di FANT PRECARIO. 

And once you take out all the garbage
That’s in your brain, forget about your future
It’s just just just just too tame
Contort yourself, oh, I said you got to
I said you got to, you got to, you got to
You got to contort yourself.

L’ipotetico dj, ora, dovrebbe mettere sul piatto l’ennesimo disco “uscito” nel 1968 e sulle sue note raccontare qualcosa circa/su/a proposito.
Ma la vita, anche se di merda, scorre e il palinsesto s’infrange sul presente che bussa alla porta e se non apri, la porta può essere sfondata né più né meno che un cassonetto o un bancomat, solo che a piangerti non ci sarà La Repubblica o La Procura.

Il maggio, a Parigi, arriva cinquant’anni dopo, con qualche mese di ritardo anche se, per dirla con Bruno Lauzi non era difficile immaginare che “brace” bruciasse “sotto il carbone” della repressione di tante azioni oppositive che oltralpe, come da noi, si sono susseguite in un decennio, forse frettolosamente e dai reduci di tutte le epoche, archiviato come di calma piatta.

D’incanto si è tutti politologi, pronti a scrutare la folla cercando là, dentro quello sciame, ciò che si vuole per, poi, affermare (il più delle volte contro il vero), che lo si è trovato.
Torna lo Speciale che grida “lotta comunista/lotta fascista”. Il Generale annusa profumo di forcone (e letame). L’ottimista ha già la ricetta pronta per il prossimo assalto al cielo. Il potere, non potendo dare la colpa al “destino cinico e baro”, si limita a ringraziare le forze dell’ordine mobilitate, per il coraggio e l’eccezionale professionalità mostrata.

Come tutti ho la mia idea, come pochi penso che sia giusto tacere e, ove possibile, dare una mano. Peraltro, da pavido cialtrone quale sono, farei pessima figura.

Partiamo da qui: in Francia qualcuno parla delle “giubbe gialle” come “new wave” della protesta. Ecco, il rimando appare esatto, puntuale e suggestivo, al netto del fatto che come ogni termine descrittivo, in sé non significa un cazzo se non lo si colma (anziché di supponenza) di prassi.
Anche la new wave, come la musica che (davvero) batte il tempo del ’68 è fuori fase, pienamente dentro il modo di produzione artistico, assolutamente contro l’architettura del fasto anche ribellista. Se vogliamo unire tutte le (più o meno reali, più o meno assorbite, anche solo oniriche) insurrezioni, il richiamo musicale potrebbe essere più precisamente alla no wave.
Assimilare il respiro dell’acre candelotto lacrimogeno (che pare rimandare più all’incenso purificatore della tradizione cattolica che alle mazzate, ma c’è poca differenza in fondo, anche le legnate di Dio fanno male) alle contorsioni di James Chance o al lirismo assoluto e scheletrico dei DNA rende l’idea di quello che non c’è (ancora), ma che, già, si tocca.
Inoltre, è formidabile antidoto al piano mediatico imposto dal capitale che spiega ogni cosa ponendo:1) la differenza tra gilet buoni e cattivi, 2) le infiltrazioni di potenze straniere, 3) l’assimilazione tra estrema destra ed estrema sinistra, 4) l’enormizzazione dei danni; (inoltre, questo spiega la catastrofe del movimento dei movimenti, per lo più aduso ad ascoltare musica di merda).
La musica, come ogni espressione della determinazione modificare lo stato di cose presente, arriva al 1968 ben chiara, fluisce da e verso i corpi cospicua e tagliente. Desiderante invito a partecipare al banchetto delle merci verso il superamento della necessità delle stesse.
Come l’operaio di fronte alla bomba di Milano, la musica anziché deflagrare, implode.
Il suono gocciola ovunque, il capitale come terra riarsa l’assorbe e crea tanti piccoli Mr. Parvus, bandierine creative a caccia di plusvalore.

Per la no wave è diverso.
La separazione si è già data. Il capitale non può appropriarsi di quello che alle sue orecchie appare “nulla” cacofonico. Ci vorrà l’isola dei famosi per rendere digeribili i Sex Pistols. Anche la rivoluzione è spaesata. Le fabbriche a Detroit cadono come i tossici a Sampierdarena. Il padrone muta, come il sanpietrino. Non si tira più e Rossini il vestito da festa l’ha venduto per pagarsi l’entrata in discoteca. La siringa non scende sul palco con Arthur Brown, cala liquido caldo e funky.
Tutto è bene ciò che finisce nelle vene.
Heroin, cocain, la mia donna mi manda in serie B.

Se lo spazio delle merci si allarga all’infinito, l’orizzonte per la vita si chiude. Il funky perde la potenza fordista della pressa, la chitarra si assottiglia, flebile violenza che ragiona sul da farsi. Il presente, che non c’è, strazia il sassofono. L’urlo è congelato ma ragiona, associa, vivifica. A dispetto della rivolta che assume connotati condominiali, la globalizzazione è nelle note, nella vita che non teme il degrado e anzi lo proclama.

The leaves are always dead
The door is always closed
The garbage screams at my feet
I want to be alone
The sand is washed away
The sea it must’ve ate it
The cement glows grey
And i begin to like it
The dishes are cracked
The forks are plastic
The food is in cellophane
And i puke elastic

La rivoluzione sarà “brutta” o non sarà. Il paradigma si da forma, è necessario odiare il decoro. L’ordine, anche il più rosso, è morto. Ogni discernimento porta alla comprensione e da lì alla prigione.
Telecamere, manganelli, buon senso, pulizia, ristrutturazioni detassate, bar artistici.

I’m in a closet and I can’t breath
Won’t you just please release me
I can’t move and my kidneys fail
Size of this room feels like jail
I can’t talk I can’t enunciate
And I’m threatened like Sharon Tate
Suburban wealth and middle class well being
All it did was strip my feelings
Personality down the drain
Take a bullet to my eyes
Blow them out and see if I die

Gli spazi dei concerti all’aperto sono svaniti o è il concerto che diventa prigione? la forma spettacolo ci vincola? La musica rende liberi solo attraverso il comando del capitale? L’unico Basquiat buono è quello morto? Vive e lotta con Louis Vuitton?
Oppure, dobbiamo cambiare il senso delle parole? Diamoci spettacolari. Smettiamola di bere brillantina per avere toni lisci e chitarre vaporose. IO NON VALGO.

Ed eccoci al dicembre. Quale musica per una vetrina infranta? Per un bancomat che arde? Per le moltitudini che s’aggirano, tutto fuorché spettrali, nella metropoli del post-da bere?
Provare a ri-ascoltare sarebbe il primo passo. Se poi proprio volete essere calati nel reale dell’attualità suggerisco Doublethink di ⇒ Mountweazel, che non so chi cazzo siano, ma il dialogo dei due sassofoni dispiega spontaneità ed organizzazione di intrapresa sonora facendoci sognare (perlomeno) la produzione di sovversione.

Subconscious treasure
Unconscious pleasure
Wondrous sensation
Pale creation
My amputation
My assassination
My infatuation

(a Gigi Radice)

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