Di SANDRO MEZZADRA

Libertà di movimento, libertà senza confini: con questo slogan sullo striscione di apertura cominciò nel pomeriggio del 19 luglio il corteo per i diritti dei migranti, che aprì le tre giornate di contestazione del G8 di Genova.
Decine di migliaia di persone, molte più di quante se ne aspettassero gli organizzatori, sfilarono per ore lungo Corso Aurelio Saffi, arrivando alla Foce dopo avere ottenuto un allungamento del percorso da parte della Questura. Fu, è cosa nota, l’unica giornata che si concluse senza incidenti.

Un corteo del «movimento dei movimenti», certo: ma reso più ricco da senegalesi e magrebini, kurdi, palestinesi e iraniani, una rappresentanza significativa delle lotte che in Italia, nel decennio precedente, avevano reso la migrazione un terreno di conflitto e di azione politica.
E poi erano arrivate delegazioni di collettivi di rifugiati e migranti dalla Germania, dalla Francia, dalla Spagna, a prefigurare uno spazio di coordinamento e di lotta a livello europeo che fu consolidato con qualche successo negli anni successivi.

Non era scontato che il tema della migrazione acquisisse una simile centralità nelle giornate genovesi.
Qualche mese prima, a Porto Alegre, e più in generale nel dibattito di quello che a partire da Seattle si era andato configurando come un nuovo movimento globale, la migrazione era stata al più menzionata come uno dei costi sociali della globalizzazione neoliberale. Diversa era stata fin da principio la posizione di chi, l’Associazione Città Aperta di Genova in primo luogo, aveva insistito perché l’apertura delle giornate di luglio fosse proprio dedicata alle migrazioni. L’insistenza era sul protagonismo dei e delle migranti, non certo dimenticando le condizioni di violenta diseguaglianza al cui interno le migrazioni si determinano, ma mettendo in evidenza il potenziale politico della vera e propria «globalizzazione dal basso» determinata dal movimento della migrazione.

Ne derivava una chiave che consentì di leggere in modo originale il movimento che invase le strade e le piazze di Genova nelle giornate di luglio: a occupare il centro della scena erano le tensioni e i conflitti che caratterizzavano la globalizzazione, che ci apparivano messi in ombra da chi un po’ frettolosamente definiva quel movimento «no global».
La migrazione, poi, offriva un principio di apertura della composizione del movimento, al di là delle sigle delle tante organizzazioni (italiane e non) che hanno senz’altro avuto un ruolo fondamentale nella costruzione della mobilitazione.

Temi essenziali, dalla cittadinanza ai confini, venivano infine introdotti nel dibattito e nelle pratiche del movimento globale, mentre la condizione del lavoro migrante ci sembrava riflettere in forme conflittuali un insieme di trasformazioni che erano ben lungi dal riguardare soltanto un «settore» del lavoro. Sono tutte questioni che sono rimaste a lungo al centro dell’azione del movimento globale anche in Italia, per esempio nella campagna contro l’approvazione della Legge Bossi Fini e poi nella grande manifestazione del 30 novembre 2002 contro il centro di detenzione di Corso Brunelleschi a Torino, lanciata al Forum Sociale Europeo di Firenze.

Certo, l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre rese più duro il quadro al cui interno si muovevano i e le migranti, soprattutto di fede musulmana. Se già negli anni Novanta la resistenza alla migrazione aveva spesso invocato, anche in Italia, motivazioni di natura «culturale», ora la rivendicazione di una presunta purezza dell’Occidente di fronte alla minaccia terroristica apriva nuovi fronti di ostilità nei confronti della presenza migrante.
E tuttavia quest’ultima si è dimostrata irriducibile, in Italia come altrove.

Libertà di movimento, libertà senza confini: tornando oggi con la mente a quello slogan, si può forse pensare che peccasse di ingenuità. I confini si sono semmai moltiplicati e rafforzati in questi anni, una tendenza del resto che avevamo cominciato a indagare fin dagli anni Novanta. E i confini continuano a uccidere: nel Mediterraneo, nei deserti tra Stati Uniti e Messico, nel Golfo del Bengala per fare solo qualche esempio. In molti Paesi europei, come è accaduto negli Stati Uniti di Trump, gli spazi di libertà si restringono del resto anche per i e le migranti che vi risiedono da tempo (spesso con effetti di ripiegamento identitario di una parte di questi ultimi).

È tutto vero: ma la libertà di movimento continua a essere una pratica e una rivendicazione attorno a cui si determinano decisivi conflitti. Lo slogan del 19 luglio puntava proprio a imporre politicamente la centralità di questo dato e più in generale della migrazione come terreno di elaborazione e azione politica.
La mobilità è oggi più che mai un terreno cruciale di lotta e conflitto. Dopo Genova ne abbiamo avuto conferma a livello globale – negli USA, in Cina, in India per fare solo tre esempi. Ma basta guardare alle cronache italiane degli ultimi mesi per comprenderlo – al ruolo dei migranti nelle lotte nella logistica e in quelle dei rider, ma anche nel movimento per il diritto all’abitare. Molte cose sono cambiate dal luglio del 2001, ma le lotte attorno ai confini (che includono al proprio interno eterogenee forme di attivismo, come ad esempio il soccorso civile in mare) e le lotte della migrazione sono più che mai centrali oggi per qualsiasi progetto di trasformazione radicale dell’esistente.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 20 giugno 2021.

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