategie urbanistiche come «un capitolo della storia del riformismo europeo» è raro, nella pubblicistica architettonica, che ci si decida ad afferrare la crisi della progettazione razionale direttamente sul lato politico. In effetti, è su questo piano che andrebbero svolte le analisi del dibattito che, nell’architettura italiana, si è aperto nella finestra compresa tra le ricerche compositive e tipologiche, le ironie delle neoavanguardie degli anni Settanta e l’esplosione del postmodernismo.

Perciò il volume che finalmente Pier Vittorio Aureli consegna al lettore italiano, Il progetto dell’autonomia. Politica e architettura dentro e contro il capitalismo (Quodlibet, pp. 192, euro 17), è prezioso. Tanto più che l’architetto e docente presso l’«Architectural Association» di Londra vi riconosce la centralità di una stagione politica e culturale intensa, raccolta attorno all’eresia operaista e ai suoi esiti. Il testo nasce da un seminario tenuto dall’autore presso la Columbia University che la Princeton Architectural Press ha poi dato alle stampe nel 2008, a testimonianza dell’ormai noto interesse che su scala globale si tributa a quel capitolo del lungo Sessantotto italiano.

Il nodo della pianificazione

Si tratta del tentativo di rileggere in parallelo «testi di Panzieri, Tronti, Cacciari, Tafuri, Rossi e Archizoom come se questi testi appartenessero a un unico – seppur composito e perfino contraddittorio – progetto dell’autonomia». Certo, Aureli menziona puntualmente le significative differenze che esistono tra questi autori, ma le mette in ordine in una ipotesi di ricerca per molti versi affine a quella che si è tentata sul piano filosofico con l’Italian Theory. La chiave teorica la troviamo nel secondo termine del titolo – autonomia – concetto recuperato per la pratica di progetto come premessa di una ricerca personale che Aureli ha esposto in un secondo volume del 2011, dal titolo significativo: The possibility of an absolute architecture pubblicato da Mit Press.

Questione complessa e spinosa, questa della possibilità di una autonomia del progetto – s’intenda: dalle forme dello sviluppo capitalistico attuale – che possa restituirci una architettura assoluta. Nel chiasma che tiene insieme le ricerche del primo operaismo – fino a Contropiano – con la triade Manfredo Tafuri, Aldo Rossi, Archizoom, Aureli trova tre elementi condivisi: la «critica alla professionalizzazione dell’architettura e al suo ruolo politicamente e culturalmente passivo nei confronti delle dinamiche urbane»; la polemica antiriformista; e la decostruzione dei «miti tecnocratici della «programmazione economica» e della città-territorio».

Tracce che l’autore ripercorre quando introduce l’ipotesi sperimentale di una progettazione urbanistica «per parti»: oggetti assoluti e polemici rispetto al generico della metropoli. Una traiettoria dedotta attraverso l’analogia tra la «forma discretizzante» dei luoghi urbani di Aldo Rossi, la libertà teorica di Archizoom e l’autonomia del politico di Mario Tronti, prospettiva unica attraverso la quale, secondo l’autore, si deve leggere l’eredità dell’operaismo classico.

Le differenze che contano

Insomma pur riconoscendo un certo interesse per le tesi dell’intera costellazione di autori che, a differenza di Tronti, hanno partecipato ai nuovi movimenti dagli anni Settanta in poi, secondo Aureli «non si può non esser d’accordo con le critiche che Tronti – padre dell’operaismo – ha mosso verso le tesi del post-operaismo, soprattutto nei confronti del rifiuto, troppo disinvolto ed entusiasta della tradizione del movimento operaio», riducendo tutta intera quella ricerca ad «accademia stanca del girare su se stesso del post-strutturalismo». Mentre si propone, tanto sul piano politico che su quello architettonico, di riprendere «un progetto che affonda le sue radici proprio agli inizi della storia occidentale moderna».

Una domanda: regge questa ipotesi di ricerca? Sul piano strettamente filosofico-politico, direi di no: e del resto anche all’interno del recente dibattito sull’Italian Theory si è riconosciuto ampiamente che l’autonomia del politico non coincide con l’esito destinale del primo operaismo ma ne configura piuttosto una corruzione e un rovesciamento (cosa peraltro che lo stesso Tronti non avrebbe difficoltà ad ammettere). Insomma più che continuità qui si dovrebbero far giocare delle rotture e delle differenze, delle aperture e delle divaricazioni tra dimensioni del progetto politico del tutto inconciliabili. E per quanto riguarda il progetto di architettura? Anche qui, a ben vedere, la triade Rossi, Tafuri, Archizoom può stare insieme solo nell’ordinato casellario dello storico disciplinare, ma traballa paurosamente se guardata più da vicino.

La fuga nel design

Certo: le neoavanguardie italiane avevano letto gli articoli di Tafuri su Contropiano, come è noto il loro interesse per le ricerche portate avanti da Aldo Rossi. Ed è vero che il rapporto tra Tafuri e Rossi resta affettuosamente testimoniato dalla celebre tavola del ’74, L’architettura assassinata, che l’architetto dedicò allo storico. Tuttavia è proprio l’autonomia del progetto, l’ipotesi di un’architettura assoluta che qui fa problema. Perché tutta l’impresa teorica di Tafuri è volta a dimostrarne l’impossibilità, mentre il «novecentismo» elementare di Rossi e le fughe nel design delle neoavanguardie, seppure per via distopica si perdevano nell’impossibile impresa di ribadirla.

Non è forse la critica del lavoro intellettuale, uno dei caratteri centrali di quella stagione? In che direzione viene svolta quella critica dalle diverse figure chiamate in causa? Scavare queste differenze potrebbe forse consegnarci un’ipotesi di lavoro nuova, capace di tenere insieme una propedeutica critica del razionalismo, la decostruzione del formalismo architettonico, con la necessaria sperimentazione di un progetto all’altezza del capitalismo cognitivo e delle sue faglie. Aureli ha il merito di offrirci l’occasione di questa discussione.

Questo articolo è uscito su Il Manifesto il 16.07.2016

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