di SIMONE PIERANNI.
La «nuova era» promessa da Xi Jinping, il presidente della Repubblica popolare cinese e segretario del partito comunista cinese, punta a realizzare la «moderata prosperità» per la maggior parte della popolazione cinese e a fare delle metropoli principali delle «città vetrina» contraddistinte da una «qualità della vita», unita a «sicurezza» e «decoro» che non prevede povertà.
Questo assunto è stato dimostrato di recente: da fine novembre, sfruttando una terribile tragedia, ovvero la morte di 19 persone, sette i bambini, a causa dell’incendio di una struttura fatiscente nella quale queste persone vivevano, a Pechino è cominciata una campagna di 40 giorni contro i lavoratori migranti, ovvero le fasce più povere della popolazione, spesso stipati in case piccole, senza servizi, in condizioni di vita precarie. Si tratta di quei migranti interni – stimati in circa 8 milioni solo nella capitale – che lì hanno cercato lavoro, spesso le mansioni più umili, accettando poi di vivere in luoghi angusti, il più delle volte abusivi, quando non direttamente nei piccoli negozi che gestiscono. Il decoro, la qualità della vita e la sicurezza sono le parole d’ordine con cui il partito comunista ha ordinato il loro sfratto. Per queste persone, il livello più basso del miracolo cinese, non resta che trovare sistemazioni di fortuna, durante i giorni più freddi del rigido inverno di Pechino, o ritornare nelle proprie città di origine. Si tratta di una forma di gentrificazione terribile, spietata e offuscata a livello internazionale solo dal nuovo «peso» geopolitico della Cina di Xi Jinping.
Siamo di fronte, di fatto, ad azioni che seguono ad altre che fanno parte del piano di urbanizzazione delle grandi metropoli studiato dal governo (per il periodo dal 2014 al 2020) e che già nel 2016 avrebbe cacciato dalla città almeno 300mila migranti. Pechino, come altre, avrà un accesso a numero chiuso per i residenti: diventerà una smart city a uso e consumo di chi avrà i soldi per viverci, per spenderli, per pagare affitti sempre più alti e per non vedere più poveri sulle proprie scintillanti strade.
L’ultima ondata di sfratti non ha però lasciato indifferente la popolazione locale: addirittura ci sono state sparute manifestazioni di protesta; un centinaio di intellettuali ha firmato una lettera-petizione contro gli sfratti; decine di artisti e documentaristi hanno ripreso le scene e di sicuro verranno prodotti reperti audio e video a dimostrare questa «campagna» del governo cinese.
Chi ha già documentato parte di questo «processo» è sicuramente Song Yi, che insieme a Wang Dezhi ha dato vita al Migrant Workers Film Collective. I due condividono «lo stesso senso di responsabilità per una chiamata urgente: combattere le difficoltà che i lavoratori migranti cinesi subiscono a causa di violenze sistematiche. Con la nostra telecamera affrontiamo le vite di coloro che sono colpiti da tali violenze e la struttura sociale più ampia che permette queste violenze così crudeli e invisibili. Con la nostra telecamera sosteniamo anche che la classe operaia e l’intellettuale devono lavorare fianco a fianco per capire quale sia il soggetto e l’oggetto di azione nel contesto odierno».
Artisti impegnati dunque. Song Yi ha realizzato il documentario «After us, the deluge» proprio sulle demolizioni delle scuole nelle quali studiano i figli dei lavoratori migranti. «L’anno scorso – racconta – ho visto molti di questi bambini tornare alla propria città natale, così ho pensato che fosse una questione emergenziale».
Quello che tutti ci chiediamo, di fronte alle immagini di persone per strada che trascinano i propri pochi averi è che futuro possano avere: «È difficile da immaginare – dice Song Yi – perché non hanno mai fatto queste esperienze prima. La maggior parte delle persone pensano che sia un disastro molto serio e che non ci siano opportunità per cambiare, perché il loro potere è molto lieve. Il governo controlla tutto, molte organizzazioni dal basso o non governative sono debolissime e le autorità quindi si sentono libere di agire con queste modalità».
In tutto questo non mancano contraddizioni: molti di questi lavoratori, infatti, sono i riders che consegnano cibo e merci proprio per la classe media. Come ha sottolineato su Jacobin Eli Friedman, della Cornell University e autore di Insurgency Trap: Labor Politics in Postsocialist China:
Questa campagna di sfratti di massa mostra che lo stato sta volgendo le spalle ai datori di lavoro che dipendono dalla manodopera a basso costo, schierandosi invece con interessi immobiliari desiderosi di ottenere maggiori profitti dei semplici affitti di alloggi a basso costo.
questo articolo è stato pubblicato sul manifesto il 20 dicembre 2017